30 novembre 2017

TORNIAMO A GRAMSCI E AL DIAVOLO RENZI, SCALFARI E RECALCATI!




"Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all’opera, ricominciando dall’inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attendersi niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via."
#gramsci

 
Stralcio della lettera dal carcere al fratello Carlo ( 1927).

29 novembre 2017

SERVI DELLA NORMA E DEL CAPITALE


Un bordello visto da R. Guttuso

Quanti individui ho conosciuto - l'ultimo è l' ex psicoanalista Massimo Recalcati diventato politologo ed editorialista del fogliaccio di Eugenio Scalfari - "servi della norma e del capitale", per dirla con le parole del compianto Pasolini:

Lo spirito, la dignità mondana,
l’intelligente arrivismo, l’eleganza,
l’abito all’inglese e la battuta francese,
il giudizio tanto più duro quanto più liberale,
la sostituzione della ragione alla pietà,
la vita come scommessa da perdere da signori,
vi hanno impedito di sapere chi siete:
coscienze serve della norma e del capitale. 


Pier Paolo Pasolini

S. ESENIN, Io ricordo, amata




Io lo ricordo, amata, io lo ricordo,
Lo splendore dei tuoi capelli;
Non fu allegra vicenda, né leggera,
Per me l’abbandonarti.

Delle notti autunnali mi ricordo,
Del murmure nell’ombra di betulle:
E se allora più corti erano i giorni,
Più a lungo dava luce a noi la luna.

Ed io ricordo che tu mi dicevi:
«Questi anni azzurri se ne andranno via,
E tu, mio amato, dimenticherai,
Per sempre, per un’altra».

Ma oggi il tiglio che va rifiorendo
Di nuovo ha ricordato ai sentimenti
Come teneramente cospargevo
A quel tempo i tuoi riccioli di fiori.

E il cuore, non disposto a raffreddarsi,
E amando un’altra con malinconia,
Va ricordando con quell’altra te,
Come un lungo racconto prediletto.

Sergéj Esénin (1895-1925)
Io lo ricordo, amata…
(Traduzione di G. P. Samonà)
da “Poesie”, Garzanti Editore, 1981

CIVILTA' FONDATE SUL FUOCO



La domesticazione del fuoco è stata una svolta fondamentale nella vita dell'umanità. Alcune ricerche ne raccontano la preistoria.

Marco Belpoliti

La storia della civiltà incomincia grazie al dono di Prometeo

La legna tagliata e accatastata a fine estate ora arde nella stufa. L'inverno non è ancora arrivato, tuttavia abbiamo già acceso il fuoco. Ogni volta che getto un pezzo di legno nella stufa penso a cosa deve essere stata la vita dell'umanità prima. Prima che il fuoco diventasse una fonte di calore, d'illuminazione e strumento di nutrimento. Secondo Catherine Perlès, autrice di "Preistoria del fuoco" (Einaudi), già all'epoca della glaciazione di Mindel, 450mila anni fa, alcuni uomini mantenevano il fuoco nelle loro abitazioni.

Come se l'erano procurato? Oggi è facile, basta comprare i fiammiferi in una qualsiasi tabaccheria (anche se non tutte vendono più i cosiddetti "svedesi"). Ma come hanno fatto i nostri progenitori a ottenerlo? Veniva ricavato da fonti naturali o era prodotto artificialmente? Tre sarebbero state le fasi dell'ancestrale rapporto dell'uomo col fuoco: in un primo tempo gli uomini non sarebbero stati capaci di padroneggiare quello provocato da fulmini, e ne avevano gran paura; poi hanno imparato a raccoglierlo e ad alimentarlo, senza però riuscire a produrlo; nella terza fase, infine, 400mila anni fa, sono stati in grado di far scaturire il fuoco ogni volta che serviva loro.
Senza il fuoco non saremmo sopravvissuti, e non avremmo avuto la ceramica, la prima arte secondo Lévi-Strauss, e neppure la fusione dei metalli. In breve: niente civiltà. Siamo figli del fuoco, come ci ha spiegato in modo poetico e filosofico, Gaston Bachelard nella sua Poetica del fuoco.

L'uomo si differenzia dagli animali solo il giorno in cui diventa padrone del fuoco; lo fa, come ci rammenta il mito di Prometeo, a spese degli dèi, poiché il fuoco è di natura divina (James G. Frazer, Miti sull'origine del fuoco, Xenia). Se anche noi siamo divini, lo dobbiamo perciò al fuoco. Tuttavia la cosa più interessante che ci spiegano i paleontologi è che la scoperta e l'utilizzo del fuoco presuppone non un progresso tecnico, bensì psichico. L'Australopiteco possedeva già i mezzi necessari per usare il fuoco (fuochi spontanei, conservazione e produzione), però non sembra avesse, scrive Perlès, la struttura mentale per sfruttarli.
Questo scarto si crea nella percezione del rapporto tra percussione o confricazione e produzione del fuoco. Lo scatto è avvenuto lì, nella testa dei nostri progenitori; poi la questione diventa puramente tecnica. Spesso ci dimentichiamo che le scoperte umane sono prima di tutto l'effetto di un progresso psichico e solo dopo di un fatto tecnico, il computer come il fuoco.

Su come l'hanno prodotto i nostri antenati ci viene in soccorso un libro curioso: Fire. L'arte delle fiamme (Piemme) di Daniel Hume. Hume è un esperto di sopravvivenza in zone selvagge, uno di quei curiosi personaggi che cercano di ripercorrere il cammino dell'umanità reinventando i metodi perduti per cui siamo quello che siamo. Appassionato del fuoco da ragazzo, come racconta, è stato in giro per il mondo, dall'Africa all'Asia e all'Oceania, per scoprire come le tribù sopravvissute nelle foreste di quei tre continenti si procurano ancora oggi il fuoco. 
Mentre sto scrivendo giro le spalle alla stufa dove brucia un ciocco di legna che i miei vicini hanno tagliato e io ho stoccato sotto il portico nel mese di settembre. Ho da poco finito di leggere il libro di Hume, seguito naturale del libro di Lars Mytting, Norwegian Wood (Utet). Mentre il libro di Mytting era un libro centripeto, fondato sulle pratiche di taglio e accatastamento della legna, questo di Hume è invece centrifugo: ci porta in giro per il mondo all'inseguimento dei sei metodi fondamentali attraverso cui l'umanità è stata in grado di produrre fiamme quando e dove voleva. Anche se non si è stati scout, tutti conoscono il metodo del piolo a mano, e quello del trapano ad archetto, sua variante: frizionare un legno su un altro legno, possibilmente asciutto, e avere un'esca di paglia o foglie per raccogliere il fuoco.

