31 dicembre 2023

LA FILOSOFIA FIGLIA DELLA MERAVIGLIA

 


MERAVIGLIA  e  FILOSOFIA



Al principio è la meraviglia. Tutto suscita meraviglia e stupore. Un’emozione confusa in cui la paura diventa inquietudine. L’emozione di chi non sa dare spiegazione di ciò che ascolta, vede o pensa, e dunque quasi prova un senso di vertigine che lo spinge a mettersi in cerca.

A raccontarlo in maniera perfetta fu Platone in un dialogo molto bello e molto complesso che scrisse verso i sessant’anni e prese il nome dal principale interlocutore di Socrate, un matematico che Platone aveva molto amato: Teeteto. Questo ragazzo che ebbe una vita sfortunata e morí giovane, nella rappresentazione letteraria platonica, a un tratto, seguendo i ragionamenti paradossali di Socrate, dice: «Per gli dèi, Socrate, provo una meraviglia sconvolgente chiedendomi come mai stiano queste cose. A tratti, anzi, a dire il vero, guardandole e riguardandole ho le vertigini».

Al che Socrate gli risponde: «Amico mio, sembra che Teodoro non abbia avanzato congetture scorrette sulla tua natura. E infatti è tipico del filosofo questo stato d’animo: la meraviglia. Non esiste altra origine della filosofia se non questa».

È un passo famosissimo. Aristotele, al principio della Metafisica, riprende l’idea del maestro e spiega che gli uomini hanno cominciato a filosofare proprio perché si meravigliavano delle stranezze che avevano davanti agli occhi, passando poi a indagare fenomeni piú importanti, come «le affezioni della luna, del sole e degli astri, e la genesi del tutto».

Le cose stanno proprio così. Anche se a leggere i due grandi filosofi, e soprattutto Aristotele, si ha l’impressione che ciò di cui gli esseri umani si meravigliarono (e in effetti, continuano sempre a meravigliarsi) sia solo ciò che è fuori di essi, «davanti ai loro occhi», mentre sappiamo benissimo che il primo oggetto di meraviglia di fronte a cui tutti ci troviamo fin dalla nascita siamo proprio noi stessi. Conoscere le cose con cui ci confrontiamo, conoscere il nostro posto nel mondo, dunque conoscere il mondo che abitiamo, ovvero la natura in cui siamo apparsi, noi stessi germogli della natura. Ecco il compito di quella lotta per la sapienza che caratterizza gli esseri umani da sempre e per sempre. Un compito cui solo la meraviglia può spingerci.

 

Matteo Nucci
Il grido di Pan
Einaudi 2023

F. CARBONE, G. GIARDINA e R. GUTTUSO

 










Rocca Busambra (foto di f.v.)


F. CARBONE, G. GIARDINA e R. GUTTUSO


 Circa dieci anni fa, nella rivista NUOVA BUSAMBRA, creata anche per ricordare un caro vecchio amico,  Ciccino Carbone, scrissi quattro righe per sottolineare i debiti del poeta Giacomo Giardina, oltre che con Francesco Carbone, con Renato Guttuso.

La fonte principale di quel mio breve pezzo è stata una straordinaria pubblicazione voluta da Carbone e realizzata nel 1978, con la sapiente cura di Nicolò D’Alessandro, nel Quaderno intitolato: Giacomo Giardina, RoccaBusambra. Poesie Disegni Testimonianze, Edizione Movimento Comunità di Base (uno dei tanti nomi dati dal geniale Ciccino al suo Movimento), Godrano-Palermo 1978. Conservo ancora gelosamente la copia dello splendido quaderno-libro che mi donò Giacomino con una bella dedica.

In questo prezioso Quaderno il grande pittore di Bagheria occupa un posto centrale. Vi si trovano, infatti, riprodotti, a partire dalla splendida copertina, tanti suoi disegni ed anche alcuni significativi brani della corrispondenza tra i due artisti.

Tra la ricca corrispondenza di Giacomino con letterati ed artisti coevi, che sarebbe opportuno recuperare e pubblicare, spicca quella intrattenuta con Renato Guttuso. Particolarmente significativa la lettera scritta da quest’ultimo all’amico, il 22 giugno 1972, dove si  afferma:

 

Cosa è cambiato da allora? Molto dall’esterno, ma ‘di dentro’ poco o nulla. Battiamo sempre lo stesso  chiodo, quello che ci siamo portati addosso dalla nascita, forse con più esperienza e sapienza, forse con meno freschezza. Ma in fondo anche con freschezza perchè il nostro amore della verità e della realtà è un amore che non può finire.  (sottolineatura mia)

 

       Lo stesso Guttuso due anni dopo, in un foglietto  scriverà:

 

                     Caro Giacomo, fin dall’ormai lontana adolescenza ho imparato ad amare la tua poesia, la fresca indipendenza della tua immaginazione, il tuo sentimento della natura e della gente umile. Ricordo brani bellissimi di un tuo romanzo che meriterebbe di vedere la luce. A te, al tuo lavoro, è legato uno dei miei primi dipinti (del ’28, mi pare) che ti raffigurava davanti alla tua Rocca Busambra, circondato dalle pecorelle. Dove sia quel quadro non si sa, ma ho fiducia che prima o poi salterà fuori.

