28 febbraio 2018

RICETTARI DI NOSTRADAMUS




Il ricettario delle confetture di Nostradamus. Tra cucina e alchimia nella Francia del XVI secolo

Livia Montagnoli

Celeberrimo e temuto profeta, in realtà intellettuale e farmacista francese vissuto nella Francia della metà del Cinquecento, Nostradamus scrisse pure un trattatello su cosmetici e marmellate. Un libro curioso che coniuga interesse scientifico, nozioni alchemica, sapienza gastronomica. Raccontando la moda del tempo e tramandando ricette facilmente replicabili. 


Cosmetici e marmellate
Passato alla storia per le sue profezie apocalittiche – ce n'è una buona per ogni occasione! - Nostradamus era studioso e scrittore di interessi molteplici, come eclettismo intellettuale cinquecentesco comanda(va). Ma se tutti hanno avuto a che fare, almeno una volta, con le previsioni raccolte nel libro di Profezie pubblicato nel 1555, più difficile è trovare qualcuno che si sia spinto a indagare più a fondo nella vita di Michel de Notre-Dame, tra i suoi interessi e le sue passioni.
Lo spunto ce lo fornisce un articolo recentemente pubblicato da Atlas Obscura, divertente (e ben documentato) progetto editoriale che online raccoglie un campionario di luoghi e aneddoti curiosi dal mondo. Oggetto della scoperta, il Trattato su cosmetici e confetture scritto dall'intellettuale francese poco dopo aver dato alle stampe la sua pubblicazione più celebre, nel 1556 (una riedizione rispetto alla prima versione, che non faceva menzione delle confetture). Un trattatello che raccoglieva le competenze maturate sul campo da Nostradamus, e i suoi studi da farmacista ed erborista, che nel corso della sua vita lo porteranno in giro per l'Europa in qualità di guaritore dalla peste, peraltro richiestissimo. Tra le pagine, dunque, tante formule e rimedi di bellezza, ma soprattutto, ed è l'aspetto più curioso, un vero e proprio ricettario per la preparazione fai da te di marmellate e confetture, anche perché, all'epoca, lo zucchero era un ingrediente così prezioso, e raro, da essere considerato un prodotto quasi esoterico, di cui sfruttare al meglio le virtù “terapeutiche” (e la vendita di zucchero, nel Cinquecento, spesso passava per le farmacie).

Le proprietà dello zucchero
Nostradamus, però, lo utilizza pure per scopi molto più facilmente assimilabili all'uso che ne facciamo oggi, interessato, principalmente, a studiare il fenomeno “della conservazione delle sostanze periture attraverso lo zucchero”, quando la moda del tempo ricorreva principalmente a essiccare la frutta per farne scorta: ecco perché, tra pozioni enigmatiche che mischiano cannella e sangue di corvo  - pare sia un filtro d'amore infallibile, per chi volesse provare – salta fuori la ricetta per preparare una marmellata di ciliege a regola d'arte. Il procedimento? Non dissimile dai trucchi tramandati dalla sapienza popolare: far sobbollire lentamente sul fuoco le ciliege, fin quando non sarà facile togliere noccioli e bucce, poi aggiungere lo zucchero, e proseguire la cottura fin quando la marmellata raggiungerà la giusta densità, quella, suggerisce Nostradamus, “per cui un cucchiaio di marmellata fatta colare su un piatto non scivola via”. Ricette prelibate degne del banchetto di un re, come peraltro all'epoca era molto probabile fosse, sempre considerando il pregio degli ingredienti utilizzati, non solo lo zucchero, ma anche le spezie in arrivo da lontano, di cui abbondavano le tavole nobiliari. Tra le altre specialità della casa, anche la marmellata di mele cotogne, “di cui sarebbe un peccato eliminare la buccia, perché esalta il gusto della preparazione”, suggerisce con piglio da intenditore il nostro profeta in prestito alla cucina. A cottura ultimata, “il colore sarà di un bel rosso rubino”.