C'è uno strano connubio di ontogenesi e di filogenesi nel percorrere con Hunt, narratore vivace ed entusiasta, i metodi dei cosiddetti "primitivi", metodi che ci riportano all'infanzia dell'umanità, ma anche alla nostra (o mia), quando accendere il fuoco era un bisogno insopprimibile: non si diventava adulti senza aver fatto questa prova, fosse anche con la lente e il sole (settimo metodo, non antico però). Siamo tutti degli incendiari, potenziali discepoli di Erostrato: è il complesso del fuoco di Bachelard.
Gli altri metodi sono: quello dell'aratro, sempre usando legno; della sega, simile; della cinghia, sua variante; e quello del pistone pneumatico, il più curioso. La base di tutto è strofinare, frizionare e agitare un legno con un altro legno, salvo il caso di accendere il fuoco con le scintille provocate dal percuotere una pietra con un'altra (ottavo metodo). Hume è un tipo pratico e va al sodo. Non si pone il problema di cosa sia per noi il fuoco. Forse non ha neppure letto il libro della Perlès, o l'altro bel volume di Johan Goudsblom, Fuoco e civiltà (Donzelli editore); e neppure si pone la questione che ha coinvolto Richard Wrangham, docente di Antropologia biologica a Harvard, in L'intelligenza del fuoco (Bollati Boringhieri). Questi ha dimostrato come la cottura del cibo abbia modificato l'umanità nel corso di migliaia di anni, problema che neppure Darwin aveva esaminato. Wrangham ha concluso che noi, Homo Sapiens, siamo sopravvissuti perché abbiamo cominciato a cuocere il cibo.

Eppure un fascino un po' selvaggio (e ingenuo) il libro dell'esperto di sopravvivenza Hume ce l'ha. Adesso che l'ho letto, in caso d'improvviso collasso della civiltà, so come accendere un fuoco. Naturalmente spero di non dovermi mai trovare nelle condizioni del protagonista de La strada di Cormac McCarthy. Mai dire mai.

La repubblica – 15 novembre 2017

IN MEMORIA DI ALESSANDRO LEOGRANDE



Due giorni fa, per un improvviso malore, è morto un giovane scrittore che avevamo più volte ospitato in questo blog. Ci riconoscevamo nei suoi brevi e appassionati pezzi che mettevano alla berlina le indecenti classi dirigenti che stanno affossando il bel paese. E' stato uno dei migliori allievi di Goffredo Fofi e a noi dispiace tanto  che una delle poche voci libere dell'odierno giornalismo si sia spenta così. (fv)

 ALESSANDRO LEOGRANDE
di Nicola Lagioia

Ho conosciuto Alessandro Leogrande nella migliore scuola che io abbia mai frequentato, quella di Goffredo Fofi. Non avevamo trent’anni, venivamo entrambi dalla Puglia, eravamo da poco arrivati a Roma. Io in quella scuola ero appena uno studente, mentre Leogrande – pure più giovane di me – era già passato all’insegnamento. Aveva capito delle cose di cui molti di noi erano appena consci. Ad esempio il fatto che chi non capisce il sud, o non tenta di capirlo, non capisce niente non solo dell’Italia ma dell’Europa, e forse del mondo.
Per questo tentativo di comprensione, Leogrande si avvaleva di strumenti che all’epoca non usava quasi nessuno: il reportage narrativo, corroborato da una preparazione teorica saldissima, una rara capacità di affondare le mani nella realtà, la consapevolezza di valori non negoziabili. Per lui l’altro non era un’astrazione, e la giustizia sociale era una pratica continua. Non è un caso che abbia vinto il premio intitolato a Ryszard Kapuściński.
In un paese sempre più allo sbando, Alessandro Leogrande riusciva a unire lo spirito analitico alla passione civile. Si è occupato in modo serio di criminalità senza mai diventare un professionista dell’antimafia. Di sfruttamento sul lavoro senza retorica. Di migranti e migrazioni in modo così profondo che – visto lo spettacolo offerto negli ultimi mesi – l’intera classe politica nazionale di destra e di gran parte della sinistra dovrebbe sprofondare nella vergogna, per come non è stata capace di avvalersene. Ma la politica in Italia nemmeno ha idea di quali siano le menti migliori del paese.
L’Italia deve molto a questo ragazzo coraggioso e allergico alle scorciatoie. Chi lo frequentava sulla pagina – ancor più nella vita – vedeva in lui una pietra di paragone. La sua esistenza ti obbligava a essere più intelligente. Non potevamo scrivere di politica, di Mezzogiorno, di migrazioni, di mutamenti sociali senza pensare “che cosa ne penserebbe Alessandro?” Così, dopo esserci dati una risposta, dovevamo tornare sulle nostre pagine.
Se l’Italia delle ultime generazioni ha avuto un intellettuale pulito (uno per cui comprendere era più importante che esibirsi) era lui. E poi la nostra terra. La parte più sana di quell’incompiuta che è stata la primavera pugliese la si deve a persone come Alessandro. Andatevi a leggere le pagine di Leogrande su Taranto. Me lo ricordo sulla spiaggia di Castellaneta Marina. Alle spalle sapevamo di avere l’Ilva, e davanti l’illusione di una vita ancora tutta da giocare.