 

         La lettera si chiude con uno schizzo, sopra riprodotto, in cui Renato abbozza l’antico ritratto. Il documento è importante anche per il riferimento  ad un “romanzo” inedito del poeta di cui si sono perse le tracce.

 

Francesco Virga

 

 

 

 

 


30 dicembre 2023

DANILO DOLCI NEL RICORDO DI VINCENZO CONSOLO

 


Danilo Dolci ha lasciato questo mondo il 30 dicembre del 1997. Noi oggi lo vogliamo ricordare con le parole di Vincenzo Consolo. (fv)

Io lo ricordo così

di Vincenzo Consolo

I libri di Danilo Dolci se li è apparecchiati tutti sul tavolino del salotto, un ambiente luminosissimo. Allineati in bell’ordine, con i post-it gialli infilati nelle pagine che a lui parlano di più. Edizioni Einaudi, edizioni Sellerio, edizioni Mesogea, «una delle poche belle realtà messinesi». Di fronte, sulla parete, un ritratto di due ragazzi dall’autore impossibile, Pier Paolo Pasolini. Nella casa milanese di Vincenzo Consolo c’è letteratura ovunque.

«Ho riletto Banditi a Partinico e mi è venuta l’angoscia.

Angoscia a rileggere di quella mortalità infantile. Bambini senza cure per le infezioni, bambini senza latte. Ho riprovato la spinta a conoscere e a sapere che mi ha animato da ragazzo nella mia Sicilia, quando a quelle letture mi si aprivano mondi che non conoscevo. Io di Sant’Agata di Militello, zona non di feudi ma di piccola proprietà contadina, provavo una grande curiosità di sapere tutto della Sicilia occidentale. Andavo anche a Messina, certo, alla libreria D’Anna. Ma andavo con uno spirito particolare alla libreria Flaccovio di Palermo, che aveva anche le sue edizioni. Viaggiavo sempre in treno.

Un giorno andai a trovare Danilo Dolci, un mito per molti di noi, era il ’55 o il 56. Mi accolse nel suo studio e mi fece tantissime domande. Volle sapere dei miei studi, mi parlò di Nomadelfia, la comunità fondata nel dopoguerra da don Zeno Saltini in Toscana, vicino Grosseto, in cui lui aveva lavorato.

Io gli raccontai della mia vita in università a Milano. Dei miei anni in piazza Sant’ Ambrogio, dove accanto alla caserma della Celere c’era il Centro orientamento immigrati. Ci arrivavano da ogni regione del sud per essere smistati verso il centro Europa: la Svizzera, il Belgio, la Francia, mentre quelli che andavano in Germania venivano smistati a Verona. Gliela descrissi, Sant’ Ambrogio, come allora appariva a me. Una specie di piazza dei destini incrociati: meridionali i poliziotti della Celere, meridionali le braccia in cerca di un lavoro in fabbriche o miniere straniere. Gli parlai anche della signorina Colombo, la mia padrona di casa, tutta vestita di nero e che si esprimeva sempre in dialetto. Due sue nipoti erano scappate a Nomadelfia. E ovviamente questo lo incuriosì molto. Dietro di sé, alle sue spalle, teneva un quadro particolare: una lettera di minacce, l’immagine di una pistola da cui uscivano dei proiettili. Gliel’aveva mandata la mafia e lui l’aveva incorniciata. Feci anche amicizia con alcuni dei volontari che collaboravano con lui. Ricordo un urbanista, in particolare. Si chiamava Carlo Doglio. Bolognese ma lavorava all’Università di Palermo. Faceva l’assessore a Bagheria, era un militante del Psiup. Dormii da lui una notte e al mattino, quando feci per uscire di casa, mi tirò indietro per la camicia e mi ammoni a guardare bene a destra e a sinistra prima di mettere fuori la faccia. Bagheria era così: il luogo delle ville magnifiche dei nobili feudatari, villa Alliata e villa Palagonia, dove i mafiosi cercavano di farsi strada a colpi di grandi speculazioni e di violenza.

Ci vedemmo ancora, anche perché lui viaggiava molto per il mondo, faceva un’attività di conferenziere intensissima.

Venne una volta a Milano. Si era sposato con Vincenzina, che aveva già dei figli, lui ne ebbe altri ancora. Ricordo che avevano dei nomi singolarissimi: Libera, Sole, Amico… Ci trovammo e lui mi propose tutto un programma da realizzare per la Sicilia. Affascinante, senz’altro. Ma io mi limitai ad andare a fare qualche conferenza, poi mi arenai. In ogni caso Dolci riuscì a riunire intorno a sé bellissime persone. Era il suo progetto che attirava, insieme al suo carisma. Già ho detto di Doglio l’urbanista. Ma c’era anche Vincenzo Borruso, al quale rimasi molto legato. Un medico d’avanguardia, palermitano, autore del primo libro-inchiesta sull’aborto, L’aborto in Sicilia si chiamava. Storie di prezzemolo, storie di morti assurde. Da lui andò a fare il volontario anche Goffredo Fofi, che insegnava alle scuole elementari di Cortile Cascino a Palermo e poi lo raggiunse a Partinico. Ricordo che aveva partecipato allo sciopero all’incontrario, che era poi una delle invenzioni tipiche di Dolci: voleva dire fare una strada o una trazzera non autorizzate. Fofi venne espulso dalla Sicilia che aveva appena diciott’anni, con tanto di foglio di via obbliga torio. Seminavano bene, i collaboratori di Dolci. Ricordo un incontro proprio con Fofi a Palermo negli anni Ottanta. Credo che fossimo li per presentare qualche libro. Fatto sta che ritrovammo al Papireto, al famoso mercatino delle pulci C’era un negozietto di antiquariato, l’insegna portava un nome e Goffredo esclamò: «Ma questo era mio alunno>> Girammo un po’ alla sua ricerca, e alla fine arrivò un giovanotto che gli andò incontro abbracciandolo: «Goffredo!». Era davvero lui, il suo alunno.