La confettura di scorze d'arancia
O le scorze d'arancia confettate, parenti delle nostre scorze candite, ma pure della marmellata d'arance: “Prendete delle scorze di arancia, fatele bollire in acqua chiara assieme a una bella manciata di sale. Fate bollire l’acqua finché non la vedrete diventar gialla, poi gettate l’acqua. Lavate le scorze cinque o sei volte in acqua ma senza lasciarle macerare e stando attenti a non romperle. Quando saranno ben lavate, assaggiatele per vedere se non sentono di sale. Quindi fatele bollire in acqua chiara finché uno spillo vi entrerà facilmente, toglietele dal fuoco, mettetele in acqua fredda”. Le scorze, così trattate, finivano poi nello sciroppo di zucchero fuso, portate a ebollizione e chiuse in barattolo. E ancora, nel ricettario, Nostradamus dà dimostrazione di saperci fare anche con la trasformazione delle verdure (si legga la dettagliatissima ricetta della confettura zucca, che “per la sua delicatezza si può mangiare allo scopo di mitigare l’eccesso di calore del cuore e del fegato”) e nozioni base di pasticceria, per preparazioni all'epoca molto diffuse, come il marzapane, anch'esso consigliato non solo per il gusto, ma per il suo potere medicinale.

Mangiare a corte nel XVI secolo
Un mix di buon senso della massaia, empirismo e alchimia per iniziati, che il profeta sperava potesse riscontrare grande successo: “Onde appagare il volere e l'affezione di molte amabili persone, puranche di sesso femminino [...] non resta che fare l'acquisto del suddetto opuscolo, il quale insegna a conservare ogni sorta di frutta”, scrive nell'introduzione al Trattato. Ma ci fornisce anche uno spaccato storico delle mode gastronomiche che rimbalzavano allora tra corti rinascimentali, con l'Italia, insieme alla Spagna, terra di preparazioni prelibate: “Se vi atterrete alle istruzioni, vedrete che per bontà e bellezza queste confetture non saranno in nulla diverse da quelle che vengono in Francia dalla Spagna o dall’Italia. Se però risparmierete sullo zucchero, la vostra confettura sarà chiamata confettura solo per il suo odore, si deve imitare chi prepara l’insalata che certo non risparmia sull’olio; allo stesso modo non bisogna risparmiare sullo zucchero”. E così, a modo suo, anche Nostradamus entra nella storia della letteratura gastronomica francese.

Articolo a cura di Livia Montagnoli ripreso da  http://www.gamberorosso.it/it/news/1046906

CARLA BENEDETTI, Fragili uomini


Uomini, fragili uomini,
Anime ferite
Che ascoltano il cuore
E si aprono al dolore.


Uomini col coraggio
Di mostrarsi. 


Abbracci di fratello
Di figlio,
Di padre
Che danno guarigione.


Dove eravate
Quando la mia età fioriva?
Persi dietro a lotte
Ormai perse.
In utopie potenti
Chi vi hanno tradito.
Che avete tradito.

Giovani uomini di oggi,
La vostra tenerezza
Mi commuove.

Potessi tornare fanciulla
Vi amerei
Negli anni con tanto futuro.
Vi amerò da madre,
Con la gioia di avervi incontrato
Con la speranza che
Vi incontri mia figlia.

Carla Benedetti

Ecco come la lettura dell' ILIADE può aiutare a capire il nostro presente.


