10 giugno 2023

UN MODELLO NUOVO DI INTELLETTUALE

 

Titolo scaduto

Enrico Euli
10 Giugno 2023

Nelle pagine di Comune il concetto di intellettuale ha sempre provocato una certa allergia. Sarà perché di fatto allude a un élite spesso altezzosa, perché divide in modo netto ciò che è manuale e corporeo da ciò che riguarda il pensiero, oppure perché Gustavo Esteva – di cui sentiamo terribilmente la mancanza – preferiva definirsi intellettuale deprofessionalizzato. Tuttavia, nessuno può negare che viviamo un tempo nel quale ci sarebbe molto bisogno della capacità di riconoscere la complessità del mondo, la capacità cioè di individuare le cause profonde, le relazioni, i contesti in cui prendono forma i problemi. Per questo l’articolo scritto da Enrico Euli – per la rivista internazionale di studi interculturali Medea, nata all’interno dell’Università di Cagliari – ci sembra prezioso: il testo analizza in modo critico le possibilità di esistenza della figura dell’intellettuale nel mondo contemporaneo, caratterizzato da iperspecializzazione della cultura tecno-logica (sempre più invadente anche nella scuola e nell’università), digitalizzazione forzata delle relazioni (viviamo in contesti “social-asocializzati”, in cui le relazioni si svolgono perlopiù in ambiti virtuali e il dialogo e la conversazione sono ridotti a comunicazione trasmissiva), spoliticizzazione dei contesti sociali (la cosiddetta società civile è oggi nel migliore dei casi soltanto opinione pubblica) e catastrofizzazione delle dinamiche planetarie

“E non sono affatto un’eccezione […] Ci sono milioni di altri come me. Persone ordinarie che incontro ovunque, tipi in cui mi imbatto al pub, conducenti di autobus e rappresentanti di ferramenta hanno la sensazione che il mondo stia prendendo una brutta piega. Possono percepire che le cose si stanno frantumando e che stanno collassando sotto i loro piedi. Ed ecco qui quest’uomo istruito, che ha vissuto tutta la sua vita tra i libri e che ha assorbito la storia finché non ha iniziato a uscirgli dai pori, e non riesce nemmeno a vedere che le cose stanno cambiando.1

1. L’intellettuale non è uno studioso, uno scienziato, un uomo colto. Può essere preparato, competente, efficace verso un compito, capace di perfette prestazioni. Ma non per questo diviene un intellettuale. L’intellettuale non si limita infatti a conoscere quel che si deve sapere nel suo campo e ad applicarlo correttamente, da specialista; non risolve ‒ solo e soprattutto ‒ problemi tecnici, pur potendo essere (anche) un tecnico. L’intellettuale comprende innanzitutto le relazioni e i contesti in cui quel determinato problema si pone. E scopre quindi che ‒ sempre ‒ un problema sorge all’interno di dilemmi ben più ampi e controversi, irresolubili in sé e che coinvolgono proprio quei livelli superiori, relativi alla forma delle relazioni e dei contesti. L’intellettuale è colui che è capace, pertanto, di una lettura complessa. Questo è il primo impedimento che si para oggi dinanzi alla possibilità di essere e divenire intellettualiSiamo ormai formati soltanto all’esecuzione operativa di compiti, a partire da conoscenze tecniche utilizzabili nella risoluzione di problemi evidenti, lineari, urgenti. Anche la formazione scolastica ed universitaria si muove da tempo all’interno di questo triste mood dei nostri tempi, la standardizzazione: un movimento che è stato accelerato ancor più con la DAD, ulteriore passaggio verso l’allineamento-linearizzazione dei processi di insegnamento-apprendimento. E, all’interno di emergenze crescenti e sempre più frequenti (generate proprio dalla carenza di pensieri e visioni complesse, capaci di lungimiranza e interconnessione), questa tendenza viene ulteriormente rafforzata e giustificata in nome di una sedicente responsabilità: la tecnica si fa così da sé ideologia di se stessa (tecno-logia) e viene chiamata a salvarci dai problemi che essa stessa ha generato (o, perlomeno, aggravato) proprio in conseguenza della sua stessa epistemologia riduzionista. Il totalitarismo oggettivista, screditando la soggettività quale portatrice di un sapere legittimo, non può che espellere così dalla scena anche l’intellettuale stesso in quanto soggetto di conoscenza. L’epistemologia tecno-riduzionista si dimostra infatti capace di tutto, ma non di favorire – purtroppo ‒ la nascita e la crescita di intellettuali; anzi, ne rappresenta l’orgoglioso ed esaltato superamento in quanto con essa si andrebbe oltre l’idealismo intellettualistico classico e si configura quale alternativa per eccellenza antagonistica ad esso.

Lo guardai appoggiarsi alla libreria […] L’intera sua vita che gira intorno alla vecchia scuola e ai frammenti di latino, greco e poesia […] E fui colpito da uno strano pensiero. È morto. È un fantasma. Tutte le persone come lui sono morte. Mi venne in mente che forse molte delle persone che si vedono in giro sono morte […] Forse un uomo muore davvero quando si ferma il cervello, quando perde il potere di assorbire una nuova idea. […] Esistono molte persone così.2