Dolci si distingueva per la sua intelligenza. Acuta, lungimirante, nutrita della materialità delle cose che faceva. Ricordo la sua distinzione tra potere e dominio, per esempio, che era uno dei capisaldi della sua riflessione. Oppure quella, che sembra fatta a pennello per i nostri tempi, tra comunicazione e trasmissione. Temeva i meccanismi della trasmissione, di questo fiume di parole e concetti e immagini che si muove in una direzione sola e che è in grado di istupidire un popolo. Non è forse quello che sta succedendo oggi? Lui d’altronde segnalò i problemi di Berlusconi appena il fondatore della Fininvest entrò in politica. Credo che fosse un paio d’anni prima di morire. Scrisse che a carico di Berlusconi c’erano fatti «molto gravi», «cose risapute anche dalla magistratura». Lo si trova su Una rivoluzione non violenta, pubblicato da Terre di mezzo.

Se dobbiamo considerarlo un rivoluzionario? Be’, noi, e non solo noi, lo chiamavamo il Gandhi italiano. Venivano persone da tutta Europa a conoscerlo, dormivano al centro studi, si offrivano di lavorare con lui come volontari. Quando usci, Banditi a Partinico suscitò un’ impressione enorme. Danilo conosceva la violenza del potere, e di quello mafioso soprat-tutto. Restò sconvolto quando a Trappeto un ragazzo di diciassette anni venne trovato morto in campagna “pezzi pezzi”, che vuol dire fatto letteralmente a pezzetti. Gli avevano sparato e poi l’avevano messo sui binari del treno, che lo aveva maciullato. Terribile, quest’uso fraudolento e assassino dei binari mi ricorda la morte di Impastato. Fra l’altro mi piace immaginare che qualcosa del lavoro di Dolci sia arrivato anche a lui, al giovane Peppino, visto che da studente negli anni Sessanta frequentava il liceo di Partinico e proprio li iniziò a partecipare alle manifestazioni. si, diciamo che Danilo era un rivoluzionario costretto a misurarsi non solo con la mafia ma anche con un altro potere repressivo, che della mafia, soprattutto allora, non era certo nemico. Quello dello Stato.

La ricordo bene la famosa triade della Sicilia repressiva di allora. Si componeva così: in testa c’era Mario Scelba, il ministro degli Interni di Portella delle Ginestre; poi c’era il prefetto di Palermo Angelo Vicari, che era del mio paese, Sant’Agata di Militello; e poi c’era il cardinale Ruffini, uomo dell’Opus Dei e ammiratore di Francisco Franco, il dittatore spagnolo. Anche lui aveva avuto a che fare con Portella delle Ginestre, nel senso che era andato a trovare Gaspare Pisciotta in carcere dopo l’omicidio a tradimento di Giuliano, e gli aveva raccomandato di non parlare. Un “uomo del Signore” indimenticabile. Sosteneva che le sciagure della Sicilia erano tre: il parlar di mafia, il Gattopardo, tutte e due perché gettavano discredito sulla Sicilia. E infine, per la medesima ragione, Danilo Dolci. Capito con chi aveva a che fare, Danilo? Per questo subì ogni tipo di sanzione. Venne più volte condannato, e perse anche qualche causa in tribunale per i suoi libri, lo ricordo perché pubblicava con Einaudi, con cui collaboravo.

Una specie di persecuzione.

Che invece non avvenne con Michele Pantaleone, un altro dei protagonisti dell’antimafia di quel periodo di cui oggi non si parla più, e ingiustamente, visto che furono sue le prime denunce circostanziate dei rapporti tra mafia e politica. Lui per i suoi libri alla fine fu prosciolto dalle accuse; chissà, forse era meno inviso al potere perché non faceva anche l’agitatore sociale. Scriveva ma non organizzava gli scioperi all’incontrario o le lotte per la diga sul fiume Jato.

