31 maggio 2021

L' AMORE E' L' UNICO ALCHIMISTA

 

                                              Rainer Werner Fassbinder con Barbara Sukowa.



Non conosco altra persona, oltre a me, che insegua con tanta disperata ostinazione quell’utopia probabilmente infantile e impudente che si chiama amore e che affronti angosciosamente sempre le stesse dolci amare esperienze. Ma l’esperienza non serve mai…

Rainer Werner Fassbinder



Il solo alchimista capace di cambiare tutto in oro è l'amore. L'unico sortilegio contro la morte, la vecchiaia, la vita abitudinaria, è l'amore.

Anais Nin



30 maggio 2021

DIFENDERE L' ALLEGRIA

 



Difendere l’allegria come una trincea
difenderla dallo scandalo e dalla routine
dalla miseria e dai miserabili
dalle assenze transitorie
e da quelle definitive
difendere l’allegria come un principio
difenderla dallo sbalordimento e dagli incubi
dai neutrali e dai neutroni
dalle dolci infamie
e dalle gravi diagnosi
difendere l’allegria come una bandiera
difenderla dal fulmine e dalla malinconia
dagli ingenui e dalle canaglie
dalla retorica e dagli arresti cardiaci
dalle endemie e dalle accademie
difendere l’allegria come un destino
difenderla dal fuoco e dai pompieri
dai suicidi e dagli omicidi
dalle vacanze e dalla fatica
dall’obbligo di essere allegri
difendere l’allegria come una certezza
difenderla dall’ossido e dal sudiciume
dalla famosa patina del tempo
dalla rugiada e dall’opportunismo
dai prosseneti della risata
difendere l’allegria come un diritto
difenderla da Dio e dall’inverno
dalle maiuscole e dalla morte
dai cognomi e dalle pene
dal caso
e anche dall’allegria
Mario Benedetti

LA RIVOLUZIONE SURREALISTA

 




Enrico Giosuè Biraghi

Per una politica dell'inatteso

Per gentile concessione degli eredi la casa editrice di Roberto Massari pubblica le memorie del rivoluzionario surrealista Pierre Naville, originariamente apparse per le Èditions Galilée di Parigi nel 1977. La curatela della presente edizione è affidata a José Fernando Padova. Naville fu saggista marxista e prese le difese di Trotsky nel ’27.

Precursore del surrealismo è il movimento dada, il quale «sviscerava con molto spirito tutte le pubblicazioni che per tradizione veicolavano idee consacrate». Anche se «le sue navi incendiarie furono effimere», esse «si moltiplicavano silurando pubblicazioni venerabili a colpi d’innovazioni tipografiche e di un’elaborazione sintattica della pagina stampata». Da questa corrente il nucleo composto dai surrealisti si distacca presto. «Eravamo alla ricerca di luci più terrestri, di un meraviglioso più esplosivo», dirà Naville.

Vede allora la luce La Révolution surréaliste, rivista per la cui pubblicazione viene presa una speciale accortezza: «il tipografo fu scelto il più lontano possibile dalle botteghe in cui si confezionano edizioni d’arte». Lessico del surreale: beffardo, grottesco, ambiguo, macabro, perturbante, spugnoso. Gli aderenti al movimento provano l’impulso ad avventurarsi in dedali sinora inesplorati dalle correnti d’avanguardia, oltre ad analizzare i propri desideri inespressi e quelli che vien fatto per errore di contrariare. Si elevano alla forma sublime dell’arte i sussulti della coscienza, il prosciugamento dello spirito stremato da traumi e i sinistri presentimenti inascoltati - una forma di devozione per le percezioni sensoriali più minute. Non si pensi a un indugio di accento “psicologico”: le «logomachie freudiane» sono ormai lontane dalla nuova sensibilità, al pari di una psicanalisi troppo spesso consultata «come guida dei percorsi turistici dell’inconscio». Viene rigettata risolutamente ogni idea di canone, mentre si rifiutano con sdegno tabù e mode ideologiche in nome della vitale eruzione del vulcano della poesia e della volontà di compiere effrazioni contro ciò che è conforme ad ipocrite norme sociali; si critica poi l’individualismo della speculazione filosofica e quello della “vita privata”, «negata dal surrealismo fin dalla sua comparsa concertata». Prende forma un’inedita riflessione sulle proprietà dell’immagine, vista come «collisione abbagliata di due termini tratti da solitudini lontane» cui si oppone la prigione delle costrizioni sociali che «fin dall’infanzia siamo addestrati a trattenere e fissare sulle nostre retine e nella nostra faringe». Nasce una dialettica dell’«infinitamente sottile», vivente di molecolari e fortuite fusioni; fisica assai singolare, si direbbe “magica”, una paradossale logica della materia, legata alla vita - dice Éluard - «non come un’ombra ma come un astro». È il surrealismo un materialismo che appare terso. 

Vengono inviate infuocate missive ai referenti dell’ordine concentrazionario borghese: i lacchè dell’ufficialità giornalistica, i primari corrotti delle istituzioni manicomiali, i ministri demagoghi, i rettori autoritari delle università europee, asiatiche, africane e naturalmente fra i destinatari c’è anche la «Chiesa di Roma».