2. Il secondo ‒ più recente, attualissimo ed ancora più evidente nel prossimo futuro ‒ fattore di impedimento all’esistenza di intellettuali è che essi possono nascere e vivere e prosperare solo all’interno di una vita sociale che li produca, li alimenti e li apprezzi. Non è più il caso della nostra cultura socialeviviamo infatti ‒ e sempre più totalitariamente ‒ in un contesto social-asocializzato, in cui le relazioni si svolgono perlopiù in ambiti virtuali, il dialogo e la conversazione sono ridotti a comunicazione trasmissiva, i legami deboli della rete vanno a sostituire i legami forti delle comunità sociali. In una simile prospettiva, non stupisce che il meta-livello comunicativo e cognitivo (tipico dell’atteggiamento intellettuale), ormai marginalizzato nel contesto sociale diretto, riemerga nel meta-verso (anche se soltanto nel nome). L’intellettuale, dentro un mondo siffatto, può preservare un ruolo soltanto come opinion leader da talk-show, spin doctor di un politico, influencer fashionista sui social, consulente esperto in un think-tank, ghost writer per l’industria editoriale. Sostanzialmente, vendendosi. Se non lo fa (ma anche se, soltanto, rifugge i social) si riduce a vestale di una religione demodè, a difensore nostalgico del tempo andato, a cultore di materie anacronistiche ed esoteriche. L’intellettuale, divenuto così residuale, fa la fine già vissuta dai sapienti nel V secolo a. C. (sostituiti dai filosofi), dai filosofi nel XVII della nostra era (surclassati dagli scienziati) e dai sacerdoti alla fine dell’Ottocento (surrogati da giornalisti e psicanalisti). Si potrà sempre riciclare anche così in esponente di un culturalismo vintage, che comunque potrà coltivare le sue nicchie ‒ ed i suoi dividendi ‒ nel mercato dell’edutainment globalizzato.

Sarebbe esagerato dire che la guerra avesse trasformato le persone in intellettuali, ma per il momento li aveva trasformate in nichilisti […] Se la guerra non ti uccideva, era destinata a farti pensare. Dopo quell’indescrivibile e stupido caos non si poteva continuare a considerare la società come qualcosa di eterno e indiscutibile, come una piramide. Sapevi che non era altro che un casino.3


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3. Il terzo impedimento è tutto interno a quel che è divenuta oggi la politica. L’intellettuale del secolo scorso è immediatamente caratterizzato dal suo engagement: non si poteva concepire come tale se non era impegnato in politica; non necessariamente in un partito, ma in un posizionamento etico, un orientamento di valori, un orizzonte culturale di scelte. Era partecipe, insomma, ‒ per statuto ‒ di un dibattito collettivo in cui è inevitabile schierarsi, confliggere, opporsi, proporsi, manifestare e manifestarsi, mettersi in gioco. Senza seguire i sondaggi o le convenienze del momento, ma aderendo ad idee e movimenti, o addirittura creandoli e seguendo il più possibile i convincimenti della propria coscienza. Tutto questo oggi non può più accadere, se non su singole questioni che non durano più di un attimo, fatte e disfatte come sono dai social-media e dallo zapping emotivo degli astanti ‒ likers or haters ‒ trasformati in pubblico. L’evaporazione della politica è andata di pari passo, infatti, con la dissoluzione della società civile, ridefinita man mano come opinione pubblica e, al momento, ridotta a mero pubblico, ed in quanto tale sottoposto appunto a soli messaggi pubblicitari. La politica è divenuta oggi solo uno dei molteplici contest del marketing comunicativo gamificato, all’interno dell’immenso centro commerciale nel quale siamo costretti a vivere. Qui possono permanere balbettii, frasi sconnesse, parole ‒ pur talvolta intelligenti e ragionevoli ‒ che però trapassano nel tritatutto che ci informa su tutto e tutto riduce velocemente a scarto da rimuovere nei cassonetti indifferenziati dell’oblio. L’intellettuale, in un contesto simile, non può esistere, proprio perché vengono a mancare le condizioni di fondo per un impegno che vada oltre l’usa e getta del fast food politics. L’intellettuale potrebbe oggi esistere politicamente solo in quanto dissidente e renitente: ma le nostre società amano e difendono (a parole) solo i dissidenti degli altri. E ‒ a quei renitenti che fanno coscienziosamente il morto ‒ resta, se vogliamo essere onesti, solo il gusto di sopravvivere preservando il rispetto di se stessi. Che non è nulla, ma – sinceramente ‒ è poca cosa, che basta a star vivi, ma non a vivere.

Il grosso bombardiere nero ondeggiò leggermente nell’aria e sfrecciò avanti […] Uno dei venditori sollevò gli occhi a guardarlo per un secondo. Sapevo cosa stava pensando. Perché è quello che stanno pensando tutti gli altri. Non devi essere un intellettuale per fare certi pensieri oggigiorno. Tra due anni, tra un anno, cosa dovremo fare quando vedremo una di quelle cose? Precipitarci nel seminterrato e farcela addosso per la paura.4

4. Il quarto impedimento all’esistenza dell’intellettuale appare di natura ‒ come potremmo dire? ‒ cosmologica. La catastrofe che ci avvolge ‒ se si vuole tentare di essere ancora oggi degli intellettuali ‒ va ammessa e pronunciata. Una buona parte degli uomini di scienza e di cultura iniziano a riconoscerla, a smettere di rimuoverla; una parte continua invece, imperterrita, a negarla. Ma entrambe le parti continuano, perlopiù, a non riconoscere gli effetti dirompenti che la catastrofe in corso dovrebbe avere proprio sulla loro visione di se stessi (e di noi stessi, intesi come umani) nel cosmo. Il cosmo umano (e umanistico-umanocentrico) dell’Antropocene, infatti, va verso il caos: sta perdendo il suo ordine interno, vede dileguare il controllo che riteneva di poter esercitare sul pianeta, assiste attonito ai cataclismi che la natura gli scatena contro e a cui reagisce ancora una volta soltanto con artifici tecnici che riducano il danno, scelgano il male minore e ci allontanino ancor più da un buon vivere. Gli intellettuali, se ancora esistessero, dovrebbero riconoscere ‒ nella catastrofe ‒ anche il loro stesso fallimento: storico, culturale, ma ancor più ‒ potremmo dire ‒ ontologico. Non potrebbero farlo senza disconoscere ancor più il loro ruolo ed il loro senso. E, quindi, non lo fanno e non lo faranno. Ed è anche per questo che la catastrofe proseguirà ad avvolgerci ‒ intellettuali o meno ‒ nel suo funereo manto.