Pezzo ripreso da   http://www.minimaetmoralia.it/wp/alessandro-leogrande/ 
 
Qui trovate i pezzi che Alessando Leogrande amava raccogliere su questa piccola rivista

28 novembre 2017

L. SCIASCIA, Le fontane di Militello


La fontana della Zizza a Militello (CT)




Militello in Val di Catania è antico, nobile e armonioso paese.
È affiorato clamorosamente alla cronaca l’anno scorso, tornatovi Pippo Baudo, che vi è nato, per celebrarvi le sue nozze con Katia Ricciarelli. Per Baudo era, credo, una scelta di sentimento; ma apparve e fu consumata sotto specie di sentimentalismo televisivo, escogitata per i media e pienamente arrivata a destinazione. Nessuno, dei tanti inviati a far resoconto dell’avvenimento, seppe o ricordò che la festa per le nozze di Baudo ripeteva e volgarizzava quella che Militello celebrò l’8 maggio del 1604, accogliendo don Francesco Branciforti e donna Giovanna d’Austria: festa di nozze, anche se il matrimonio era stato fastosamente
celebrato a Palermo l’anno prima. Ma Militello non poteva rinunciare a festeggiare le nozze quasi reali del suo signore: e tanto più che don Francesco corrispondeva all’affetto dei suoi sudditi con l’abbellire il paese e con l’addurvi copiosissime acque; acque che - promessa puntualmente mantenuta dopo febbrili lavori - da più fontane zampillarono il 28 aprile del 1607: e ancora una ne resta, chiamata della Zizza, bellissima. E sembra inverosimile ci sia stato un tempo, per un paese siciliano, in cui non solo la promessa di dare acqua veniva mantenuta, ma in cui la bellezza, è il caso di dire, faceva nozze con la pubblica utilità: ché oggi ci accontenteremmo di questa o di quella solamente.

Da Il ritratto di Pietro Speciale in Fatti diversi di storia civile e letteraria, Sellerio, 1989

E. DICKINSON, Per non vivere invano



Se io potrò impedire
a un cuore di spezzarsi
non avrò vissuto invano
Se allevierò il dolore di una vita
o guarirò una pena
o aiuterò un pettirosso caduto
a rientrare nel nido
non avrò vissuto invano


Emily Dickinson

ATTILIO BERTOLUCCI, Portami con te nel mattino





Portami con te nel mattino vivace
le reni rotte l'occhio sveglio appoggiato
al tuo fianco di donna che cammina
come fa l'amore,


sono gli ultimi giorni dell'inverno
a bagnarci le mani e i camini
fumano più del necessario in una
stagione così tiepida,

ma lascia che vadano in malora
economia e sobrietà,
si consumino le scorte
della città e della nazione

se il cielo offuscandosi, e poi
schiarendo per un sole più forte,
ci saremo trovati
là dove vita e morte hanno una sosta,

sfavilla il mezzogiorno, lamiera
che è azzurra ormai
senza residui e sopra
calmi uccelli camminano non volano.
                                                Attilio Bertolucci
 (San Prospero Parmense, 18 novembre 1911 – Roma, 14 giugno 2000)

MARIA CALLAS HA AMATO P. P. PASOLINI


Maria Callas e P.P. Pasolini in una pausa della lavorazione del film Medea

Callas e Pasolini: “Di quell’ amor…” 