«Meteora infrangibile» del movimento e uno dei suoi più importanti artefici - «se non il principale» per Naville - è il poeta Benjamin Péret. Nel ’30 aderisce alla Lega comunista e da allora lo si ritroverà sempre a fianco degli operai che insorgeranno in Brasile, Spagna e Messico. È su posizioni lontane da quelle dell’antimilitarismo morale, poiché «il fiore non merita la canna del fucile». Cosa potremmo temere dal futuro se «da qualche parte vi è un marinaio che la poesia di Péret trasforma in sognatore»? Ecco la metamorfosi cui pare invero essere “destinato” il cosmo, quell’infinito processo all’interno del quale l’uomo non è che un «eccesso di materia solare, con un’ombra di libero arbitrio come dardo» (René Char).

Da qui l’origine di una poetica dei suoni-rumori, che trovi gli archetipi e i simboli acustici primordiali e si metta «alla ricerca del valore tonale delle parole». Nello sguardo di Naville «la poesia è di per sé un modo di mantenere all’istante le proprie promesse nel semplice scintillio o nella dolcezza di una pupilla, se succede».

(L'Albatros n. 2 aprile/giugno 2021)



MARIO PINTACUDA, BORGES E DANTE

 


BORGES E IL CONTE UGOLINO

Mario Pintacuda

Domenica 5 giugno 1983, sul “Corriere della sera”, il grande scrittore argentino Jorge Luis Borges pubblicò un suo articolo sul XXIII canto dell’Inferno dantesco, tratto da un suo saggio sulla “Divina Commedia” che era in corso di stampa presso l’editore Franco Maria Ricci. Questo articolo è ancora qui in mio possesso, nel mio sconfinato archivio; e credo che meriti ancora attenzione per gli spunti di riflessione che ci dà.

Anzitutto, per favorire la comprensione di tutti (per me requisito indispensabile ogni volta che si scrive qualcosa), ricordo alcune notizie essenziali sulla drammatica vicenda del conte Ugolino, presentata appunto nel canto XXXIII.

Il conte Ugolino della Gherardesca, di famiglia tradizionalmente ghibellina, nel 1275 si accordò col genero Giovanni Visconti per far trionfare a Pisa i guelfi (forse proprio per questo “tradimento” Dante lo punisce nella zona chiamata “Antenora”, II zona del cerchio IX, traditori della patria o del proprio partito). Quando la congiura fu scoperta, Ugolino fu bandito, ma rientrò l’anno dopo acquistando grande gloria e prestigio (fu anche podestà). Tuttavia nel giugno 1288 i ghibellini insorsero sotto la guida dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini; Ugolino fu chiuso nella Torre dei Gualandi (o della Muda) con due figli e due nipoti e, dopo alcuni mesi di prigionia, tutti e cinque furono lasciati morire di fame nel febbraio del 1289.

All’inferno, Ugolino è immerso nelle acque gelate di Cocito e divora brutalmente la testa dell'arcivescovo Ruggieri: «io vidi due ghiacciati in una buca, / sì che vidi che l’un capo all’altro al capo era cappello, / e come ‘l pan per fame si manduca, / così ‘l sovran li denti all’altro pose / là ‘ve ‘l cervel s’aggiunge con la nuca» (XXXII, 125-129).

Per parlare con Dante, Ugolino solleva la bocca “dal fiero pasto”, ripulendola orrendamente sui capelli di Ruggieri: poi rievoca la sua triste vicenda, rinnovando il suo “disperato dolor”.

Segue la narrazione della prigionia: un mattino (come sintetizza Borges) «sente i colpi del martello che inchioda l'uscio della torre. Passano un giorno e una notte, in silenzio, Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; i figli credono lo faccia per fame, e gli offrono la loro carne, da lui stesso generata. Tra il quinto e il sesto giorno li vede morire ad uno ad uno. Poi resta cieco e parla coi suoi morti e piange e li tasta nel buio: poi la fame poté più del dolore».

Il punto cruciale è proprio in questi ultimi versi, infinitamente discussi: «io mi diedi, / già cieco, a brancolar sovra ciascuno, / e due dì li chiamai, poi che fur morti: / poscia, più che ‘l dolor, poté ‘l digiuno» (XXXIII, 71-75).

L’interpretazione più logica è indubbiamente quella dell’antico commentatore Benvenuto Rambaldi da Imola: «fames prostravit eum quem tantus dolor non potuerat vincere et interficere» (“la fame sconfisse colui che un così grande dolore non aveva potuto vincere e uccidere”): Ugolino muore, come i suoi ragazzi, di fame. E come annota Borges, «lo intende così anche Geoffrey Chaucer nel rozzo riassunto dell'episodio intercalato nel ciclo di Canterbury». E tuttavia molti moderni interpreti hanno dedotto che Ugolino si sarebbe cibato della carne dei figli; e se Benedetto Croce tornò all’interpretazione tradizionale, il Bianchi disse che l’interpretazione “cannibale” era “improbabile ma non da scartare”, mentre Pierobono trovò l’ultimo verso “deliberatamente misterioso”.