È strano. Non sono uno sciocco, ma nemmeno un intellettuale e Dio sa che in tempi normali i miei interessi non sono molto diversi da quelli che ci si aspetterebbe in un tizio di mezza età da sette-sterline-a-settimana con due bambini. Eppure, ho abbastanza buonsenso da vedere che la vecchia vita a cui eravamo abituati sta per essere completamente distrutta. Sento che sta avvenendo.5

5. Senza riconoscere il fallimento dell’umanesimo e senza attraversare la catastrofe non sussisteranno traiettorie future e ancora possibili per l’intellettualità. Senza una re-visione critica del passato (vero primo compito di un intellettuale oggi), ci si condanna a non poter vedere altro e guardare oltre. La catastrofe abbatterà il totem del TINA (There is no alternative), quinto ed ultimo impedimento, che da tempo ci induce a credere che ‘non ci siano alternative’ a questo nostro mondo, che definiamo ancora civiltà? Quando un giornalista inglese chiese a Gandhi che cosa ne pensasse della civiltà occidentale, il Mahatma rispose, spietatamente ironico: “Sarebbe un’ottima idea!”. Un intellettuale del futuro dovrebbe e potrebbe ri-guardare ironicamente quel che è stato l’umanesimo e riconoscerne i limiti intrinseci e quel che gli è mancato: un’umanità diffusa, partecipe e condivisa ‒ non imperialisticamente ‒ fra tutti gli umani, e un’ecologia della mente, capace di concepire l’umano in una rete di interdipendenze necessarie e vitali con il vivente. Solo se la specie umana riuscirà a fare questo salto quantico potrà sopravvivere e riiniziare a vivere culturalmente e intellettualmente. E, in un contesto così ridefinito, a far rinascere degli intellettuali. Sempre che, nel frattempo, non si sia estinta, dopo gli intellettuali, anche l’umanità stessa.

È strana quella tremenda tristezza che a volte ti attanaglia a tarda notte. In quel momento il destino dell’Europa mi sembrava più importante dell’affitto, delle rate per la scuola dei bambini e del lavoro che avrei dovuto fare l’indomani. Per chiunque debba guadagnarsi da vivere questi pensieri non sono altro che una totale sciocchezza. Ma non mi uscivano dalla mente […] L’ultima cosa che ricordo di essermi chiesto prima di addormentarmi era perché diavolo dovrebbero importare a uno come me.6


Bibliografia

Orwell G. (2021), Una boccata d’aria, RL edizioni, Milano, trad. it. di F. Vitellini (Coming up for air, Victor Gollancz Edition, UK, 1939).

L’autore

Enrico Euli

Ricercatore (M-PED/03), docente di Metodologie e tecniche del gioco e del lavoro di gruppo nella Facoltà di Studi Umanistici, Università di Cagliari. È autore de I dilemmi (diletti) del gioco (2004), Casca il mondo!Giocare con la catastrofe (2007), editi tutti da La Meridiana, Fare il morto (2016) e Homo homini ludus. Fondamenti di illudetica (2021), editi da Sensibili alle Foglie. Il suo lavoro è incentrato sulla formazione alla nonviolenza e all’ecologia nel lavoro di gruppo e nei contesti didattici, per sviluppare attività non direttive e non frontali, automotivanti, metacognitive e cooperative. Email: euli@unica.it

Come citare questo articolo

Euli, Enrico, Titolo scaduto, “Medea”, IX, 1, 2023, DOI:


Testo ripreso da https://comune-info.net/titolo-scaduto/

09 giugno 2023

IL SUD DI MARIO GORI

 



SUD
Il sud ha strade di fango
e siepi d’agavi e rovi
e case basse tinte di fumo
e donne vestite di nero
che lavano avanti le porte
e attendono uomini e muli
con occhi d’ansia, cupi di tramonto.

E uomini ha il sud
vestiti di pastrani militari
e berretti maffiosi,
le barbe lunghe d’una settimana,
l’ossa stoccate d’annate di zappa
e il sangue fosco di silenzio e amore.

Il sud prega e bestemmia
i santi neri delle processioni.
E vecchi ha ancora il mio sud,
accattoni di sole,
vecchi che bevono vino
e intrecciano fili di giunco
e reti rattoppano
e narrano antiche sfortune.

Si butta l’olio sull’acqua
per le ragazze che han seni di noci
e attendono morsi di uomini
e sull’acqua poi il sale
sputando parole saracene
contro malocchio e fatture.
Ma ci si perde a vent’anni nel sud
per un garofano rosso.

Mario Gori

IL MERCATO DELLE ARMI

 


Grandi affari con l’Algeria

Antonio Mazzeo
08 Giugno 2023

Il 25 maggio si è conclusa la visita istituzionale in Algeria del Segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti e di una delegazione dei vertici aziendali di Leonardo SpA. Si prevede di poter accelerare i tempi per la firma degli accordi accessori e dell’ordine dei primi sette elicotteri AW139 dei 70 totali (di cui 53 per il mercato algerino)”. Il gruppo Leonardo (già Finmeccanica) ha da tempo in Algeria una florida attività di commesse nel settore militare-sicuritario in cui spiccano cannoni, siluri antisommergibile e, appunto, elicotteri

AW139. Foto C/C tratta da https://en.wikipedia.org

Algeri è uno dei maggiori partner commerciali e militari della Russia nel continente africano, ma l’Italia non smette di farci affari multimilionari. Dopo gli accordi strategici sottoscritti nel settore energetico dall’ENI con l’azienda di stato SONATRACH, è il complesso militare-industriale a bussare alle porte del governo della Repubblica Democratica Popolare di Algeria per sviluppare la produzione e le commesse nel settore bellico.