Quel che mi dispiace è che allora il Partito comunista abbia preso le distanze da Dolci. Che, pacifista com’era, lo considerasse quasi un disturbo per il verbo e la dottrina della rivoluzione. Assurdo, veramente assurdo. Perché Dolci era un segnale di luce, in quel panorama, una grande speranza. Il mondo della sinistra intellettuale e civile non di partito, naturalmente, ne aveva un’altra opinione. Ricordo un bellissimo ritratto che ne fece Giuliana Saladino, grande giornalista dell’Ora, in Terra di rapina. Ma anche Carlo Levi, che per la Sicilia di quegli anni girò molto, gli dedicò grande attenzione. E ricordo che, dopo il mio primo libro, mi capitò spesso di discutere con Sciascia dell’importanza della presenza di Danilo in quel contesto faticosissimo. Come dimenticare, d’altronde, quella straordinaria esperienza di Radio Sicilia Libera di Partinico, con cui cercò di sfondare tra i primi il monopolio dell’informazione radiotelevisiva, e per la quale pagò, di nuovo, prezzi personali? In fondo Danilo era una specie di missionario laico, come forse lo fu anche Pio La Torre. I suoi successori hanno nomi meno conosciuti, come quel fratel Biagio di via Archirafi a Palermo, laico pure lui, che accoglie i diseredati, o quel salesiano del Capo, don Baldassare. Oppure nomi assai più conosciuti e non laici: quelli di padre Pino Puglisi o di don Luigi Ciotti, per esempio.
Purtroppo il suo metodo di inchiesta sociale, il suo modo, diciamo così, di essere sociologo, non ha fatto molta scuola. Ricordo un prete valdese, Tullio Vinay si chiamava, che sull’esempio di Dolci era andato a Riesi, in provincia di Caltanissetta, e aveva messo su una scuola tecnica per i ragazzi, per poi mandare i migliori da Adriano Olivetti. E aveva pure fatto uscire le donne dalle case in cui stavano rinchiuse dando vita a una cooperativa di ricamatrici. Erano quegli stessi anni, i Cinquanta e i Sessanta. Vinay ne scrisse anche un libro, Giorni a Riesi, mi sembra. Poi, dopo un po’ di tempo, venne eletto in parlamento. Ma di altre esperienze analoghe non mi viene in mente. Ed è un peccato.

Quanto c’era di siciliano in Danilo Dolci? Non mi sembra la domanda giusta, o meglio, quella che ci aiuta a capirlo di più. Bisognerebbe chiedersi piuttosto quanto c’era di intelligenza e di umanità. E poi, sul piano della curiosità intellettuale, a me appassiona semmai un altro tema: quello dei figli dei ferrovieri. Mi affascina questa categoria di intellettuali nati da ferrovieri siciliani: Elio Vittorini, Salvatore Quasimodo, lo stesso Dolci. Ci metto sopra d’istinto pure Pinelli, anche lui veniva dalla Sicilia. Probabilmente lì, in quella storia sociale, i ferrovieri sono stati davvero l’aristocrazia della classe operaia, la componente popolare e del mondo del lavoro più consapevole.
Credo comunque che la storia di Danilo Dolci bisognerebbe metterla tutta in fila per poterla capire veramente. Figlio di ferroviere, intanto, abbiamo detto. Poi partecipa alla Resistenza, viene messo in carcere dai nazisti e scappa, va a Nomadelfia da don Zeno Saltini, quindi va a Partinico. E li le lotte sociali e quei bellissimi racconti di analfabeti e contadini scritti da un intellettuale coltissimo, che conosceva la letteratura russa, ma anche quella americana e quella tedesca, che scriveva poesie. E che aveva uno sguardo profondo e capace di andare lontano. No, tipi così non ne nascono spesso».

a cura di Nando dalla Chiesa

Milano 2010

SULLA "MANCANZA DI AUTOREVOLEZZA" di PASOLINI

 


“lo non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall'essermi messo in condizione di non aver niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca.

Forse qualche lettore troverà che dico delle cose banali. Ma chi è scandalizzato è sempre banale. E io, purtroppo, sono scandalizzato. Resta da vedere se, come tutti coloro che si scandalizzano (la banalità del loro linguaggio lo dimostra), ho torto, oppure se ci sono delle ragioni speciali che giustificano il mio scandalo.”

Pier Paolo #Pasolini

 

* Da “Chiesa e potere” sul “Corriere della Sera” 6 ottobre 1974, poi in “Scritti corsari”, pp. 359-360.


PASOLINI SULLA COSIDDETTA "CULTURA DI MASSA"

 


9.12.1973
“La cultura di massa, così com’è, è sottocultura, anzi, anticultura; e se il fenomeno è ormai irreversibile — essendo le masse una realtà — esso, come ogni fenomeno storico, va affrontato, corretto, modificato. Essi sanno bene, anche, che le lunghe serate e le lunghe domeniche invernali a casa possono riproporre il problema, o la soluzione, della lettura: che al contrario della televisione, non è un fenomeno di sottocultura, ma di cultura. Gli italiani (se mai li hanno scoperti) possono oggi riscoprire i libri. Io dunque sfido i dirigenti della televisione a dimostrare la loro buona fede e la loro buona volontà, attraverso un lancio delle lettura e dei libri: lancio da non relegare però ai programmi culturali, alle trasmissioni privilegiate: ma da organizzare secondo le infallibili regole pubblicitarie che impongono di consumare. Il lettore-testimone mi scusi se questo mio dolente pamphlet, trascinato oggettivamente alla brachilogia, «desinit in piscem»: ma i Barnabei , i Fabiani, i Romanò, e i loro colleghi che contano, se vogliono possono superare ogni difficoltà burocratica e mettere ogni sera «Carosello» (?!) e le altre trasmissioni analoghe, abbondantemente a disposizione di questo nuovo compito, così nobile, altruistico e scandalosamente contraddittorio."
Pier Paolo #Pasolini
📰 "Sfida ai dirigenti della televisione" sul "Corriere della sera", 9 dicembre 1973, p.3

PASOLINI, UNA FORZA DEL PASSATO

 

Pasolini e Orsom Welles


«Io sono una forza del passato» ho detto nella Ricotta, facendo leggere a Orson Welles dei miei versi (li doppiava Bassani). Lo sono diventato sempre più. Ho scritto in questi mesi una poesia intitolata Ode a Carlo Martello (tu sai che i manuali dicono che se Carlo Martello non avesse fermato gli arabi a Poitiers la storia sarebbe stata diversa da quella ch'è stata: ero a Poitiers per i sopralluoghi del Decameron).