Borges analizza la questione partendo da qualche verso prima; uno dei ragazzi, Anselmuccio, vedendo Ugolino mordersi le mani per il dolore, lo invita a cibarsi delle loro carni: «Padre, assai ci fia men doglia / se tu mangi di noi: tu ne vestisti / queste misere carni, e tu le spoglia» (vv. 61-63; in realtà Ugolino non era “padre” di Anselmuccio, ma nonno; il ragazzo era figlio di uno dei suoi figli).

A questo punto lo scrittore argentino pone il problema in questi termini: «Volle Dante che pensassimo che Ugolino (l'Ugolino del suo Inferno non quello della storia) mangiò la carne dei suoi figli? Io arrischierei la risposta: Dante non ha voluto che lo pensassimo, bensì che lo sospettassimo. L’incertezza è parte del suo disegno. Ugolino rode il cranio dell'arcivescovo; Ugolino sogna cani dalle zanne acuminate che lacerano i fianchi del lupo (“...e con l'agute scane / mi parea lor veder fender li fianchi”). Ugolino, spinto dal dolore, si morde le mani; Ugolino sente che i figli gli offrono inverosimilmente la loro carne; Ugolino, pronunciato l'ambiguo verso, torna a rosicchiare il cranio dell'arcivescovo. Tali atti suggeriscono o simboleggiano il fatto atroce. […] Negare o affermare il mostruoso delitto di Ugolino è meno tremendo che intravederlo. Il detto “un libro consiste nelle parole che lo compongono” corre il rischio di sembrare un assioma insipido. […] Nel tempo reale, nella storia, ogni volta che un uomo si trova di fronte a varie alternative opta per una ed elimina o perde le altre; non è così nell'ambiguo tempo dell'arte, che somiglia a quello della speranza e a quello dell'oblio. Amleto, in quel tempo, è assennato ed è pazzo. Nella tenebra della sua Torre della Fame, Ugolino divora e non divora gli amati cadaveri, e questa ondulante imprecisione, questa incertezza, è la strana materia di cui è fatto. Così, con due possibili agonie, lo sognò Dante, e così lo sogneranno le generazioni».

Riflessione profonda, come si vede: se Dante avesse voluto essere chiaro, se avesse voluto eliminare ogni ambiguità, avrebbe scelto parole diverse, univoche, incontrovertibili. Invece ha lasciato il campo aperto alle discussioni infinite, alle interpretazioni contraddittorie, al conflitto di opinioni. Così è la vera arte: apre problemi, non li risolve; semina incertezze laceranti, innesca il tarlo del pensiero. Quando Manzoni liquida in tre parole (“La sventurata rispose”) la torbida storia della relazione proibita fra la Monaca di Monza e lo “sciagurato” Egidio, affida a noi lettori il compito di integrare, di immaginare, di costruire la storia come meglio crediamo; ma in quella “sventurata” aggiunge un unico, vincolante input da rispettare: questa è una storia dolorosa.

Bisogna dunque ringraziare i grandi scrittori, come Dante, come Manzoni, come lo stesso Borges e come tantissimi altri, non solo per quello che hanno scritto, ma soprattutto per quello che ci hanno fatto immaginare, per l’integrazione che ci hanno chiamato a fare, per i meccanismi mentali e morali che hanno innescato in noi. Ecco perché ri-leggerli non è mai inutile, ecco perché si impara da loro sempre qualcosa: perché alle loro parole aggiungiamo, ogni volta, nuove riflessioni, nuovi approfondimenti e nuovi stimoli.

MARIO PINTACUDA


29 maggio 2021

LA PROTESTA DEI BRACCIANTI INVISIBILI

 


Braccianti invisibili anche nella protesta. "Ascoltateci o lasceremo campi deserti"


Abbiamo manifestato perché per troppo tempo il sangue che scorre lungo la filiera agricola, l’inferno dello sfruttamento, si è scontrato contro il muro dell’indifferenza”. Aboubakar Soumahoro  ieri era a Roma, a guidare il corteo dei braccianti. Sono arrivati fino a piazza Montecitorio, per far salire il loro grido di sofferenza fino alle stanze della politica, per gettare luce su un “dramma disumanizzante che si sta consumando tra le mura di casa loro”. “La filiera fa oltre 538 miliardi di euro di valore di mercato, ma poi ci sono donne che non hanno la possibilità di fare visite ginecologiche perché non hanno la residenza” dice Soumahoro ad Huffpost, “Ci sono lavoratori a cui è stato negato tutto: lavorano 12 ore al giorno per un salario misero, di 3 euro e 50 all’ora. Dormono nei tuguri, nelle baraccopoli, tra le lamiere. Non possono affittare una casa, non possono permetterselo. Lavorano 20 giornate al mese, ma all’Inps ne vengono notificate quattro, il che significa che non avranno i requisiti per la disoccupazione agricola”.