Alessandro Cannavò


Una mostra allo Spazio Olivetti a Venezia celebra la grande Maria: lettere inedite, foto, cimeli. e la storia di una impossibile passione. Quando ebbe in dono dal suo regista un prezioso anello, credette fosse un pegno matrimoniale. Non era così e il poeta, nei suoi versi, svelò alla cantante il suo segreto: da quella ferita nacque un’amicizia, unico conforto della Divina.
“Quest’ombra caduta su di te, che io sento – parlandoti ingiustamente…” Sono parole dolenti quelle che Pier Paolo Pasolini rivolge a Maria Callas per incominciare Verba, una delle dieci poesie dedicate dallo scrittore alla divina. È già l’immagine messa a fuoco di un amore impossibile; ma anche il segno di un’amicizia intensa. Siamo a Trigonissi, un’isola dell’Egeo, nell’agosto del ’70. La Callas e Pasolini trascorrono insieme un intero mese di vacanza. Lunghe passeggiate in riva al mare, grandi confessioni. Maria racconta tutta la sua vita all’uomo che l’aveva fatta innamorare un anno prima durante le riprese di Medea, ma del quale aveva dovuto accettare ben presto l’omosessualità. E al tramonto Pier Paolo componeva.
Le poesie sono oggi custodite dal cugino dello scrittore, Nico Naldini. Furono pubblicate nella raccolta Trasumanar e organizzar, ma ben pochi percepirono a chi fossero indirizzate (la Callas non viene mai nominata), quale trepida storia ci fosse dietro. Ora due di queste vengono esposte nella grande mostra di foto, cimeli, lettere della Callas presentata fino al 31 luglio allo spazio Olivetti in piazza San Marco a Venezia, prima di girare il mondo in questo ’93 in cui la divina avrebbe compiuto 70 anni. Una notevole quantità di “inediti” che serviranno soprattutto a far conoscere meglio la Callas fragile, lontana dai riflettori del palcoscenico. Un altro squarcio di luce sul rapporto tra due delle personalità più controverse e affascinanti della nostra cultura.
Oltre a Verba, nella quale Pasolini definiva la Callas «ancora orgogliosa di essere una ragazza di città, e piena della morale antica…», c’è L’anello che allude agli equivoci e al “momento di verità” dell’unione tra i due. L’anello era quello che, dopo le scene finali di Medea nella laguna di Grado, Pier Paolo regalò a Maria: un’antica corniola di Aquileia incastonata in una struttura argentata di foggia romanica. La Callas lo scambiò per una vera dichiarazione, il preludio alla richiesta di matrimonio. Ma tra i versi Pasolini chiama il pegno “la gemma che disposa”!
In riva all’Egeo, Pasolini ritrasse la Callas anche in una serie di disegni su cartoncino. Il tratto è marcato e poi “graffiato”, le macchie di colore sono create con la terra, con i fiori e la frutta macerata. Fu Franco Rossellini a stabilire nel ’69 un primo contatto tra Pasolini e la Callas. Pier Paolo pensava a una Medea barbara, un’eroina che avrebbe destinato al rogo pronunciando le parole «Nulla è più possibile ormai». E immaginava nel soprano l’essenza di questa tragicità. Prima dell’incontro Maria volle vedere due film del regista: Il Vangelo e Teorema. Il primo le piacque, ma il secondo la scandalizzò. Pensava, Maria, di trovare un intellettuale comunista barricadero. Fu invece disarmata e colpita dalla personalità dolcissima, piena di sensibilità malinconica, di Pasolini: capì subito che aveva di fronte un uomo indifeso come lei. Accettò il progetto, scartando proposte cinematografiche, un Macbeth di Visconti, una Tosca di Zeffirelli, un film di Losey sulla sua vita. Medea doveva anche essere un segnale di Maria a Onassis: «come dire la fine della nostra storia non mi ha distrutta, sono ancora viva», racconta il giornalista Bruno Tosi, da sempre cultore dei grandi miti della lirica, che ha curato la mostra di Venezia e si appresta a far uscire un libro sulla cantante (Casta diva, editore Pantheon, a fine giugno), con 280 immagini, di cui 220 inedite, scritto in collaborazione con Enrico Castiglioni.
Il film non ebbe poi il successo sperato ma Pier Paolo e Maria costellarono il loro sodalizio di molti viaggi, tra cui quello in Africa nel Natale del ’70 in compagnia di Alberto Moravia e Dacia Maraini. Ricorda la Maraini nella prefazione al libro di Tosi: «Quando Maria diceva qualcosa di goffo, Pier Paolo la guardava sorridendo e se ne usciva con una “Mariaaa” dalla “a” finale molto allungata. E lei taceva mortificata ma anche contenta di essere stata redarguita affettuosamente… era così indifesa e arresa di fronte all’amore che veniva voglia di proteggerla. Forse sentiva l’esilio (voluto da lei) dai palcoscenici come qualcosa di imperdonabile e doloroso e si dedicava all’amore con animo fermo e trepido». Due anni dopo, in una lettera del luglio ’72 era la Callas a consolare Pasolini, abbandonato da Ninetto Davoli.
La mostra veneziana, curata da Marco Rietti, si avvale del materiale proveniente da alcuni collezionisti, Ilario Tamassia, Michele Nocera e il regista teatrale Flavio Trevisan, oltre che delle immagini dell’archivio de «Il Gazzettino» e di quello personale di Bruno Tosi. Tra gli oggetti ci sono due “amuleti” che la Callas portava sempre con sé. Un quadretto del Cignaroli (una “Sacra famiglia”), regalatole dal marito Giambattista Meneghini, suo ardente Pigmalione, dopo il debutto italiano del 47 in Gioconda all’Arena di Verona; e una cintura portata nella sua prima Aida, che poi volle indossare sempre in scena, nascosta sotto gli altri abiti. Lettere, telegrammi, bigliettini danno una luce diversa al personaggio grintoso e spavaldo della divina, ne rivelano soprattutto le ansie. Le parole più intense sono quelle degli ultimi anni. A Wally Toscanini nel ’66: «… Il mio fondo è una naturale timidezza e quasi gelosia e paura che mi vedano dentro l’anima che è così sensibile e vulnerabile…». Al grande critico Eugenio Gara, nello stesso anno: «… Non sai che tristezza può essere l’arte lirica oggi… Non dico che facevamo la perfezione ma almeno c’era tanta umiltà, devozione. Oggi c’è tanta vanità, presunzione e lasciamo stare il resto». Certo, viene fuori anche la Callas ruggente degli anni d’oro. Elvira De Hidalgo, la maestra che ebbe nel suo periodo greco, prima di giungere in Italia, in una lettera del 48 si congratula dei suoi successi: «Come vedi avevo ben ragione se ti dicevo di non ascoltare nessuno perché con il mio metodo avresti un giorno potuto cantare qualsiasi opera, mentre gli altri ti dicevano che eri un soprano drammatico a 16 anni…». In quello stesso periodo il direttore del Festival di musica contemporanea di Venezia, Ferdinando Ballo, le propone il Cardillac di Hindemith, l’ impresario Ansaloni le comunica in un telegramma che il Bellini di Catania la vorrebbe per due recite di Norma, «ma la richiesta di 120 mila lire a recita è trovata esagerata» (Maria agli inizi ne prendeva 80 mila a spettacolo, negli Anni ’60 arrivava a 10 milioni).
Luchino Visconti le fa gli auguri il 2 gennaio del ’58 a poche ore dalla Norma all’Opera di Roma, manifestandole nostalgia (per i fasti della Traviata scaligera), ammirazione e devozione grandissima: «Sarò nel palco di seconda fila a destra». Ma quella sera, davanti al presidente della Repubblica Gronchi, sarebbe avvenuto l’incredibile: Maria, che non era in forma per una raucedine, avrebbe interrotto l’opera dopo il primo atto, infastidita da battute d’ostilità del pubblico. «Andemo Tita che l’opera s’è finia», disse in veneto all’esterrefatto tenore Franco Corelli che racconta nel libro di Tosi le turbolenze della Callas dietro le quinte.
La reazione del pubblico al forfait fu rovente. E lo scandalo, enorme; persino il ministro dello Spettacolo Ariosto chiese ai teatri (e soprattutto alla Scala) di non chiamare più la Callas, perché aveva offeso il presidente: pressione comunque ignorata. Tosi pensa a una “riconciliazione” della Callas con Roma, il 2 dicembre, data della nascita della cantante, con un gran galà.
La mostra, dopo essere passata per Parigi, Atene e Toronto, approderà da novembre nella capitale a Palazzo Ruspoli, arricchita tra l’altro di una trentina di costumi scaligeri. Il dramma degli ultimi giorni della cantante, sempre più depressa e imbottita di medicinali, è racchiuso in un biglietto dell’estate «In questi fieri momenti tu sol mi resti. E al cor mi tenti l’ultima voce del mio destino, ultima croce del mio cammino». Sono le parole della Gioconda, manca solo la prima: «Suicidio…». Ma a una settimana dalla morte, avvenuta il 16 settembre ’77, dava appuntamento a Maurice Béjart per parlare di un progetto cinematografico. La scrittura è tuttavia quasi illeggibile, un preludio della fine. Come l’immagine che la ritrae a passeggio con i suoi due barboncini ciechi, lo sguardo spento e sgomento, dopo i flash dei trionfi artistici e mondani: dagli esordi greci nel 38 in Boccaccio di Suppé alla gloria della Fenice che fu la culla nei primi Anni ’50 del suo periodo più fulgido, alle indimenticabili feste veneziane di Elsa Maxwell.
La mostra è il primo frutto dell’Associazione Maria Callas, presieduta da Tosi, che riunisce nel comitato direttivo 18 primedonne della lirica, da Fedora Barbieri a Magda Olivero, da Joan Sutherland a Renata Tebaldi, da Giulietta Simionato a Elisabeth Schwarzkopf. E poi Marilyn Horne, Renata Scotto, Regina Resnik, Birgit Nilsson, Leyla Gencer, Mirella Freni, Virginia Zeani, Raina Kabaivanska, Antonietta Stella, Elena Nicolai, Anita Cerquetti, Rosanna Carteri. Si è anche formato un comitato interdisciplinare con 30 personalità della cultura e dell’arte (da Strehler a Eco, da Mario Luzi a Zanzotto, da Pomodoro a Petrassi e Berio). Tosi promette un grande cenacolo annuale per far scaturire idee che rilancino il nome della Callas. Il pittore Enzo Cucchi sta preparando un manifesto della divina («sarà una carta d’identità», dice) che girerà in tutto il mondo.
Ma gli sforzi saranno diretti soprattutto verso i giovani: un concorso, borse di studio e infine un Museo Callas. «Parigi non è riuscito a farlo – dice Tosi – potrebbe essere la grande occasione per riappropriarci di un mito che ci appartiene a pieno titolo».