Ebbene in questa poesia dichiaro che non me ne importa nulla che la storia sia stata quella ch'è stata: ma tale dichiarazione non è fatta da sinistra, bensì (giocando) da destra. Avrei voluto cioè che avessero vinto gli arabi, perché un'arabizzazione dell'Europa sarebbe stata infinitamente più conservatrice e «feudale». Spero che una poetica follia giustifichi questo mio conservatorismo, che mi ha spinto a piangere di vere lacrime, vedendo i villaggi delle Madonie (sempre sopralluoghi per il Decameron) sacrilegamente intonacati coi soldi spediti dai giovani emigrati in Germania; e vedendo la distruzione delle mura di Sana'a nello Yemen (cosa che mi ha dato occasione di scrivere, sempre giocando, altri versi reazionari, in favore della monarchia yemenita, che certamente avrebbe lasciato tutto come stava, Sana'a con le sue stupende mura e il suo popolo antico: la modernizzazione è giunta dall'alto, il socialismo è giunto dall'alto, tutto è più repressivo che la monarchia, paradossalmente, perché la distanza che separava un povero yemenita dal suo re, coabitante e co-religioso, era infinitamente meno grande da quella che lo separa dai tecnici russi, cinesi e americani).

Pier Paolo #Pasolini

📰 Da "Io e Boccaccio (intervista rilasciata a Dario Bellezza)", in "L'Espresso", n. 47, 22 novembre 1970; ora in Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, 1999, 1647-1655

Testo e foto riprese da CITTA' PASOLINI

CORPO, TEMPO e PIATTAFORME

 




Corpo, tempo e piattaforme

Stefano Rota
29 Dicembre 2023

Se il tempo totale è tempo di lavoro, è perché il corpo autoassoggettato è forza lavoro. Il soggetto produttivo delle piattaforme risponde in toto a questo schema. Non è possibile scollegare l’assoggettamento del lavoratore dalla seconda natura del vivente. Per questa ragione la comprensione delle attitudini sul lavoro del soggetto produttivo delle piattaforme può essere compresa solo se inserita nel contesto più ampio che mette in relazione il corpo con il tempo, le norme con i valori, l’estrazione con l’inclusione

Una protesta dei magazzinieri di Amazon a New York. Foto wikipedia

The politics of invisibility involves not actual invisibility, but a refusal of those in power to see who or what is there.

Robert JC Young, Postcolonial remains

Simonetta, la driver di Amazon che ha contribuito alla stesura de “La fabbrica del soggetto. Ilva 1958 – Amazon 2021“, ha portato la sua testimonianza a due presentazioni del libro organizzate a Genova tra luglio e novembre ‘23.

Senza giri di parole, Simonetta ha detto sostanzialmente di sentirsi a suo agio in Amazon, di lavorare in un ambiente amichevole e rispettoso, dove tutti si prendono cura dei problemi dei colleghi e dove gli standard di sicurezza sul lavoro sono molto elevati.

Inutile dire che queste dichiarazioni hanno suscitato qualche perplessità tra i presenti. Almeno alcuni di loro si aspettavano una posizione incentrata sulla critica alle forme di neo-taylorismo digitale, al dominio impersonale e onnipresente dell’algoritmo nel governare il lavoro in Amazon. In altre parole, la lettura più comune che si trova nelle riviste e nelle pubblicazioni che adottano un approccio radicalmente critico all’economia delle piattaforme, che sottoscrivo.

Niente di tutto questo. Simonetta è soddisfatta del suo lavoro in Amazon.

Di fronte alla comprensibile difficoltà di una parte del pubblico ad accettare quel discorso, ho tentato di riflettere sulla verità che quello stesso discorso enuncia, prendendo come punto di partenza un film dell’anno scorso, Nomadland, della regista Chloé Zhao.

La disincantata donna di mezz’età interprete del film di Zhao gira da sola negli spazi immensi del Mid West con un camper, fermandosi per lavorare nei magazzini di Amazon, ma subito pronta a ripartire alla volta del successivo parcheggio dove incontra amici in perenne movimento come lei. Non traspare nessuna particolare tensione o rivendicazione: ciò che Amazon propone a Fern, la protagonista del film, è né più né meno quello di cui lei stessa ha bisogno per il tipo di vita – nomade – che ha scelto, o che si è trovata costretta a scegliere.