Si definiscono “invisibili” perché è come se nessuno li vedesse, nessuno si interessasse a loro, nonostante sia anche per il loro sfruttamento che paghiamo poco il cibo che mettiamo sulle nostre tavole. E quindi è sparendo veramente che sperano di far notare la loro presenza: se le loro richieste non saranno accolte, sciopereranno in piena stagione di raccolto. I campi saranno vuoti, senza nessuno che zappi la terra, che raccolga i prodotti: “Condizioneremo la stagione di raccolta. Il ministro delle politiche agricole dovrebbe venire ad ascoltarci nel fango della miseria e dello sfruttamento. Andasse il ministro del Lavoro a zappare la terra e si renderebbe conto che la maggior parte dei braccianti hanno problemi di schiena. Il presidente Draghi venisse ad ascoltare le nostre ragioni. I campi, in piena stagione, saranno deserti”.

Quello che i manifestanti chiedono – trainati da Soumahoro, italo-ivoriano, attivista della Lega Braccianti – è anche il rilascio del permesso di soggiorno per emergenza sanitaria e il vaccino per tutti: “Serve un permesso di soggiorno per emergenza sanitaria che sia convertibile per attività lavorativa. Uno strumento indispensabile. Ci sono donne che non riescono a fare visite ginecologiche. Viviamo una disuguaglianza vaccinale. Perché non dare l’accesso ai lavoratori, agli invisibili, per metterli in sicurezza? I senza casa, i precari, devono essere vaccinati”.

Un’altra proposta da tempo portata avanti da Soumahoro è l’introduzione della “patente del cibo”: una riforma della filiera agroalimentare che parta dai semi fino alle forchette, che garantisca alle cittadine e ai cittadini un cibo eticamente sano. Lo Stato deve intervenire per assicurarsi che a zappatori e contadini venga garantito il rispetto dei diritti salariali, previdenziali, di sicurezza sul lavoro. La tutela parte dai contadini, passa dai rider e arriva fino ai cittadini: “Uno strumento messo a disposizione dallo Stato e non dalla filiera delle etichette, che vedono aziende pagare strutture terze per dire che loro rispettano diritti. Lanceremo un’iniziativa di legge popolare per elaborare una proposta di legge di riforma della filiera agricola, con l’introduzione della patente del cibo”.

Braccianti, italiani e di altra provenienza geografica subiscono miseria, fame, sfruttamento, caporalato. Gli stessi ai quali durante la pandemia è stato chiesto di continuare a lavorare, a produrre cibo per le famiglie confinate in casa. Indispensabili, ma invisibili. Senza tutele: “Avevamo una norma sul caporalato, la 1369 del 1960, abolita dal governo Berlusconi nel 2003: riguardava il divieto di intermediazione e interposizione nella prestazione di lavoro. È stato distrutto tutto, delegando alla magistratura quello che deve essere il compito della politica, del sindacato, degli ispettori del lavoro, dei centri dell’impiego”. Soumahoro cita il sindacalista Giuseppe Di Vittorio, le sue domande che gli suonano ancora attuali: “È giusto che in Italia mentre i grandi monopoli continuano a moltiplicare i loro profitti e le loro ricchezze, ai lavoratori non rimangano che le briciole? È giusto che il salario dei lavoratori sia al di sotto dei bisogni vitali dei lavoratori stessi e delle loro famiglie? È giusto questo?”.

Accetto lo sfruttamento perché altrimenti non avrei da mangiare” - I braccianti senza diritti sono italiani o stranieri. Per entrambi lavorare in nero significa accogliere un compromesso: lo sfruttamento in cambio del cibo. Senza quel lavoro non avrebbero da mangiare, accettano allora quel lavoro nonostante le condizioni mortificanti.

Ce lo racconta Mamadou, 41 anni, partito dall’Africa nel 2015 e sbarcato a Lampedusa. Nella sua terra d’origine ha lasciato la famiglia, i genitori e il figlio sono morti poco tempo dopo che lui se ne era andato. Ora lui vive nel “Gran Ghetto” di Torretta Antonacci, in provincia di Foggia, dove tra container e baracche dormono numerosi braccianti agricoli. Un mese fa un gruppo di individui armati li ha attaccati, due raid nel giro di 48 ore, in cui i braccianti erano come prede per cacciatori. “Avevano in mano pistole. Avevo paura di morire. È stato terribile”, ricorda Mamadou.

Lui si sveglia tutte le mattine alle 4, poi lavora per circa dodici ore: “Il lavoro in nero costa poco per loro. Alcuni non ci pagano proprio: non ho un documento, non ho un contratto, non posso dimostrare di aver lavorato”. Di Soumahoro parla con ammirazione: “Ci insegna cosa sono i diritti e qui mancano. Ci fa avere del cibo ogni tanto. D’inverno c’è poco lavoro, la gente non ha i soldi neanche per comprarsi da mangiare”. Forte dell’insegnamento di Soumahoro, Mamadou è pronto a chiedere di più: “Non sappiamo quando questo finirà, continueremo a manifestare per avere un cambiamento. Anche se non possiamo avere tutto quello che chiediamo, ci basta qualcosa per migliorare”.

Articolo ripreso da: https://www.huffingtonpost.it/entry/braccianti-invisibili-anche-nella-protesta-ascoltateci-o-lasceremo-i-campi-deserti_




CON MONTAIGNE NASCE L' INDIVIDUO MODERNO

 




Con Montaigne nasce l'occidente moderno

di Alfonso Berardinelli


E’ sempre esistito l’individuo?