«Corriere della sera», 12 giugno 1993

POESIA E RIVOLUZIONE SECONDO SERENA VITALE




Serena Vitale è una studiosa della letteratura russa con molti meriti, ma – secondo me – l'intervista che segue, di Nicola Porcelluzzi, un giovane slavista veneto, pubblicata da “Il Tascabile” e ripresa da diversi siti non le rende onore. La lettura proposta, una cultura e una poesia che all'improvviso maturano (nel primo ventennio del Novecento) e che la Rivoluzione uccide o spinge al suicidio, mi pare semplificata e semplificante al limite della banalizzazione. C'è un passaggio che viene ignorato e che non è secondario: e cioè che anche la Rivoluzione è frutto di quella improvvisa e meravigliosa esplosione di modernità e che i tragici travagli che affliggono i geni della poesia non hanno radice diversa da quelli che colpiscono le esistenze di tanti rivoluzionari (inclusi alcuni geni della Rivoluzione). Forse si dà un buon consiglio a Vitale e a Porcelluzzi, se li si invita a rileggere Poesia e rivoluzione di Trotzky. Li aiuterebbe ad una più ricca e serena comprensione dei processi. (S.L.L.)

Poesia e Rivoluzione russa. 

Un’intervista a Serena Vitale in occasione del centenario 

a cura di Nicola Porcelluzzi

“Studierai russo perché è la lingua di Lenin”, scriveva Majakovskij: anni fa mi sono trovato a studiarlo all’università, senza mai chiedermi perché – almeno all’inizio. I progressi nella lingua erano lentissimi, e sofferti; al contrario, l’eredità storica e letteraria di una terra che sfuggirà sempre alla nostra comprensione, velata da un principio di indeterminazione, ha contribuito a ri-cablarmi il cervello, ri-sintonizzarmi il cuore, e mi accompagnerà sempre. Non è scontato spiegare cosa significa studiare la letteratura russa, e soprattutto sovietica, a vent’anni compiuti. È un’immersione da cui si risale lentamente, cercando di apprezzare un paesaggio sempre meno cupo.
C’è però qualcuno che lo capisce bene, anzi, che ha vissuto per questo. In occasione del centenario della rivoluzione infatti, ho avuto la fortuna di intervistare Serena Vitale, una scrittrice (e insigne slavista) che questa immersione l’ha portata fino in fondo, sacrificandosi alla Letteratura già negli anni Settanta, quando da Mosca trafugava in Italia libri proibiti, intervistava classici del Novecento come Sklovskij, il padre del formalismo. Queste e altre storie vengono raccontate nel suo A Mosca, a Mosca!, un libro da leggere.
Riascoltando la nostra conversazione mi stupisco di quanto Vitale abbia ripetuto quell’intercalare, “come lei saprà benissimo”, un inciso che mi intimorisce, mi onora – anche se non corrisponde a realtà, e mi fa pensare che avrei voluto dirle quanto poco in realtà ne sappia, soprattutto di fronte alla sua erudizione, alla sua chiarezza espositiva e al suo coraggio.