  Immagini della guerra infinita nella Siria dei nostri giorni


    Qualche settimana fa una cara amica, Raffaella Terribile, ha postato sul suo diario facebook il tema svolto da una sua alunna liceale, dopo la lettura e i commenti fatti  in classe del celebre passo dell'Iliade che si sofferma sull'ultimo incontro tra Ettore e Andromaca. Il testo scritto dall'alunna mi ha toccato profondamente e mi ha fatto ripensare agli anni in cui anch'io insegnavo e mi emozionavo di fronte a quello che riuscivano a scrivere i ragazzi. (fv)

 LA GUERRA IERI E OGGI



1200 a.C. Un uomo corre nel buio. Disperazione nei suoi occhi che brillano come gemme serrate fra due labbra brillanti. È una bocca forte quella che sembra volergli inghiottire il volto, una bocca dorata che ringhia contro chiunque s’osi andarle accanto malignamente, sfiorarle il pennacchio, protendere una punta verso quel volto. Corre affannato, il cuore più colmo d’ansia che d’altro, porta con sé un tondo di legno rivestito di cuoio. Il tondo non dondola, non arriva dopo, lo scudo avanza fiero col suo signore. Qualche fuoco rischiara il buio, si riflette sulle pietre che i suoi sandali calpestano. Quanto ha corso? Gli schinieri ormai gli fanno male, la lamina di metallo che gli copre il busto pesa. È troppo. Al suo fianco dondola imperterrita l’arma. Può un uomo vivere così? Il sangue che scorre ogni istante più forte…, ed eccola. Casa. Il buio impesta la vista fra quelle quattro mura, sembra volerlo divorare. Gli occhi bruciano punzecchiati da gocce di sudore che martellano il suo corpo scendendo dalla fronte, dopo essersi fatte strada fra i capelli, dopo aver sentito il gusto del suo elmo. Dov’è lei? Dov’è lui? Posa piano lo scudo, la veste del figlio fra le dita, ora. Può cedere un eroe? Stringe la stoffa piano al petto, dolce. Ma dove sono loro? Le tempie martellano, ma è tempo di andare. Corre ancora l’uomo, non ansima più. Le Porte Scee. Ed eccola. Quel vestito bianco, il capo scoperto contro tradizione, un’ancella col bimbo in braccio, dietro. L’aria della notte sposta indietro quei fili d’oro che le adornano il viso. Così bella, corre. Non si cura di come arriverà. Corre, quei fuochi le aprono la strada, dietro di lei il bimbo avvolto fra le bende può sentir palpitare il cuore affannato dell’ancella.
“Non andare, Ettore!”
“Devo andare”.
Andromaca. Donna, così fragile dopo tante sofferenze. Piange, prega, implora disperata. Può una donna vivere così? Il bimbo freme. Quell’elmo luccicante, quel mostro che quei fuochi fanno brillare, che teneva fra le braccia la madre, ora va verso di lui.
Piange Astianatte, non capisce che il mostro che vede è suo padre. Non sa che oltre il seno della donna che lo stringe ci sono solo mostri. Il padre si toglie l’elmo. Ricordami figlio, non come colui che ti spaventò prima di sparire, ma come colui che combatté per te. Ricordami Andromaca con amore, anche se non hai potuto dissuadermi da ciò ch’era mio compito fare.
Sarà l’ultima volta che si vedranno l’uno davanti all’altra. Anche se non lo vogliono credere, è un addio. 