A prima vista e proiettando nel passato noi stessi, sembrerebbe di sì. In realtà ogni cultura e epoca ha creato la sua idea dell’io e del suo rapporto con la società. La stessa idea di società è nata in occidente solo con la modernità sette-ottocentesca, quando individui e popolo si sono dissociati dallo stato assoluto e ne hanno contestato la legittimità. E’ solo allora che comincia a profilarsi una nuova disciplina, la sociologia, termine inventato da Auguste Comte negli anni che precedettero le rivoluzioni del 1848, anno di pubblicazione del Manifesto di Marx e Engels.

Quanto all’individuo isolato e dissociato dall’insieme sociale, sembra nascere con alcuni celebri personaggi letterari, veri e propri “miti dell’individualismo moderno”, come ha spiegato nel suo libro omonimo il critico Ian Watt. Questi personaggi e miti sarebbero Faust, don Chisciotte, don Giovanni e Robinson Crusoe, ai quali andrebbero aggiunti almeno l’Amleto shakespeariano e Alceste, il “misantropo” di Molière, al quale gli “equilibristi del vivere sociale” ripugnano. Ma in queste ultime incarnazioni originarie dell’individuo isolato in sé, lo sfondo antagonistico non è la società in senso generale, è la vita di corte. In filosofia si dice che l’“io penso dunque sono” di Cartesio segna la nascita dell’autonomia individuale: basta pensare per esistere, il resto non conta. Una cosa, questa, che ai filosofi piace molto, perché è molto radicale e molto astratta.

Ma chi è più precisamente, empiricamente, questo “io”? L’individuo è tale perché presenta delle singolarità che non vanno taciute ma espresse e descritte. Mezzo secolo prima di Cartesio questa impresa era stata compiuta da Michel De Montaigne con la sua unica opera, i Saggi, usciti per la prima volta nel 1580. E Montaigne, vero inventore dell’individuo occidentale moderno, si presentava così: “Questo, caro lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che con esso non mi sono proposto alcun fine, se non privato e domestico. Non ho tenuto in considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. Le mie forze non bastano a tali propositi. L’ho dedicato all’utilità privata dei miei parenti e amici (…) Se lo avessi scritto per procurarmi il favore della gente, mi sarei migliorato e presentato in atteggiamenti più studiati. Voglio che mi si veda qui nel mio semplice modo di essere, naturale e consueto, senza pose né artifici: perché è me stesso che ritraggo (…) sono io stesso la materia del mio libro: non c’è ragione perché tu spenda il tuo tempo con un argomento così frivolo e vano”.

Molta naturalezza, a cui lo stile di Montaigne resterà fedele. Ma l’artificio, come si capisce dalla frase finale, non è del tutto escluso. Non ci si presenta al lettore incoraggiandolo a non leggere. Questa esibizione di umiltà è ovviamente un’astuzia retorica e una provocazione preliminare. Come dire: gli individui reali, per come sono e basta, non hanno finora meritato di essere il solo tema di un’opera letteraria o filosofica. Quello che ho fatto sfida le convenzioni culturali, dà importanza a ciò che non importa e scopre un mondo, prossimo e accessibile, ma in precedenza ignorato.

La rivoluzione individualista di Montaigne comincia da qui.

Senza il suo autoritratto non ci sarebbero stati i monologhi autodenigratori di Amleto, il suo annoiarsi a morte di fronte al dovere politico della vendetta. Rousseau non avrebbe scritto, due secoli dopo, le sue Confessioni e le tecniche introspettive del romanzo moderno sarebbero state inconcepibili. Chiuso nella torre del suo castello, di fronte alla sua biblioteca di classici, con le pareti tappezzate di sentenze e di aforismi, mentre fuori infuriavano le guerre di religione fra cattolici e protestanti, Montaigne studia se stesso. Ma più si insegue e più si convince che l’io è mobile, l’identità è multipla, la conoscenza oscilla fra certezze solo momentanee.

Nato il 28 febbraio 1533 nel segno dei Pesci da padre cattolico e madre di origine ebraica, in un castello nelle vicinanze di Bordeaux, Michel Eyquem De Montaigne ricevette dal suo amato e tollerante padre un’educazione di stile italiano, senza rigidezze e severità. Il suo precettore tedesco, Horstanus, non conosceva il francese e insegnò al bambino a parlare il latino. Dopo gli anni di collegio in Guyenne, a poco più di vent’anni, Montaigne, che aveva studiato diritto, ebbe la nomina di consigliere nell’amministrazione pubblica di Périgueux, poi entrò nel parlamento di Bordeaux e conobbe quello che sarà il grande amico della sua vita, quell’Etienne de la Boétie autore del famoso scritto sulla Servitù volontaria, di cui curò, dopo la sua morte, l’edizione delle opere.