Il 25 maggio si è conclusa la visita istituzionale in Algeria del Segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti, generale Luciano Portolano, e di una delegazione dei vertici aziendali di Leonardo SpA guidata da Pasquale Di Bartolomeo (chief commercial officer del gruppo).

Nella capitale nordafricana la delegazione italiana ha incontrato il segretario del ministero della Difesa, maggior generale Mohamed Salah Benbicha. Prima di lasciare Algeri, il generale Portolano e il dottor Di Bartolomeo si sono recati presso il sito industriale di Aïn Arnat, nella provincia di Sétif (Algeria nord-orientale), sede della joint venture creata nel marzo 2019 da Leonardo ed EPIC/EDIA (Establissement Public de Caractère Industriel/Establissement de Developement des Industries Aeronautiques), azienda a capitale pubblico che opera in campo industriale-aeronautico militare.

“Il Segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli Armamenti ha sottolineato come, anche in questo caso, la sinergia tra il Ministero della Difesa e l’industria italiana rappresenti un esempio dell’efficienza del Sistema Difesa del Paese”, riporta lo Stato Maggiore della difesa. “L’occasione ha consentito di imprimere un ulteriore impulso affinché vengano finalizzate tutte le condizioni necessarie a rendere concretamente operativa la joint venture industriale italo-algerina e passare alla fase industriale di assemblaggio elicotteri”.

“In particolare sono state create le contingenze per accelerare i tempi per la firma degli accordi accessori e dell’ordine dei primi sette elicotteri AW139 dei 70 totali (di cui 53 per il mercato algerino)”, aggiunge la Difesa. “La controparte algerina ha confermato lo stato di avanzamento della negoziazione e che lo stesso Ministero della Difesa algerino ha già allocato le risorse finanziarie per garantire la sostenibilità industriale nei prossimi anni”.

Luciano Portolano aveva incontrato l’omologo algerino Mohamed Salah Benbicha in occasione del 12° Comitato bilaterale Italia-Algeria tenutosi ad Algeri il 2 marzo 2020. Obiettivo centrale del vertice, il rafforzamento della partnership e delle relazioni industriali-militari bilaterali, a partire, ovviamente, del rilancio dell’accordo Leonardo-EPIC/EDIA per la produzione di elicotteri da guerra, dopo il “rallentamento” per la pandemia da Covid 19.

Lo stabilimento di Aïn Arnat è di proprietà per il 51% del Ministero della Difesa algerino e per il restante 49% dell’holding italiana. Secondo l’accordo del 2019, Leonardo seguirà l’assemblaggio, la vendita e la fornitura di assistenza per vari modelli di elicottero AgustaWestland, principalmente per i requisiti nazionali algerini (velivoli leggeri e medi da trasporto, evacuazione medica, sorveglianza e controllo). Una quota della produzione sarà destinata all’export nel mercato africano e mediorientale; la joint venture fornirà ai clienti anche servizi post-vendita come riparazione e revisione, addestramento e sviluppo di capacità tecnologiche nel campo della produzione di materiali aeronautici.

Il gruppo Leonardo (già Finmeccanica) ha ottenuto in Algeria altre importanti commesse nel settore militare-sicuritario. Nel gennaio 2008 le controllate SELEX Sistemi Integrati ed Elsag Datamat firmarono un contratto del valore di 230 milioni di euro con la Gendarmeria Nazionale per la fornitura di apparati e sistemi per la sorveglianza, il controllo e la sicurezza, supportati da una rete di comunicazione per l’integrazione delle differenti tecnologie. Nello specifico furono consegnati una struttura flessibile C4I (Comando, Controllo, Comunicazione, Computer ed Intelligence), con centri operativi multipli a livello regionale ed intermedio, postazioni di comando mobili, nonché 250 centri di controllo locale da dislocare sull’intero territorio algerino.

SELEX Sistemi Integrati in qualità di prime contractor curò la logistica, l’addestramento dei tecnici algerini e l’assistenza post-vendita; SELEX Communications fornì il sistema di comunicazioni mobili TETRA, oltre alle connessioni radio HF, satellitari ed a microonde. Elsag Datamat si incaricò invece della fornitura delle applicazioni software per il funzionamento dei sistemi di sorveglianza.

Il 15 luglio 2010, in occasione della visita ufficiale in Algeria dell’allora ministro degli Esteri Franco Frattini, fu annunciata una commessa di 30 elicotteri AgustaWestland del valore di 460 milioni per “rinnovare” la flotta delle forze armate algerine. In verità, secondo il sito specialistico sudafricano Defencewebnel periodo compreso tra il 2010 e il 2016 il gruppo italiano ha fornito alle forze armate, di polizia e alla gendarmeria algerine una settantina di elicotteri di differente tipologia, per un importo complessivo di 1 miliardo e 300 milioni di dollari (8 velivoli AW101, 24 AW109, 8 AW119 Koala per l’addestramento dei piloti, 20 AW139 e 10 Super Lynx).

Leonardo ha consegnato pure una partita di cannoni OTO Melara 127/64 LW (Lightweight) per armare le nuove fregate della classe Meko A200 della Marina militare algerina, realizzate in Germania a partire del 2016 dal gruppo ThyssenKrupp Marine Systems. Le fregate Meko A200 dispongono pure di siluri antisommergibile MU90 realizzati dal raggruppamento europeo “Eurotorp”. partecipato al 50% da WASS – Whitehead Alenia Sistemi Subacquei S.p.A., società di Leonardo con sede a Livorno.