Dove si produce, allora, questo scarto tra la nostra lettura e le vite di milioni di persone che accettano il lavoro in Amazon o in una delle innumerevoli piattaforme così com’è, nonostante i tentativi (alcuni riusciti, molti no) di introdurre forme di organizzazione sindacale di base per contrattare un altro tipo di rapporto lavorativo? Prima di provare a dare una risposta del tutto personale a questa domanda, vorrei aggiungere un ulteriore elemento che, spero, faciliti la comprensione di cosa mi accingo, sia pur con dubbi, a sostenere.

Un amico sindacalista è stato in prima linea nel 2020 nella lotta di rivendicazione finalizzata al riconoscimento dei riders di Just Eat come lavoratori dipendenti. L’azienda, accogliendo la richiesta, ha introdotto anche in Italia il modello Scoober già applicato in altri paesi[1]. I riders hanno dal 2021 un orario di lavoro, una retribuzione fissa basata su ciò che quel modello prevede. È stato presentato come un successo, un cambio di direzione in un settore, quello della platform economy, che ha bisogno di regole chiare e giuste per i lavoratori, che ostacolino la giungla del cottimo come spinta allo sfruttamento e all’autosfruttamento.

I problemi sono sorti quando questo accordo è stato presentato ai lavoratori e lavoratrici: una larga parte non era per niente contenta del risultato ottenuto, dichiarando di preferire di gran lunga la forma lavorativa vigente prima. I più contrari erano prevalentemente i lavoratori migranti e i più giovani.

Eccoci arrivati al punto da cui vorrei partire per articolare il mio punto di vista. Amazon, ma più in generale la platform economy, sembra inviare implicitamente un messaggio a tutti i lavoratori attuali e potenziali (e non solo ai lavoratori, a dire il vero): ‘dimenticatevi i vecchi modelli, gerarchie, procedure, contratti, carriere. Qui il lavoro è smart’. Non sono importanti le esperienze lavorative pregresse (meglio se non se ne hanno, come dichiarano le agenzie di lavoro interinale), così come la provenienza o i piani per il futuro, ammesso che si sia in grado di farne. La platform economy vive di un perenne presente flessibile e competitivo, tutto viene deciso sul momento, tutto è on-demand (ILO Report).

Conta solo quello che fai, il modo in cui gestirlo lo scegli tu. Se il magazzino è lontano decine o centinaia di chilometri e raggiungibile solo in macchina e gli alloggi sono proibitivi, se piove e fare le consegne in bici diviene problematico e pericoloso, se sei in basso nel ranking e non ti arrivano lavori, organizzati, trova una soluzione, la piattaforma non è fatta per intervenire in questi ambiti. I “piccoli turchi” di benjaminiana memoria sono pagati per addestrare la piattaforma a fare altro.

Mi sembra che su questo punto si giochi una partita importante. Si definisce un nuovo regime di veridizione, sulla cui base ci riconosciamo (ci soggettivizziamo) e produciamo a nostra volta delle verità. Quali enunciati troviamo all’interno di questo sistema, oltre a quello descritto? Provo a individuarne alcuni. Il lavoro e il mondo che lo contiene è sempre più cyber, lavoro e gioco si avvicinano tanto da produrre sovrapposizioni, vengono usati gli stessi strumenti e lo stesso linguaggio (gamification del lavoro). Perdono di senso vecchi schemi centrati su relazioni di mercato a due lati (two-sided market), siamo lanciati verso la multilateralità (multi-sided economy), siamo allo stesso tempo lavoratori e consumatori, controllati e controllori, fornitori e utilizzatori di dati. Viene depersonalizzata la funzione del controllore onniveggente che distribuisce punizioni e meriti sulla base del suo insindacabile giudizio. L’algoritmo che lo sostituisce non dà giudizi, valuta asetticamente. E lo fa sulla base del principio che tutti controllano uno, e a sua volta questo uno contribuisce al controllo, alla punizione o all’encomio, di chiunque altro, tramite voti, likes, recensioni (siamo quindi nel regno dell’anopticon descritto da Umberto Eco).

Se questi enunciati definiscono, almeno parzialmente, il modo in cui l’economia delle piattaforme rende “vera”, riconoscibile, “parlabile” una modalità lavorativa, il discorso di Simonetta, così come quello dei riders di Just Eat, diviene altrettanto riconoscibile, altrettanto vero, all’interno del rapporto soggetto-vita-lavoro che li connota. Entrano in gioco, da un lato, le strutture economiche, le architetture sociali, istituzionali e culturali, le norme, i confini materiali o immateriali che suddividono gli spazi creando forme di inclusione, esclusione, inclusione tramite l’esclusione (De Genova), o inclusione differenziale (Mezzadra, Neilson). In una parola, il dispositivo. Dall’altro, i viventi e le loro esistenze, i percorsi individuali e collettivi, le priorità, le scelte, all’interno dell’organizzazione di un tempo di vita e di lavoro che si struttura senza soluzione di continuità. “Quando tutto il tempo della vita è tempo di produzione, chi misura chi?”, si chiedeva Negri, in un libro di quarant’anni fa. Le forme di soggettivazione si danno all’interno della rete che il dispositivo dispiega, non la precedono, non vi entrano già precostituite. Il soggetto è, allora, una “funzione derivata” (Deleuze), si definisce in un gioco di rapporti di forze che lo vedono come oggetto di conoscenza, come soggetto “identificato” e parlabile sulla base di rapporti di potere, come soggetto etico che si forma nella relazione con se stesso (Foucault).