2009 d.C. In un qualunque appartamento, casa o fattoria. Rumore al piano di sotto. È presto, che strano. O forse non è presto. Una donna scende le scale tremante, gli occhi lucidi. È giovane, stringe un bimbo che ancora sogna. Ad ogni suo passo le scale scricchiolano, e il suo cuore batte sempre più forte. Il fruscio della vestaglia. I gemiti del piccolo che si sta svegliando. Ogni goccia di pioggia che cade la fa trasalire, le manca il fiato. È oggi. Passi. Quanto vorrebbe restare lì per sempre, non trovarlo già pronto varcando quella porta. Quanti ricordi, ogni angolo della loro casa. Chissà quanto cambierà la sua vita fra poco, quanto potrà resistere? Può una donna vivere così? Varca la soglia. Sapeva che lui era là. Sta dando un ultimo saluto a tutto. I capelli radi, quella barba che le piaceva tanto non c’è. Ha già quel vestito così familiare negli ultimi tempi, il verde e il marrone che si intersecano come serpenti sulla sua giubba, sui suoi pantaloni. Ai piedi non più le pantofole che gli aveva regalato lei…, due lustri stivaloni neri calpestano le mattonelle incerti e vanno verso la porta. Paonazzo. Piangente. Poi fiero. Gli si legge negli occhi la paura. È già stato lì, ma ancora il bimbo non c’era. Può un uomo vivere così? Le è di fronte, l’accarezza piano, il suo viso, le sue mani. Ne vuol ricordare ogni lineamento. Il bimbo si sveglia al suo tocco. Piange. Quello non è il suo papà. Bacia dolcemente il figlio, la moglie in lacrime fra le braccia. Bacia anche lei.
“Non andare!”
“Devo andare”.
Ricordami figlio mio. Ricordami amore.
Sarà l’ultima volta che si vedranno l’uno davanti all’altra. Anche se non lo vogliono credere, è un addio.

Due epoche lontane millenni, ma episodi come questi si ritrovano uguali nel corso della storia. Ogni secondo battuto dall’orologio una persona muore nel mondo, ma è orribile pensare che muoia per un proiettile insensibilmente sparato, per una freccia scoccata, per una lancia conficcata.
Il passo di Iliade che canta l’incontro fra Ettore e Andromaca è uno dei pochi in cui Omero, il rapsodo che idealmente viene identificato come autore dell’opera orale, lascia trasparire il dolore di una famiglia spezzata dalla guerra. E come Ettore, che lascia tutto per difendere il Paese, o nel suo caso la Città, quanti altri uomini, in tutti i tempi, sono partiti per non tornare? Quante donne hanno pianto disperate un marito, un figlio, un padre, un fratello perduto?
“Presentate la vostra scelta con una descrizione ben articolata”. Ma come si può descrivere una guerra a chi non deve combattere nemmeno per ottenere in dono il capriccio del momento? I libri di storia parlano di morti e disperazione quasi come se nulla fossero, con distacco. Ma tutte le persone rimaste sole, le famiglie distrutte, i giovani e gli uomini i cui corpi giacciono sotto il fango anche ora, contano? Forse no, perché il libro è scritto dai vittoriosi, e la vittoria deve essere gloriosa. Oppure è scritto da chi ha perso, ma “limitare i danni” nel racconto di un avvenimento devastante lascia l’animo di chi legge libero di non fermarsi a pensare e, come abbiamo avuto esempio anche nell’ultimo decennio, di continuare a fare gli stessi errori.
Primo Levi diceva: “Chi non conosce il passato, è condannato a ripeterlo”, e credo davvero che non ci sia modo più giusto di mettere in guardia dagli errori che hanno segnato la storia dell’uomo in tutte le sue notti buie.
Platone, invece, nel Simposio diceva che se l’amore regnasse sovrano sulle azioni dell’uomo, il mondo sarebbe migliore. Non ci sarebbero più l’egoismo e l’avarizia che quasi sempre muovono le guerre – perché, mi si conceda, anche i grandi eroi cantati da Omero erano a Troia per razziare e saccheggiare la ricca città –.
Forse Platone esagerava, sarebbe ben difficile che tutti si amassero, ma che almeno fra esseri umani ci si rispettasse…
E tanti, tanti direbbero: “Ma io non posso cambiare il mondo!”.
Puoi, però, cambiare te stesso.

“Se prendi le persone come sono, le rendi peggiori.
Se invece le prendi per quello che dovrebbero essere,
le trasformi in quello che possono diventare.”

(Anonimo)


27 febbraio 2018

P. NERUDA, Ode al limone


H. Matisse, anemoni, arancia e limone in un interno - 1924




Così, quando la sua mano
strinse l’emisfero
del tagliato
limone sul tuo piatto,
un universo d’oro
tu spargi,
un giallo calice
di miracoli,
uno dei capezzoli odorosi
del petto della terra,
raggio di luce convertito in frutto,
il minuscolo fuoco di un pianeta.