Articolo pubblicato in Africa ExPress l’1 giugno 2023 e sul blog di Antonio Mazzeo

POTERI BUBBLICI E VIOLENZE INTERIORI. Un commento all'ultimo film di BELLOCCHIO

 



POTERI PUBBLICI E VIOLENZE INTERIORI

di Francesco Melchiorri

 

Un sontuoso ritorno al dramma storico in costume: Marco Bellocchio resta nel solco della storia d’Italia attraversandola con gli occhi di personaggi sociopolitici realmente esistiti che a loro modo ne sono stati protagonisti, caratteristica costante delle ultime pellicole del regista di Bobbio. Per fare ciò decide però nel suo ultimo lavoro di compiere un ulteriore passo indietro, fino al tardo Risorgimento e agli anni immediatamente precedenti e successivi all’unità d’Italia: dramma storico, si è detto, ma che pesca consapevolmente nei meandri della grande storia, spesso dimenticati quando non nascosti, alla ricerca di quegli ingranaggi celati che sembrano originare i meccanismi di potere manifesti. Potere è la parola chiave di Rapito, che verrebbe da declinare più propriamente al plurale: di poteri è infatti condita, dai poteri è del tutto governata, manovrata l’intera narrazione, liberamente ispirata al caso Edgardo Mortara e al libro di Daniele Scalise Il caso Mortara. La vera storia del bambino ebreo rapito dal papa, uscito per iMondadori nel 1996 e in fresca ristampa sulla scia del film bellocchiano.



Moritz Daniel Oppenheim, “Il rapimento di Edgardo Mortara” (1862)

 

I poteri che Bellocchio scandaglia si attorcigliano attorno a uno dei suoi blocchi tematici più ricorrenti, quando non costanti: la religione osservata dal punto di vista degli apparati terreni, storici, umani. Edgardo Mortara è un bambino appartenente ad una famiglia borghese ebraica, residente a Bologna. Una sera del giugno 1858, quando il bambino ha quasi sette anni e la città è ancora sotto il controllo dello Stato Pontificio, si presentano in casa il maresciallo locale e un manipolo di poliziotti per portare via il sesto figlio di Salomone “Momolo” Mortara e di sua moglie Marianna Padovani: secondo le leggi vigenti, poiché il bambino risulta battezzato, in quanto non cristiani essi non hanno più il diritto di crescerlo, perdendo di fatto la patria potestà. Dopo una proroga di ventiquattro ore il bambino viene portato via di forza, e trasferito direttamente a Roma presso la Casa dei Catecumeni, al fine di essere “rieducato” alla sua fede insieme ad altri bambini di famiglia ebraica ma, come lui, battezzati e allontanati. La famiglia farà di tutto per opporsi a questo rapimento istituzionalizzato e per avere frequenti contatti col bambino, sempre visitato in presenza di un religioso; l’attenzione internazionale che porterà il caso nell’occhio del ciclone però, così come la volontà della famiglia Mortara di continuare a professare la fede ebraica trasmettendola per quanto possibile anche ad Edgardo, portano in breve tempo a una separazione completa del bambino dai familiari. Col tempo egli sarà catechizzato e (ri)battezzato alla presenza del Papa Pio IX, che lo accoglierà quasi come un figlio prezioso nella famiglia vaticana. Dopo un’ellissi temporale di dieci anni, scopriamo che Edgardo è ormai seminarista e apparentemente convinto cattolico, ancora legato da uno stretto legame di sudditanza con il pontefice e sempre più lontano dalla famiglia d’origine. Intanto il Risorgimento ha unito la penisola e sta per annettere al Regno d’Italia la futura capitale Roma: il fratello di Edgardo è uno dei partecipanti alla breccia di Porta Pia, dove riesce a ritrovarsi faccia a faccia con lui, il quale lo scaccia riconoscendovi un usurpatore politico. Qualche tempo dopo un Edgardo sacerdote viene a sapere dell’imminente morte della madre e si reca in casa con l’intento di battezzarla sul letto di morte. Il film si conclude nell’incomunicabilità tra madre e figlio, tra il rifiuto della madre di convertirsi, la sua morte mentre recita per un’ultima volta lo Shemà e l’indignazione dei fratelli nei confronti di Edgardo, il quale solo e apparentemente turbato ripensa alla sera del rapimento, quando recitò per l’ultima volta lo Shemà insieme alla madre.

 

In una trama che intreccia egregiamente storie personali e personaggi della storiografia, tragedia pubblica e dramma privato, la rete a più livelli dei poteri rappresentati risulta a tratti quasi inestricabile: il potere temporale della Chiesa Cattolica, incarnato da un Pio IX bavoso, paranoico e ancora epilettico – a dispetto dell’agiografia restituita del beato papa liberale e miracolato – è “solo” il grande contenitore malato in cui si muovono un’infinità di ulteriori effetti collaterali, manifesti in modo diverso nei tanti personaggi, a partire da quello di Edgardo. Proprio perché mostrata solo in minima parte, la violenza psicologica che egli subisce si propaga in ogni singola inquadratura, arrivando invisibile e potentissima fino al climax ascendente del finale. Gli stessi prelati cattolici che gravitano attorno al papa o al bambino, d’altra parte – qui sta il deflagrante tragico realismo di cui si serve Bellocchio – appaiono del tutto in buonafede nel compiere la loro missione catechetica: essi compiono o avallano un crimine così efferato nei confronti di un bambino innocente convinti di fare semplicemente il suo bene. Ed è proprio questo autoconvincimento ad agire nel bambino e nella sua crescita, ad impossessarsi della sua personalità turbata e a farlo convincere, per autodifesa, per sopravvivenza, ad accettare la nuova volontà divina nella sua storia personale. All’opposto, i suoi genitori che credono in un’altra verità rivelata si oppongono strenuamente a una violenza giustificata e prevista dalle leggi degli uomini, cui nulla può opporre la legge del cuore. Così, la violenza si insinua anche nel rapporto tra moglie e marito: intossicando anche la relazione alla base della solida famiglia numerosa che vedevamo all’inizio, mette in dubbio a tratti l’idea di un cammino comune e condiviso, la forza della coppia così come dei suoi componenti. È un potere che anziché convertire sovverte, quello rappresentato in Rapito, fino a portare il figlio maggiore dei Mortara, Riccardo, a rifiutare qualsivoglia religione in favore dell’impegno politico: ma questa sua apostasia non basterà a convincere il fratello Edgardo, il quale non sa e non può più scindere tra potere spirituale e temporale nella sua vita, giunto com’è a una scissione intima che vede il proprio culmine al capezzale della madre morente, ma che con il consanguineo è manifestata nella frase simbolo del suo percorso interiore, sapida di un evangelismo capovolto e contraddittorio: «Ora vattene, fratello mio».