La perdita precoce di questo amico fu uno degli eventi più dolorosi e decisivi nella vita di Montaigne. Più tardi, sollecitato da Enrico III, fu sindaco di Bordeaux quando aveva già pubblicato la prima edizione dei suoi saggi in due libri, ai quali nel 1588 se ne aggiunse un terzo. Già da quando aveva trentotto anni aveva deciso di ritirarsi a vita privata per riflettere, leggere e scrivere. Grande lettore di classici soprattutto latini (continuamente citati e ruminati sono Catullo e Virgilio, Orazio, Ovidio, i satirici Marziale e Giovenale, i filosofi morali Cicerone e Seneca), Montaigne passa dal commento all’autoritratto. Come lettore, più che un erudito è un individuo che scopre, misura e saggia se stesso. La pratica della solitudine riflessiva non ha in lui niente di ascetico, induce piuttosto all’onesta descrizione della propria vita quotidiana e alla valorizzazione del puro e semplice vivere. Impresa d’altra parte niente affatto tranquilla e lineare: “Quando recentemente mi sono ritirato a casa mia, deciso a occuparmi il più possibile di nient’altro che di trascorrere in pace e appartato quel tanto di vita che mi resta, mi sembrava di non fare al mio spirito favore più grande che lasciarlo nell’ozio più completo a conversare con se stesso e soffermarsi e riposarsi in se medesimo (…) Ma trovo che invece, come un cavallo che rompe il freno, il mio spirito mi procura cento volte più preoccupazioni da solo di quante se ne facesse per gli altri. E genera in me tante chimere e mostri fantastici uno sull’altro, senza ordine e senza motivo, che per contemplarne a mio agio la balordaggine e la stravaganza, ho cominciato a registrarli nella speranza che col tempo mi vergogni di me stesso” (Libro I, capitolo ?.

E’ la mossa tipica di Montaigne: abbassare invece che nobilitare. L’eroe autobiografico è in realtà un moderno antieroe. E questa pratica dispone di un metodo infallibile: la considerazione della stretta convivenza di corpo e anima. Come ha osservato Erich Auerbach, uno dei suoi più acuti e simpatetici studiosi, l’avversione di Montaigne va “a tutti i sistemi pedanteschi di filosofia morale, ai quali rimprovera l’astrattezza dei metodi che travestono la realtà della vita con la gonfiezza della loro terminologia, cose che si possono ricondurre al fatto che, in parte nella teoria e in parte nell’insegnamento pratico, vengono separati l’anima e il corpo, impedendo a quest’ultimo di dire la sua”.

Il corpo ha le sue pigrizie e le sue lentezze. Anche la mente ne è condizionata e i suoi movimenti possono essere descritti e messi in scena come movimenti corporei. Parlando per esempio dell’educazione (Libro I, capitolo 26), Montaigne comincia con l’esibire la propria renitenza a sfinirsi sui libri: “Insomma, io so che esiste la medicina, la giurisprudenza, la matematica divisa in quattro parti. E so all’ingrosso di che cosa trattano (…) Ma andare più a fondo e logorarmi sui libri studiando Aristotele, sovrano del sapere, o intestardirmi su qualche scienza, questo non l’ho mai fatto; e non c’è arte di cui sarei capace di delineare i principi (…) I miei pensieri e il mio giudizio procedono a tentoni, esitano, vacillano e inciampano; e quando sono andato più avanti che ho potuto, non mi sono sentito per niente soddisfatto; ho visto altre terre davanti a me, ma confusamente, e come in una nebbia che non riuscivo a penetrare”.

Esistere non è pensare, ma cercare di farlo. In questo senso e con l’invenzione di questo stile non enfatico, non astratto e antieroico, si potrebbe dire che Montaigne è il primo filosofo “esistenzialista”, il primo indagatore dell’esistenza come singolarità reale. Anche il mondo è visto da lui attraverso la lente dell’autoanalisi. Quanto alla società, alla politica, alle guerre di religione e alle ambizioni di potere, il suo è uno “sguardo da fuori”, lo sguardo di un uomo che si allontana, si autoesclude, si ausculta per capire di quale insieme molecolare di impulsi, paure, desideri, abitudini e inerzie è fatta la vita di ogni giorno ai suoi livelli elementari. Il moralismo di Montaigne è materialistico e scettico. Descrittivo, non normativo. La realtà è quanto l’io è in grado di vedere e di capire, senza illudersi di conoscere davvero ciò di cui non può fare esperienza: “Vorrei che ognuno scrivesse quello che sa, e quanto ne sa (…) Poiché uno può anche avere qualche particolare cognizione o esperienza della natura di un corso d’acqua o di una sorgente e per il resto sapere solo cose che sanno tutti. Eppure, pur di mettere in circolazione questa sua minuscola conoscenza si mette a scrivere su tutta la fisica. E’ da questo vizio che nascono tanti grandi inconvenienti” (Libro I, capitolo 31).

Prendendo sul serio e coerentemente il socratico “conosci te stesso”, Montaigne si trova di fronte un’entità polimorfa e porta l’umanistica esaltazione dell’uomo dal cielo delle idee generali alla terra dei fenomeni minimi personalmente osservabili: “Negli uomini io credo più difficilmente alla loro costanza che a ogni altra cosa, e a niente credo più facilmente che alla loro incostanza (…) Di solito non facciamo che andare dietro alle inclinazioni del nostro desiderio, a sinistra, a destra, in su e in giù, secondo che il vento delle occasioni ci trascina. Pensiamo a quello che vogliamo solo nel momento in cui lo vogliamo e cambiamo come quell’animale che prende il colore del luogo in cui lo si mette” (Libro II, capitolo 1).