Ho recuperato un volume di Lo Gatto, una Storia della letteratura sovietica, perché so che la definizione vaga di “poeti della rivoluzione” non la convince, anzi, la respinge, ed è stato intenso tornare a pagine che avevo letto avidamente non troppi anni fa, cinque o sei, anni che sembrano essersi moltiplicati per via di quello che è successo nel frattempo, sia – banalmente – a livello autobiografico che, meno banalmente, a livello sociale, politico, culturale. Ecco Lo Gatto: “sul piano rivoluzionario, la rivoluzione non era avvenuta. Le origini di quello che sarà il campo letterario sovietico dei primi anni Venti si possono già individuare nel simbolismo”, in Gorkij, in Pietroburgo di Belyj…
Ma guardi, non ricordavo che l’avesse detto il grande Lo Gatto, che io ho avuto l’onore di conoscere quando andavo all’Università di Roma, lui veniva – già fuori ruolo – spesso alle feste che facevamo a Natale, il grande padre della slavistica italiana. Lo vado ripetendo da giorni e mi guardano come una matta, avessi saputo che c’è l’autorità di Lo Gatto… Certo, tutto ha inizio con il simbolismo, con la décadence, con questo improvviso aprirsi della Russia alla fine dell’Ottocento ma soprattutto all’inizio del Novecento, alle influenze che arrivano da Occidente, e come è solita fare la Russia (si pensi alla cristianizzazione), assorbe un influsso, un richiamo e lo rielabora in modo del tutto autonomo.
Il simbolismo in Russia assume delle connotazioni mistico-religioso-filosofiche che sono quelle che fanno anche nascere il pensiero filosofico russo di quegli anni. Si dice infatti che non esiste una filosofia in Russia, ma altroché se esiste. Se si prendono i grandi pensatori di inizio Novecento, se si considera quella specie di koiné in cui i filosofi, i poeti e gli scrittori agivano insieme, si scambiavano le proprie impressioni: penso ai discepoli del simbolismo, che tra l’altro riconoscevano l’autorità di maestri come Blok, o gli studiosi geniali dei meccanismi della lingua e della poesia come Belyj – su cui ho fatto la tesi di laurea… Di Belyj poi non è solo la poesia a svettare, è il suo pensiero che è grandissimo.

È difficile raccontare a un pubblico, a una persona che non si è occupata di queste pagine, come la tradizione letteraria russa in due secoli (Settecento e Ottocento) abbia preso tutto quello che si chiamava letteratura in Europa, condensandolo e arrivando al Novecento pronta per dire la sua.
La letteratura russa in quel periodo è esplosa. Fino ad allora era confinata alla religione, la narrazione era nata all’interno dei monasteri, poi per lungo tempo restò confinata alla nobiltà – neanche tanto tempo poi, mezzo secolo appena – e infine è scoppiata. Come comprendere questa esplosione? Esplode anche insegnando all’Europa, perché il grande romanzo russo ottocentesco a volte addirittura supera la tradizione europea. La Russia è un paese di enorme potenziale che in queste oscillazioni tra Oriente e Occidente riesce sempre a trasformare e rielaborare questo materiale che la trasforma in maestra. Come spiegarlo, sono i miracoli della storia, difficile riassumerlo in poche righe.

Un’altra cosa complicata è spiegare agli amici, a chi legge, quanto davvero sia affascinato e sconvolto dalla ricchezza del primo decennio della prima letteratura sovietica, tutto quello che è successo tra il 1917 e il 1929 (anno in cui iniziano a spandersi i tentacoli del Realismo Socialista). È successo di tutto.
Di tutto. Tenendo conto che la reazione alla crisi del simbolismo da parte di tutte queste persone che ci hanno affascinato… come dire, io stessa ho fatto l’errore di intitolare un mio saggio Avanguardia e rivoluzione, ma non è proprio così, le due cose non sono vincolate. Le avanguardie si svilupparono dalla crisi del simbolismo in un’epoca che poi visse il trauma della rivoluzione: Majakovskij, per esempio, aderì al bolscevismo, certo, ma per il resto il governo bolscevico fece strame di questi poeti, di questi letterati. Dopo la presa del potere, quando il nuovo soviet chiamò a raccolta gli intellettuali al Palazzo Smol’nyj si presentò solo Majakovskij. Per il resto fu un’ecatombe.
Quello che bisogna capire è che non fu l’oligarchia bolscevica al potere a perseguitare le avanguardie che ci affascinano tanto, il cubo-futurismo, l’acmeismo, e tutta quella fioritura straordinaria che la poesia europea forse non ha mai conosciuto, futurismo e surrealismo compresi; furono soprattutto i rappresentanti delle Associazioni Proletarie che si ergevano a comandanti e persecutori di questi intellettuali. Tentavano di insegnare a scrivere a Majakovskij, a Chlebnikov. Dobbiamo meravigliarci che siano sopravvissuti fino al Trenta. Considero la data della morte di Majakovskij come la fine simbolica dell’Avanguardia, una fine violenta. Non conosco nessuna grande letteratura che in dieci anni – questi favolosi anni Venti che sono figli degli anni Dieci – abbia prodotto questa dozzina di geni, e di questi geni quasi nessuno è morto nel proprio letto. In Russia allo scrittore viene delegato un ruolo di guida, di maestro del pensiero, di espressione popolare che non ha pari nel mondo.

Facciamo un gioco, provo a tirare fuori i nomi di questi dodici geni, e lei mi corregge.
Proviamo.

Allora, immagino che ci siano Blok e Belyj.
Belyj non lo includo, parlavo di grandi poeti; però lo includo volentieri tra i geni. Se mettiamo anche i filosofi e i teorici del linguaggio poi superiamo la trentina di voci. Senza Belyj non ci sarebbe stato il formalismo, lo strutturalismo, Belyj è un genio della teoria del linguaggio. I romanzi sono straordinari, Pietroburgo, il ciclo moscovita… ma parliamo di poeti.

Mi affido alla memoria e al cuore. Majakovskij, Blok, Chlebnikov?
Un grandissimo. Riconosciuto da tutti come maestro. Vuole che le dica come sono morti? Blok di quello che chiamo suicidio bianco, tentò di aderire alla rivoluzione ma non gli venne permesso di andare all’estero per curarsi, e morì così, inerte. Majakovskij, l’abbiamo detto, suicida [L’ultimo libro di Serena Vitale per Adelphi è Il defunto odiava i pettegolezzi, e parla di questo]. Continuiamo il gioco.

Poi c’è Esenin.
Grandissimo poeta contadino, melodioso come solo la campagna russa poteva produrre, anche se non è il mio preferito. Anche lui inizialmente aderisce alla rivoluzione, per poi accorgersi che la campagna russa da lui idolatrata si trovava ancora peggio di prima. Un altro suicidio, da parte di un alcolizzato, un uomo che non riusciva a trovare il suo spazio.