 

L’odio in nome dell’amore, il peccato senza cui non può esserci salvezza, la mortificazione personale per la vita eterna: è la grande ideologia cattolica, storicamente riversata anche sugli ebrei, gli uccisori di Cristo, ebreo anch’egli ma venuto a liberare dalla legge i suoi. Giustificazioni ideologiche che perdono il confronto con la ricostruzione storica dei fatti, portando alla luce violenze, soprusi, condizionamenti psicologici, morti sospette, vite represse che arrivano fin dentro la storia più recente (basti pensare, a titolo meramente esemplificativo, alle case Magdalene in Gran Bretagna, o alle tante pseudo-sette ancora tollerate all’interno del cattolicesimo). Anche rimanendo sul piano sociale, però, quello che Bellocchio pare volerci dire è: la nostra rimane una società cattolica e conservatrice. Poco meno di cento anni prima della Liberazione la Chiesa la faceva da padrone sul piano politico, quasi ottant’anni dopo di essa, forse, le cose sono cambiate sulle carte geografiche, ma non troppo nella sostanza, o sicuramente troppo poco sul piano individuale e quindi sociale: il proverbiale ateismo del regista, del resto, non ha mai messo in dubbio – rafforzandola anzi – la sagacia della sua filmografia nel cogliere quanto la cultura cristiana e in particolar modo quella cattolica risultino caratteristiche nel passato italiano e quindi costitutive del presente socioculturale, frutto schizofrenico e confusionario, tra le altre cose, di una prepotenza ideologica reazionaria che ancora condiziona e influenza più o meno inconsciamente le scelte collettive. Per mezzo di meccanismi alla base di molti e condivisi sensi di colpa interiori, il caso Edgardo Mortara sembra quindi assurgere a emblema della condizione psichica contemporanea, ma come il piccolo protagonista a circa metà film crede di poter rimuovere oniricamente il proprio trauma, nella scena più squisitamente autoriale del film il regista ottantatreenne pare suggerirci una soluzione delle sue: invece che venerare nei secoli una figura di morte, sarebbe bastato schiodare quel Cristo dalla croce così come fa Edgardo, permettendogli di scendere da essa, levarsi la corona di spine e passeggiare liberamente come un Aldo Moro in Buongiorno, notte qualunque; possibilità attuabile, se proprio non in ogni forma catartica d’arte, almeno all’interno di un qualunque film di Marco Bellocchio.


Pezzo preso da  https://www.leparoleelecose.it/?p=47067

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IL CORTOCIRCUITO DEI SOVRANISTI. Cosa va a fare la Meloni in Tunisia?

 


Il cortocircuito dei sovranisti

Maurizio Ambrosini

09 Giugno 2023

Come in uno scadente film già visto, la premier Giorgia Meloni è ritornata a Tunisi e ha rincontrato il presidente Kais Saied; poi ha ricevuto il premier libico Abdul Amid Dbeibeh, mentre ai primi di maggio aveva avuto un colloquio con il suo antagonista, il generale Haftar. Gli sbarchi dal mare, nel frattempo, hanno superato quota 50.000, tra cui 5.700 minori non accompagnati, malgrado un lieve rallentamento a maggio (8.155 contro 8.720 del 2022), dovuto probabilmente al maltempo e alle condizioni del mare. Il governo che aveva promesso di fermarli è in evidente imbarazzo.

Ora Meloni e Matteo Salvini sono un po’ in difficoltà nel chiedere le dimissioni del ministro degli Interni ad ogni sbarco, come facevano ai tempi di Luciana Lamorgese. Il blocco navale si è rivelato improponibile, mentre le limitazioni e il contrasto al lavoro delle Ong non hanno avuto gli effetti propagandati sulla riduzione degli arrivi. Non resta dunque, in questa logica, che ripiegare sul fronte esterno, anzitutto quello del contrasto delle partenze e dell’ingaggio dei Paesi di transito come vigilanti: una linea già sperimentata, che trova un sostanziale consenso presso i partner dell’Ue, da alcuni più convinto ed esplicito, da altri più implicito e reticente. La visita di due mesi fa non dev’essere però andata molto bene, se Meloni è dovuta tornare a Tunisi, reiterando le promesse di appoggio a Saied per sbloccare il prestito da 1,9 miliardi del Fondo Monetario Internazionale e provare a puntellare il regime sempre più autoritario instaurato a Tunisi. Chiaro quanto deprecabile lo scambio: risorse economiche e legittimazione politica per il governo che ha sepolto l’ultima speranza democratica suscitata dalle primavere arabe, in cambio di un’accresciuta sorveglianza sui porti d’imbarco. Saied però deve affrontare a sua volta almeno un paio di problemi, e non è detto che voglia o possa accontentare le attese del governo italiano: anzitutto, ha scatenato a sua volta una campagna xenofoba, agitando anch’egli lo spettro della sostituzione etnica.

Gli ivoriani, primo gruppo di sbarcati quest’anno (7.450), fuggono in gran parte dalla Tunisia, dove non sono più tollerati come in passato. In secondo luogo, arrivano dal mare anche migliaia di cittadini tunisini (3.688 nel 2023), in fuga da crisi economica, repressione politica, mancanza di prospettive per il futuro. I governi delle sponde meridionali e orientali del Mediterraneo sono di solito più collaborativi quando si tratta di reprimere gli spostamenti di cittadini di altri Paesi, che possono essere imprigionati, scacciati o maltrattati impunemente, ma in questo caso trattenerli sul territorio contraddirebbe la campagna xenofoba, e rimandarli indietro non è facilissimo né a basso costo. Nei confronti dei propri cittadini, in genere persino i governi dal pugno duro mantengono qualche scrupolo, soprattutto quando hanno poco da offrire. Non meraviglia che qualche commentatore abbia già annunciato un mesto ritorno a casa a mani vuote della premier italiana.