Con questo siamo ben lontani, al di là, o al di qua, del grandioso umanesimo antropocentrico italiano, fondato sull’idea di rispecchiamento fra quel microcosmo che è l’uomo e il macrocosmo universale. Montaigne sa bene di non avere in sé tutto l’universo. La sola idea lo spaventerebbe. Cita spesso Platone, ma il suo filosofo è piuttosto Epicuro. I piaceri e i dubbi ragionevoli sono il sale della sua riflessione. Niente è stabile e certo. Ogni punto di vista ha una sua legittimità e tutto ciò che è piacevole è preferibile a ciò che è sgradevole e scomodo. La stessa grandezza degli uomini famosi la considera “incomoda” e sospetta, perché altera la naturalezza e la misura.

Anche lo stile saggistico di Montaigne, prototipo della prosa letteraria di pensiero che trionfò nel Settecento illuministico (con Addison, Rousseau, Diderot, Lichtenberg, Chamfort, Pietro Verri), risponde agli stessi criteri di sinuosa duttilità. Esprime l’etica dello scrittore, il suo ideale di vita, i suoi propositi, i ritmi della sua vita mentale: “Sentii di aver raggiunto il vero stile quando riuscii a parlare alla carta come faccio con la prima persona che incontro”. Questo culto della semplicità e della naturalezza ha anch’esso una radice epicurea: non è un sapere per le élite, ma per chiunque.

Montaigne condanna l’oscurità di linguaggio, la paura immaginaria e la tristezza, da cui dice di essere immune. Nel saggio sulla “vanità delle parole” (Libro I, capitolo 51) osserva che il retore è come un calzolaio che faccia scarpe più grandi di quanto sono i piedi, e fa sembrare grandi cose che non lo sono. Vano è tutto ciò che supera le proprie reali possibilità. Vivere ritirato e indulgere a una certa pigrizia non lo giudica spregevole. E tuttavia ritiene che “la più onorevole occupazione sia giovare alla gente e essere utile a molti” (Libro III, capitolo 9).

Dunque realismo, autocoscienza, moderazione, accettazione dei propri limiti e delle opinioni diverse dalle proprie. Fanatismi e enfasi gli ripugnavano. Va riconosciuto che leggere Montaigne è più calmante che eccitante, se gli si sente dire che ciò che è grandioso corre maggiori rischi, mentre “tutto ciò che vacilla non cade”.

Se si confronta questo umanesimo del secondo Cinquecento con quello italiano che va da Marsilio Ficino e Giovanni Pico Della Mirandola, fino alle statue equestri di Donatello e Verrocchio, fino al Mosè e al Davide di Michelangelo, si nota un deciso rovesciamento e abbassamento di tono, di propositi e di ideali. L’interesse di Montaigne per gli altri è costante, ma egli nutre una certa sfiducia negli storici perché tendono a presentare gli uomini solo in situazioni eroiche e straordinarie e si preoccupano troppo di attribuire agli individui un’identità univoca e rigida quale appare nei pochi momenti culminanti della vita. “Per giudicare un uomo”, scrive Montaigne, “bisogna stargli dietro a lungo, seguirlo con curiosità nella quotidiana vita privata”, poiché in quella pubblica si indossano più facilmente delle maschere.

In questa ottica è l’individuo solo e privato che giudica il “grande uomo”, non viceversa. Quotidianità e singolarità hanno perciò qualcosa di antisociale e delimitano uno spazio di anti-Storia. L’uomo di Montaigne è un io che non somiglia ai modelli del principe di Machiavelli o del cortigiano di Castiglione, somiglia piuttosto agli autoritratti di Rembrandt: “Altri modellano l’uomo; io lo racconto e ne rappresento un esemplare molto malformato e tale che se dovessi modellarlo di nuovo lo farei in verità molto diverso da quello che è. Ma ormai è fatto. I tratti della mia pittura sono sempre fedeli, anche se cambiano e variano. Il mondo non è che una continua altalena. Tutte le cose vi oscillano senza posa: la terra, le rocce del Caucaso, le piramidi d’Egitto, sia per oscillazione generale che per oscillazione propria. Anche la costanza è solo un’oscillazione più debole. Io non posso fissare il mio oggetto. Esso procede incerto e vacillante (…) Non descrivo l’essere. Racconto il passaggio: non il passaggio da un’epoca a un’altra, ma da un giorno all’altro, di minuto in minuto (…) Se la mia anima potesse stabilizzarsi, non mi saggerei, mi deciderei. Invece è sempre in tirocinio e in prova (…) Tutta la filosofia morale si applica altrettanto bene a una vita comune e privata che a una vita di stoffa più ricca. Ogni uomo porta la forma intera dell’umana condizione” (Libro III, capitolo 2).