Dilaniato tra i due poli irrisolvibili, tra la nostalgia di una vita più dura e i bisogni di una città che non lo capiva.
Mosca non lo capiva, Esenin dava scandalo, però la campagna di cui cantava era distrutta, la civiltà del treno lo ossessionava – la figura del teppista urbano nasce con lui.

Poi c’è Pasternak.
Pasternak è morto nel suo letto, ma tutti conoscono le persecuzioni che subì nell’ultima fase della sua vita. Durante gli anni immediatamente successivi alla rivoluzione per un po’ tacque, scrisse le cose meravigliose di Mia sorella la vita, dove c’è una poesia in cui si affaccia dall’abbaino e chiede, “Compagni ditemi, che secolo c’è fuori?” e da qui si capisce il suo estraniarsi, il suo prendere le distanze. Aderì a un gruppo minore del cubo-futurismo, e fino agli anni Trenta lo lasciarono in pace. Stalin gli telefonò per chiedergli “ma Mandel’štam secondo lei è bravo?”, una di quelle telefonatine che faceva ogni tanto, l’orrore del potere. Però poi tacque, e sappiamo la storia di Zivago, le persecuzioni, più che personali rivolte verso le persone amate, come la seconda moglie finita in un lager. Gli resero la vita impossibile.

Siamo arrivati a Mandel’štam.
Su Mandel’štam non so neanche cosa dire. Bastano le date, 1891–1938. Fu vittima prima dell’apartheid, una persecuzione, una negazione della sua esistenza che lo portò quasi alla pazzia, e… [sospira] Secondo me è stato il più grande poeta del secolo. Prima condannato, poi esiliato, poi morto in un lager. Veniva dall’acmeismo, un movimento nato nel 1912… Anzi già che ci siamo nominiamo Anna Achmatova. La più grande insieme a Mandel’štam, diventa grandissima quando il potere perseguita i suoi cari. Non l’hanno mai toccata personalmente – anche se aveva sempre il KGB praticamente in casa – però avevano toccato quello che le era più caro, gli uomini che amava, soprattutto il figlio. Requiem è un cantico meraviglioso dove lei da poetessa da camera si trasforma in voce eroica ed epica di tutta la Russia al femminile, quella che faceva le code davanti alle carceri per i figli, i mariti.

Ricordo la fila che viene versificata nel libro, e se non sbaglio dedica l’opera alle madri in attesa all’esterno del suo carcere.
Certo, lei racconta nella prefazione che qualcuno le si avvicinò mentre era in attesa di fronte a una prigione di Leningrado, e le chiese “lei sarebbe capace di descrivere tutto questo?”. Lei ci pensò un attimo, e disse: sì. Mi commuovo ancora adesso. Il Requiem è una cantata tragica come solo una madre poteva scrivere, anzi, come solo una donna poteva scrivere, sugli orrori delle repressioni.

Così arriviamo al primo marito di Achmatova, Gumilëv.
Gumilëv, ucciso nel ’21. A quanti siamo arrivati, otto? Grande poeta acmeista che non ebbe il tempo di svilupparsi perché morì giovanissimo: venne accusato ingiustamente di un complotto monarchico. Il suo era un acmeismo in versione vitalistica, una poesia in cerca del primo giorno della Creazione. Cosa sarebbe diventato se non fosse morto a trent’anni, non è dato sapere.

Vado con l’ultimo che mi viene in mente al momento, Chodasevic.
Un grande, vede, lo sto ripetendo in continuazione. [ridiamo] Costretto a emigrare, c’è anche da tenere presente questa enorme emorragia di forze che causò l’avanzare del bolscevismo. Se emigravano, emigravano a volte anche per caso, pensando di potere tornare, la prima ondata migratoria degli anni Venti era ancora incerta, non si capiva ancora cosa sarebbe successo. Però rimase lì, in Francia, e scrisse una poesia molto europea, La notte europea infatti, di un pessimismo assoluto ma di una fattura meravigliosa, classica. E siamo a nove. Ah, c’è la Cvetaeva.

Collegamento nato anche grazie al comune destino di emigrata. Chodasevic l’avevo scoperto grazie a un libro incredibile, Necropoli.
Necropoli, il libro di memorie, ma le consiglio La notte europea, scriveva pochissimo, sul filo di questa linea puskiniana, però anche lui figlio dell’epoca, con quell’occhio terso, lucido sulla realtà che potevano regalare soltanto gli anni Dieci.

Uno dei preferiti di Nabokov. Chi stiamo dimenticando?
La Cvetaeva, è inutile parlarne, cosa dire ancora di lei? Il suo rapporto con la rivoluzione è molto complesso perché passa attraverso la figura del marito, controrivoluzionario.
Lo segue poi in Unione Sovietica dove morirà, non sappiamo come, probabilmente suicida. Appena era tornata in patria le avevano portato via la figlia, il marito. Ho una certezza che mi deriva da una lunga conoscenza di Marina Cvetaeva, che lei si sia uccisa il giorno in cui ha saputo che anche il marito non c’era più. Quando si trovava in condizioni terribili, durante l’evacuazione bellica, sono quasi sicura che venne a sapere della morte del marito; il rapporto di Cvetaeva con il regime bolscevico insomma è attraversato da questo amore enorme per il marito, un amore difficile da comprendere per noi, sapendo delle sue avventure amorose – Pasternak incluso. La persecuzione che ha subito è ormai di dominio pubblico. A quanti siamo?

Siamo a dieci.
Credo di avere dimenticato un poeta poco conosciuto in Italia che è Zabolockij, di cui è stato tradotto – non impeccabilmente… – solo Colonne di piombo, poeta eccezionale. Fu colpito da una specie di nevrosi ossessiva, un uomo profondamente segnato nella psiche dalla repressione, distrutto dalla paranoia. Purtroppo non posso ancora dimostrarlo in italiano, ma un gigante. E poi c’è tutto il gruppo OBERIU.