Altre delusioni per il governo potrebbero arrivare dal secondo fronte esterno, quello europeo. Frenetiche trattative sono tuttora in corso sotto la regia della presidenza svedese, alla ricerca di un compromesso che possa segnare qualche passo avanti nella gestione del dossier asilo (non “immigrazione irregolare”, come recitano le veline filo-governative). Intanto però il fronte sovranista del gruppo di Visegrad si è già sfilato. I ricollocamenti dei richiedenti asilo in altri Paesi Ue si stanno sgonfiando, gli obblighi in capo ai Paesi di primo arrivo si stanno rafforzando (due anni di permanenza per le persone accolte, anziché uno), la penalizzazione economica di chi non accetta di accogliere si sta anch’essa stemperando. In ogni caso c’è da scommettere che l’idea di pagare qualche migliaio di euro pur di non partecipare ai ricollocamenti piacerà alla maggior parte dei governi, e in tal modo si continuerà a far gravare l’accoglienza sui Paesi di primo ingresso.

Il governo italiano rischia di trovarsi così di fronte a una malinconica alternativa: accettare un compromesso al ribasso, oppure votare contro e farlo naufragare, ritornando così alle regole della convenzione di Dublino. Ci sarebbe in realtà un’alternativa: quella della libera circolazione dei profughi già sperimentata con successo nel caso ucraino, ma nessuno sembra disponibile a estenderla agli altri rifugiati. In fondo, al di là della propaganda, sono altri i Paesi che accolgono i maggiori volumi di persone in cerca di asilo: Germania, Francia, Spagna. Allora si può anche continuare così, continuando a spacciare all’opinione pubblica la leggenda dell’Italia lasciata sola.


Pubblicato su Avvenire e qui con il consenso dell’autore

06 giugno 2023

E' ORA DI FINIRLA CON LE ARMI E CON LA GUERRA!

 


LA QUESTIONE MERIDIONALE SECONDO TOMMASO FIORE

 



Tommaso Fiore 

di Pasquale Vitagliano

In un momento storico in cui c’è chi propone un federalismo differenziato, sarebbe utile riscoprire la figura di Tommaso Fiore, a cinquant’anni dalla sua morte. Comprenderemmo che l’idea di un’Italia federale non è nuova. Ritorniamo a Cattaneo, scrisse Fiore in un articolo del 1923. E Norberto Bobbio considerò questo articolo fondamentale per convincere Piero Gobetti della bontà del progetto federale del milanese Carlo Cattaneo. Insomma, il federalismo non c’entra nulla con la “secessione dei ricchi” che qualcuno vorrebbe realizzare sotto mentite spoglie.
Certo, è un peccato dover aspettare gli anniversari per aggiornare la nostra agenda culturale e politica. Ma facciamo di necessità virtù. Ecco, che ci rendiamo conto che la Questione Meridionale, tutt’altro che risolta, pesa ancora;  che, d’altra parte, non è mai esistito un Sud abbarbicato sulla propria identità e chiuso in uno lamentoso provincialismo. Nato ad Altamura, Tommaso Fiore frequentò Pascoli, collaborò con Piero Gobetti, fu tra gli ispiratori del Partito d’Azione e del filone liberalsocialista.
Il saggio di Daniele Maria Pegorari, Le utopie di Tommaso Fiore, un itinerario politico e letterario, è utile, dunque, allo scopo di cambiare l’attuale palinsesto del dibattito delle idee. Suggestiva è l’idea di partire dal nome Tommaso, condiviso con Moro e Campanella (ma io aggiungerei anche il discepolo incredulo), per ricostruire la figura di un intellettuale, meridionale solo per ascendenza, che per un’intera, lunga vita seppe conciliare l’aspirazione all’utopia con la pratica politica del possibile. Il suo impegno civile è stato integrale, “come studio meticoloso e azione diretta, senza schemi, senza salvacondotti, esponendosi prima alla trincea di Caporetto e poi alle carceri fasciste, sempre con la medesima dignità e sempre avendo a cuore un equilibrio perfetto fra pensiero e prassi.”
Il merito di questo saggio, tuttavia, è di aver fatto emergere in tutta la sua singolarità la qualità della scrittura di Tommaso Fiore. In primo luogo, egli è stato tra i primi sperimentatori del reportage letterario. Ma soprattutto, sotto l’aspetto letterario, il suo stile è riuscito a “fondare” la geografia pugliese (e sudista) nell’immaginario nazionale. Nelle Lettere pugliesi, per esempio, la città di Taranto diventa “una città magica, molto probabilmente ignota al miglior Calvino”. Qualche volta sbucate senza volerlo in un cortiletto irregolare come uno straccio fatto di dieci altri, ma nemmeno di qui si avanza molto: un pilastro con una nicchia e dentro un santo, non si sa quale, vi sbarra la strada. Ed aggiungerei che si sente già il brulichio della città pasoliniana.
Se sulla sua generazione, da Gaetano Salvemini e Elio Vittorini, ha pesato la responsabilità di partecipare ad un processo inedito di “nation building”, direi che, come testimoniano opere come Un cafone all’inferno e Un popolo di formiche, questa epopea laica è tutt’altro che conclusa. Dopo le pietre dure della Murgia, questa utopia consentirà anche di riconciliarci con l’acqua dei fiumi.