(Ode al limone, Pablo Neruda)

LA DEMOCRAZIA ieri e oggi.



Pubblichiamo qui integralmente il celebre discorso di Pericle, politico, oratore e militare ateniese, rivolto ai suoi concittadini sul tema della democrazia. Un discorso tenuto in commemorazione dei caduti del primo anno della guerra del Pelopponeso (431 a.C.), riportato (o ricostruito) da Tucidide.
E' stato osservato da alcuni studiosi che si tratta, evidentemente, da parte di Pericle, di una idealizzazione estrema del concetto di democrazia, lontana dall'applicazione reale della politica concreta. Tuttavia, l'appello dello scrittore Camilleri agli studenti liceali, di «costruirvi il futuro, di rifare la politica, perché voi siete giovani e potete permettervelo», è splendidamente sottolineato dall'invito di Pericle alla moralizzazione della politica stessa, per cui «un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private».
Di particolare interesse e modernità anche la riflessione finale di Pericle che parlando di Atene, che in quel momento storico esercita un'egemonia incontrastata nel mondo greco e non solo, ricorda «che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero», a differenza invece invece di quanti oggi, tanti, troppi, anche tra i cattolici, auspicano nei confronti delle nuove migrazioni, in aperto contrasto con la lettera del Vangelo.

Pino Pignatta in un articolo del 23 febbraio 2018 pubblicato in http://m.famigliacristiana.it/articolo/pericle.htm
 

Pericle, discorso agli Ateniesi, 431 a.C.

Qui ad Atene noi facciamo così.
Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Le leggi qui assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’ eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
Qui ad Atene noi facciamo così.
La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana; noi non siamo sospettosi l’ uno dell’ altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo se al nostro prossimo piace vivere a modo suo. Noi siamo liberi, liberi di vivere proprio come ci piace e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati, e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticare mai che dobbiamo proteggere coloro che ricevono offesa. E ci è stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte che risiedono nell’ universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è buon senso.
Qui ad Atene noi facciamo così.
Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile; e benchè in pochi siano in grado di dare vita ad una politica, beh tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma, io proclamo che Atene è la scuola dell’ Ellade e che ogni ateniese cresce sviluppando in sé una felice versalità, la fiducia in se stesso, la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
Qui ad Atene noi facciamo così.

FOLLA E POPOLO

Honoré Daumier, “Nous voulons Barabbas”


      Una mia cara amica, Aurelia D'Andrea, stamattina ha opportunamente citato un passo del grande critico e storico dell'arte, Giulio Carlo Argan, che illumina il celebre quadro di H. Daumier. La netta distinzione  che propone Argan tra FOLLA  e POPOLO oggi mi sembra più necessaria che mai. (fv)


«Si osservi questo dipinto: […] La figurazione è quella che va comunemente sotto il titolo di “Ecce Homo”: Daumier la muta in “Nous voulons Barabbas”, integrando così l'immagine con le parole urlate dalla folla. Quando raffigura genti del popolo, Daumier dà loro un senso eroico, una gagliardia quasi michelangiolesca. Qui però non si tratta di popolo, ma di folla: il popolo resiste e si ribella, la folla cede al potere. Bisogna dunque presentare la folla come qualcosa di amorfo, di sfatto, di impersonale. […] La deformazione […] è una deformazione più morale che fisica, che vuol dare il senso e il disgusto della mollezza, della manovrabilità della folla. […] Daumier, insomma, non rappresenta il fatto, ne esprime visivamente il significato morale: l'incolpevole, stupida malvagità della folla ubbidiente alla malvagità torva dei potenti».

Giulio Carlo Argan, da “Lettura - Honoré Daumier - Noi vogliamo Barabba”, in L'arte moderna 1770/1970, Sansoni, 1970.