È sulla base di questi rapporti che si creano le condizioni di possibilità per la formulazione di discorsi su come viene vissuto un determinato modo di lavorare, di vivere, abitare, immaginare. Sono i rapporti che delineano gli itinerari che ciascuno di noi ha seguito per arrivare dove si trova, quelli con i quali Stuart Hall ci ricorda di “venire a patti”, perché è in funzione di quelli che ci raccontiamo.

Per questi motivi conviene non intraprendere la strada, comoda e ben asfaltata ma molto corta, che ci fa ridurre l’eterogeneità del “soggetto produttivo delle piattaforme” a due insiemi: chi ha capito (pochi) e chi non ha ancora capito (molti). Il secondo insieme sarebbe quindi descrivibile come una massa di lavoratori che non hanno ancora raggiunto il livello di coscienza di classe che li trasformerà in proletariato, e quindi li collocherà inevitabilmente, in un futuro prossimo, nel solco della storicità del loro destino.

Una seconda strada, meno comoda e certamente più lunga, ci fa stare ben aderenti a quello che considero un concetto chiave per intraprendere un percorso conoscitivo che deve avere nell’inchiesta il suo elemento centrale. Si tratta di un concetto foucaultiano che Pierre Macherey espone in Il soggetto produttivo. Da Foucault a MarxParlando delle “istituzioni di assoggettamento” nella società industriale, Macherey dice che queste hanno, per Foucault, un duplice ruolo, quello di “estrazione-segregazione-sfruttamento e di inclusione-formazione-adattamento”. Per meglio descrivere questo passaggio, il filosofo riprende le stesse parole di Foucault: “la prima funzione [dell’assoggettamento] era quella di sottrarre il tempo, facendo sì che il tempo degli uomini, il tempo della loro vita si trasformasse in tempo di lavoro. La seconda funzione consiste nel far sì che il corpo degli uomini divenga forza lavoro. La funzione di trasformazione dei corpi in forza lavoro corrisponde alla trasformazione del tempo in tempo di lavoro” (corsivo mio).

Un ulteriore passaggio del bellissimo libro di Macherey aiuta a mettere ancor più a fuoco il punto che mi sembra affatto centrale. Gli itinerari seguiti da ognuno di noi hanno come riferimento obbligato il sistema di norme che li ha resi possibili, visibili, riconoscibili. Lì, nel dispiegarsi di questi itinerari, si crea una “seconda natura […] che non sarebbe ‘naturale’, […] ma prodotta, creata, costruita da zero […]”. Istituendo questa seconda natura, il potere delle norme “si connota per la capacità esorbitante di cui dispone al fine di produrre ciò a cui si applica, cioè i soggetti produttivi il cui assoggettamento assume di conseguenza l’aspetto di un autoassoggettamento”.

Se il tempo totale è tempo di lavoro, è perché il corpo autoassoggettato è forza lavoro. Il soggetto produttivo delle piattaforme risponde in toto a questo schema. Non è possibile scollegare l’assoggettamento del lavoratore dalla seconda natura del vivente. Per questa ragione la comprensione delle attitudini sul lavoro del soggetto produttivo delle piattaforme può essere compresa solo se inserita nel contesto più ampio che mette in relazione il corpo con il tempo, le norme con i valori, l’estrazione con l’inclusione.

La centralità della vita come continuum produttivo viene sintetizzata – ancora da Macherey – in un imperativo: non è importante ciò che fai, è importante ciò che sei. Il potere delle norme ci pone sempre davanti all’ obbligo di dire chi siamo, quanto siamo disponibili a lasciare estrarre dalle nostre vite, o quale prezzo possiamo pagare per la nostra inclusione.

*

L’inchiesta operaia degli anni Sessanta ha segnato un momento fondamentale nel processo di sviluppo della coscienza analitico-politica di come le trasformazioni nel mondo produttivo e riproduttivo andavano lette alla luce di una nuova “composizione di classe”, di una nuova soggettività, che necessitava di nuove chiavi lettura, nuovi strumenti d’indagine. Era divenuto ormai chiaro che il nuovo soggetto della produzione, l’operaio-massa della fabbrica fordista, aveva travolto le consolidate forme di rappresentazione del mondo dominanti fino al decennio precedente, centrate su valori e classificazioni che il nuovo modello sociale e produttivo, al cui interno quel soggetto si impone, aveva reso inservibili.

Quel modo di fare inchiesta va ripreso, rinvigorito e aggiornato, se è vero che lo sfruttamento della forza lavoro basato sul tempo della fabbrica assume oggi il tratto dell’estrattivismo dai corpi nel tempo della vita. È un cambio che rende l’inchiesta più complicata, moltiplica gli spazi dove va svolta, fa saltare i punti cardinali che hanno consentito la navigazione euristica nel mondo rigidamente strutturato della fabbrica e della società fordista. È quanto appare in modo evidente anche dalle testimonianze che hanno dato forma e sostanza a La fabbrica del soggetto: la distanza tra le prime due e le ultime sembra siderale, nonostante le separino solo sessant’anni.