Articolo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/2023/06/06/103350/

 


05 giugno 2023

UN RICORDO DI L. SEPULVEDA E DEL SUO CILE

 





RICORDO DI LUIS SEPULVEDA E DEL SUO CILE

Attilio Gatto

“Io non dimentico, la mia memoria è come la mia morale, indistruttibile.” La memoria è tutto, è il tormento di Luis Sepulveda. La memoria è la notte della dittatura, è Pinochet con la sua voce chioccia, è Allende amico e Presidente, è il sangue versato per difendere democrazia e libertà.
Sono memorie di un rivoluzionario, nella vita vissuta come un viaggio ai confini della realtà, negli scritti che rifiutano di essere militanti e nella militanza percorsa come un Che Guevara, dalle Americhe alle mille città d’Europa.
E, nelle memorie di un rivoluzionario, brilla il 1967. Luis - Lucho - ha diciott’anni, forse non ancora compiuti. A Santiago è studente della scuola di teatro. Con i compagni, affamati di vita e di cultura, gli viene un’idea piuttosto ardita, invitiamo il più grande, il maestro, chiamiamo Dario Fo. Missione impossibile? No. L’autore di “Mistero Buffo”, l’italiano famoso in tutto il mondo, accetta l’invito, si ferma per una settimana con i giovani cileni. E insegna tutto il suo repertorio, il suo teatro in rivolta, la sua satira graffiante, la sua lingua che si frantuma in grammelot, il popolo che soffre ma non rinuncia a schiaffeggiare il potere, le sue memorie di un rivoluzionario.
Teatro scuola di vita nel Cile delle tensioni e delle passioni, il Cile che di lì a tre anni avrebbe sancito - con libere elezioni democratiche - la nascita del governo di Unidad Popular.
Ma anche il cinema entra nella grammatica della ribellione, nelle memorie di un rivoluzionario. È del 1972, un anno prima del Golpe di Pinochet, “L’amerikano”, il film di
Costa-Gavras sui Tupamaros. Racconta la guerriglia in Uruguay, ma il set è nel Cile di Salvador Allende, perché nella Santiago laboratorio della nuova via al socialismo si potevano facilmente smascherare le trame oscure degli USA. E durante le riprese sembra non esserci confine tra finzione e realtà. ‘L’amerikano” è Yves Montand, Ivo Livi, figlio di antifascisti emigrati in Francia nel ‘23. Lo sceneggiatore è Franco Solinas, nato a Cagliari con radici a La Maddalena, maestro del racconto per immagini, già critico cinematografico a “L’Unità” e “Paese Sera”. Le musiche sono di Mikis Theodorakis, il grande compositore perseguitato nella Grecia dei colonnelli. E a proposito di colonnelli, forse il più famoso film di Costa-Gavras è
“Z - L’orgia del potere”, Oscar per la migliore opera straniera nel 1969. Ma è del 1981 “Missing”, con Jack Lemmon e Sissy Spacek, che racconta della sparizione e uccisione di un giornalista statunitense nel Cile di Pinochet. “Missing” vinse l’Oscar per la sceneggiatura non originale e la Palma d’oro a Cannes,
E così, tra cultura e politica, nasce il sogno, si scrivono le memorie di un rivoluzionario, svettano gli ideali della generazione di Luis Sepulveda, per una società in cui l’uomo sia d’aiuto all’uomo. Erano anni in cui l’impegno voleva dire vivere pericolosamente, rischiare la vita per la libertà, per un mondo migliore. Luis
Lucho - era entrato a far parte della scorta di Allende. E aveva assistito da vicino alla fine del compagno Presidente. Mentre moriva in un letto d’ospedale Pablo Neruda, il cantore del Cile che tanto aveva fatto per la vittoria di Unidad Popular. E su questa morte misteriosa ci sono oggi documenti che rivelano un omicidio. Neruda era un pericolo per la dittatura di Pinochet. Così come lo era Il musicista e poeta Victor Jara, ucciso barbaramente. Il sangue e il dramma degli esuli. Gli Inti Illimani trovarono rifugio in Italia, mantenendo un rapporto privilegiato con la Sardegna.
Ricordo, a Cagliari, i loro concerti e il calore che li accompagnava. Tutti eravamo coscienti che la tragedia del Cile doveva essere di lezione per la crescita della democrazia in Europa. Ne era consapevole Enrico Berlinguer, quando elaborò la strategia del compromesso storico.
Luis Sepulveda intanto girava il mondo e scriveva, inventava la dimensione meravigliosa, che rimanda a certe creature fantastiche di Borges e si apre ai viaggi negli spazi incantati. Un poeta-guerriero Lucho che nelle memorie di un rivoluzionario avrebbe potuto scrivere - come Neruda - “Confesso che ho vissuto”. Due volte si è sposato con la poetessa Carmen Yáñez. Erano insieme anche quel giorno di fine febbraio. Rientravano da un festival letterario in Portogallo, quando Lucho si è sentito male. Positivo al Covid-19, prima grave, poi la speranza, con Carmen che l’aspettava a casa. E invece, dopo un mese e mezzo di resistenza al virus, si è spento nell’ospedale di Oviedo.
Così lo ricorda l’amico Gianni Minà su Facebook:”Ho voluto bene all’uomo, ma non posso fare a meno di piangere l’intellettuale che aveva partecipato alle lotte per il riscatto dell’America Latina con il coraggio e la forza che hanno solo i visionari, i romantici, i pazzi.” E ancora: ”Mi sento più solo, ma ho l’ingenua certezza che adesso lui è ritornato a fare la guardia del corpo al suo amato Presidente Allende.”
Carmen: ”Avevo 15 anni, lui 18. Scriveva poesie, faceva teatro. Lo portò a casa mio fratello, che era pittore e suo amico. Un anno dopo ci fidanzammo. I miei genitori erano contrari: "Un poeta? Lascia perdere. Un tipo così non ha futuro".
Ma il futuro lo hanno avuto, incontrandosi e di nuovo incontrandosi, nel cammino della vita.

ATTILIO GATTO