La mia tesi era proprio su un racconto di Daniil Charms.
Charms e Vvedensky furono i creatori di questa versione russa dell’assurdo, del dada russo. Figura unica nel panorama letterario, Charms dopo il secondo arresto si finse pazzo per essere ricoverato e morì in un letto di fame, in un ospedale psichiatrico durante l’assedio di Leningrado. Lui e Vvedensky condividono un destino tragico, terribile. Bisognerebbe tradurre tutto quello che hanno scritto. C’è un unico problema: per vivere erano costretti a scrivere poesie per l’infanzia. La poesia per l’infanzia – che visse una tradizione meravigliosa in Russia – ha sfamato molti poeti, il problema è che le poesie per l’infanzia di Mandel’stam, Pasternak, Majakovskij eccetera non si possono tradurre perché come tutte queste poesie sono sempre al limite del limerick, del gioco di parole, si tratta di un patrimonio inaccessibile per l’Occidente. Ah, mi è venuto in mente il dodicesimo: Klujev.

Un altro poeta contadino.
Poeta contadino, all’inizio blandito dal potere bolscevico che pensava di poterne sfruttare la naturale carica eretica, un’energia che c’era nella religione popolare, nelle sette eretiche russe, le sette rappresentate da Belyj ne Il colombo d’argento, per dire. La religione russa è sempre in odore di eresia e Lenin pensò addirittura di sfruttare questa energia, ma fu un idillio che durò pochissimo – le sette vennero castigate come la religione ufficiale, e Klujev muore in un lager nel 1937. Il suo russo è intraducibile, le sue radici antichissime.

La religione russa popolare presentava un lato mistico, quasi paganeggiante…
Certo, quella che veniva chiamata doppia fede, ne parla anche Esenin in un saggio. Dobbiamo ricordare che era un paese cristianizzato dal Mille dopo Cristo; è chiaro che chi dipende dal calendario agrario sovrappone le festività religiose a quelle del calendario agrario. Paganesimo e fede ortodossa si fondono in una miscela fantastica. Si tratta di documenti rari, ma se ancora adesso si va nelle foreste del Nord si trovano tracce di questa religione popolare, una doppia fede che non implica un’ambiguità, ma è caratteristica di una popolazione fortemente contadina – nella seconda metà dell’Ottocento il 90% circa dei russi era ancora contadino. Una tradizione monumentale che si è persa, e si trova ancora nella lingua di qualche nonna nascosta nella foresta.

Parlando di rapporto tra uomo/natura e prima letteratura sovietica, mi vengono in mente Bogdanov e Platonov, un altro gigante assoluto.
Un altro gigante. [ridiamo] Pensi che abbiamo parlato solo di poeti; si immagini che galassia di scrittori, pensatori, fisici, matematici, quante le idee che scorrevano… è un’idea di geni, non possiamo farci niente.

Oggi è il 7 novembre, considerato convenzionalmente come anniversario. Ho ripreso in mano una poesia di Majakovskij, si chiama 150.000.000, dove il poeta si immagina il centenario della rivoluzione, e scrive: “forse è il centesimo anniversario della rivoluzione d’Ottobre, forse è semplicemente un meraviglioso stato d’animo”. Cosa possono significare, per un russo, queste parole?
Niente. Non gli interessa niente. Tranne qualche superstite leninista magari… 150.000.000 fu giudicato da Lenin un libro per pazzi. Disse, non stampatene più di millecinquecento copie (o giù di lì), questo è un libro per pazzi. Un libro che in realtà glorificava l’evoluzione, e riflette un giovane Majakovskij che ha ancora non ha subito il verme della delusione.

Infatti è del 1919-20. Infine, grazie al potere della letteratura posso dire dove lei si trovava la sera di cinquant’anni fa. Si trovava nella casa di “un rivenditore specializzato in rarità editoriali” simboliste.
No no, quella era la mattina. Era uno di quelli che campava rivendendo agli stranieri cose come le icone, ovviamente delle croste, figure medio-legali che la polizia sopportava perché potevano sfilare qualche informazione. La sera invece vidi da in alto in alto, dal ventottesimo piano della NGU [sorta di mega-residenza universitaria, ndA], i fuochi… e la faccia di Lenin, enorme: poi ho scoperto il trucco, era sospeso da una specie di mongolfiera. Panem et circenses. Me lo ricordo bene perché in quei giorni facevano girare la vodka extra: uno scialo incredibile.

Uno scialo incredibile, nella migliore tradizione sovietica. La parte per il tutto.

    Il testo dell'intervista è stato pubblicato da “Il Tascabile” ( http://www.iltascabile.com/ ). Noi l' abbiamo ripreso dal blog di Salvatore Lo Leggio condividendone anche la breve premessa. (fv)

27 novembre 2017

LEOPOLDA ADDIO!


        Renzi non ha ancora capito di avere distrutto un partito e di non avere un futuro politico. Anche se ammette che gli brucia ancora la sconfitta del referendum costituzionale, svoltosi esattamente un anno fa, sembra confidare sulla mancanza di memoria degli italiani. Ma, in questo caso, il più smemorato risulta proprio lui che - dopo aver stupidamente personalizzato il referendum - ha dichiarato più volte che si sarebbe ritirato a vita privata se l'avesse perduto.
        Anche per questo il giovanotto annaspa e non sa più cosa dire. Ecco perchè la sua ultima  "Leopolda"  non è riuscita a partorire altro se non la ridicola proposta di legge sulle cosiddette "fake news". Ma come si fa a non capire che le false notizie e la cattiva informazione si possono battere soltanto con la cultura e la buona informazione?

MASCHERE IMPRESENTABILI





KABUKI
di Raffaele Simone
A parte le bugie e le promesse scientemente false che secerne senza ritegno, ha ormai passato il confine tra realtà e irrealtà: fase metastabile tra incubo e cartone animato (perfino la tensione dei muscoli risori è artefatta: che abbia un motorino a batteria che glieli mette in tiro?), è diventato una maschera da teatro kabuki (anzi, quelle sono più rassicuranti).
Poveri noi.


Raffaele Simone