Per arrivare alla conclusione di questo articolo cercando di non lasciare troppi punti in sospeso, provo a definire l’ambito geopolitico e sociale al cui interno si colloca il soggetto produttivo delle piattaforme. Si tratta del “quarto mondo” di cui parla Robert JC Young nel suo Postcolonial remains. Un mondo senza confini predefiniti, che si articola lungo un intreccio di striature attraverso i continenti, collegando tra loro zone geograficamente lontane. Ciò che li unisce è una forma di “invisibilità politica” dei suoi abitanti – molto più numerosi e articolati rispetto all’insieme dei lavoratori delle piattaforme -, non perché siano oggettivamente invisibili, ma perché ci si rifiuta di vederli, di ri-conoscerli, o, che è la stessa cosa, perché si pensa di conoscere già quello che c’è da sapere, con gli strumenti che abbiamo a disposizione.

Come ci ha insegnato l’inchiesta operaia degli anni Sessanta, correggere la presbiopia che non ci fa vedere ciò che è troppo vicino significa affinare gli strumenti che usiamo. Significa far tornare l’inchiesta ad avere una funzione attivista, ciò che, con i nostri limitati mezzi, ci siamo proposti di promuovere con quel prodotto editoriale e che crediamo debba ampliarsi. Attivismo significa tornare a respirare, visto che viviamo un tempo in cui “respirare è tanto difficile quanto cospirare”.

Note:

[1] https://www.ilsole24ore.com/art/just-eat-assumera-rider-2021-ADwfbG1

Fonte: Altraparola

Testi citati

N. De Genova, Inclusione attraverso l’esclusione, Transglobal, 24.10.2015, https://associazionetransglobal.jimdofree.com/2015/10/24/inclusione-attraverso-l-esclusione/

G. Deleuze, Il sapere. Corso su Michel Foucault (1985-1986), Verona, Ombre Corte, 2014

U. Eco, Il secondo diario minimo, Bompiani, Milano, 1994

M. Foucault, Del governo dei viventi. Corso al Collège de France (1979-1980), Feltrinelli, Milano, 2021

International Labour Organization, World Employment and Social Outlook. The role of digital labour platforms in transforming the world of work, Report, 2021 https://www.ilo.org/global/research/global-reports/weso/2021/WCMS_771749/lang–en/index.htm

S. Hall, Politiche del quotidiano, Il Saggiatore, Milano, 2006

P. Macherey, Il soggetto produttivo: da Foucault a Marx, Ombre Corte, Verona, 2013

S. Mezzadra, B. Neilson, Confini e frontiere. La moltiplicazione del lavoro nel mondo globale, Bologna, Il Mulino, 2014

A. Negri, Macchina tempo. Rompicapi, liberazione, costituzione, Feltrinelli, Milano, 1982

R.J.C. Young, Postcolonial remains, New Literary History n. 43, 2012,

https://www.researchgate.net/publication/236704817_Postcolonial_Remains

* Stefano Rota, ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. Ha pubblicato recentemente con altri autori La (in)traducibilità del mondo (Ombre Corte, 2020) e ha contribuito a F. O. Dubosc (a cura di) Lessico della crisi e del possibile (SEB27, 2019). La sua ultima pubblicazione è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone.

Articolo ripreso da:  https://comune-info.net/corpo-tempo-e-piattaforme/

29 dicembre 2023

S. QUASIMODO RICORDA I FRATELLI CERVI

 

I sette fratelli Cervi




In tutta la terra ridono uomini vili,
principi, poeti, che ripetono il mondo
in sogni, saggi di malizia e ladri
di sapienza. Anche nella mia patria ridono
sulla pietà, sul cuore paziente, la solitaria
malinconia dei poveri. E la mia terra è bella
d’uomini e d’alberi, di martirio, di figure
di pietra e di dolore, d’antiche meditazioni.
Gli stranieri vi battono con dita di mercanti
il petto dei santi, le reliquie d’amore,
bevono vino e incenso alla forte luna
delle rive su chitarre di re accordano
canti di vulcani. Da anni e anni
vi entrano in armi, scivolano dalle valli
lungo le pianure con gli animali e i fiumi.
Nella notte dolcissima Polifemo piange
qui ancora il suo occhio spento da navigante
dell’isola lontana. E il ramo d’ulivo è sempre ardente.
Anche qui dividono in sogni la natura,
vestono la morte e ridono i nemici
familiari. Alcuni erano con me nel tempo
dei versi d’amore e solitudine nei confusi
dolori di lente macine e di lacrime.
Nel mio cuore finì la loro storia
quando caddero gli alberi e le mura
tra furie e lamenti fraterni nella città lombarda.
Ma io scrivo ancora parole d’amore,
e anche questa è una lettera d’amore
alla mia terra. Scrivo ai fratelli Cervi
non alle sette stelle dell’orsa: ai sette emiliani
dei campi. Avevano nel cuore pochi libri,
morirono tirando dadi d’amore nel silenzio.
Non sapevano soldati filosofi poeti
di questo umanesimo di razza contadina.
L’amore la morte in una fossa di nebbia appena fonda.
Ogni terra vorrebbe i vostri nomi di forza, di pudore,
non per memoria, ma per i giorni che strisciano
tardi di storia, rapidi di macchie di sangue.
Salvatore Quasimodo