Dato il suo oggetto, dato il suo metodo e stile, Montaigne propone due cose che in termini di filosofia possiamo chiamare: a) una gnoseologia scettica che dubita continuamente di certezze e conoscenze raggiunte; e b) un’ontologia pluralistica che isola individui, circostanze e casi, evitando di definire concettualmente entità generali. Invece di cercare di afferrare l’essere al di là delle apparenze mutevoli, segue il mutamento, il divenire, la sola cosa di cui umanamente si può fare esperienza. Prima di David Hume e di Giacomo Leopardi, contro l’ontologia novecentesca restaurata dalla scuola di Heidegger, quello di Montaigne è un pensiero antimetafisico che evita la conoscenza dei “principi primi” come non umana. Supermentale, più che mentale.

In una vita sociale e politica che si costruisce, si tiene insieme e opera dividendosi in feroci e permanenti conflitti fondati su convinzioni dogmatiche, Montaigne si tira indietro, si allontana. Vede sfumature dove altri impugnano fedi. Vivendo in una Francia devastata dallo scontro fra Lega cattolica e Ugonotti, questo benestante signore altoborghese sceglie di dedicarsi alla lettura e a un suo particolare genere di filosofia autobiografica.

L’idea della morte lo assillava e non senza ragione. Nel 1563, quando aveva trent’anni, era morto di peste il suo migliore amico Etienne de la Boétie. Cinque anni dopo morì suo padre. L’anno successivo il suo fratello minore fu vittima di un mortale incidente sportivo. Il suo primo figlio morì a due anni. In seguito, dei suoi cinque figli ne sopravvisse uno. La Francia pullulava di banditi, tra una guerra civile e un’altra. Lui stesso ebbe un grave incidente andando a cavallo e fu per qualche ora in pericolo di vita. Nel corso degli anni passerà dall’idea del filosofare come un “imparare a morire” a una diversa saggezza: “non preoccuparsi della morte”, ci penserà la natura a fare tutto.

Possiamo forse dire che nell’opera di Montaigne troviamo la meno astrattamente ambiziosa, la più liberale, la più democratica, moderatamente anarchica, realista e socievole delle filosofie. I suoi Saggi si concludono con queste parole: “E’ una perfezione assoluta, quasi divina, saper godere lealmente del proprio essere (…) abbiamo un bel montare sui trampoli, anche sui trampoli dobbiamo camminare sulle nostre gambe. E sul più alto trono del mondo non siamo seduti che sul nostro culo. Le vite più belle sono, secondo me, quelle che si conformano al comune modello umano, con ordine: ma senza eccezionalità e senza stravaganza”.

Il primo dei moderni avrebbe condannato grande parte della futura modernità.


UNA VITA SCAPPANDO

 


Una vita scappando

Mauro Armanino
28 Maggio 2021

Alla fine dello scorso anno, le statistiche parlavano di un milione di persone in fuga nel solo Burkina Faso, oltre la metà di loro ha meno di 15 anni. Le persone in fuga nel Sahel non sono numeri, sono uno dei volti e dei simboli del nostro tempo. Dove vanno? Non importa, cercano di fuggire dalla povertà endemica, dalla violenza armata, dalle conseguenze del cambiamento del clima, dall’insicurezza alimentare e dalla malnutrizione. Nelle regioni toccate dai conflitti armati, i civili devono affrontare la crisi delle possibilità di protezione e fuggire altrove. I servizi di base, la salute e l’educazione, sono bloccati. Migliaia le scuole chiuse e così come i dispensari con disagi evidenti per le donne in stato di gravidanza. Quest’anno circa 29 milioni di Saheliani avranno bisogno di assistenza e di protezione, cinque in più dell’anno scorso

Rifugiati maliani in Niger Foto Wikimedia Commons

Un gruppo di cristiani, scappando dal villaggio di Dolbel, sono arrivati nei giorni scorsi a Niamey. Il motivo della fuga è da trovarsi nel massacro di sei persone, di mattina presto, perpetrato nel villaggio di Fangio, non lontano dal loro. Come in altri villaggi della zona e altrove, il messaggio dei Gruppi Armati Terroristi è lo stesso: scappare per salvare se stessi e la propria famiglia. Si uniscono alle altre migliaia di persone che, per vivere e sperare, devono fuggire dalla loro terre e lasciare la casa e i beni che costituiscono la loro povera ricchezza. Una vita scappando, appare come una delle metafore del nostro e di altri tempi storici. Una drammatica parabola della nostra condizione umana. Ancora prima di far scappare gli altri c’è la fuga da se stessi e da ciò che costituisce la propria umana identità. Chi fugge da sé prima o poi farà fuggire gli altri dalla propria terra.

La prima volta di questa fuga mi vide testimone a Monrovia, in Liberia. Fu la conclusione della guerra civile durata una quindicina d’anni. La gente, a migliaia, si ammassava sulle strade della capitale terrorizzata per l’annunciato arrivo dei ribelli del LURD (Liberiani Uniti per la Riconciliazione e la Democrazia). Sotto la pioggia battente di stagione scappava, portando sul capo o su mezzi di fortuna, il salvabile in quella circostanza. Un materasso, qualche coperta, il necassario per cucinare, le zanzariere e gli immancabili bambini appesi alle spalle dei genitori. Una scena da apocalisse e dunque da rivelazione unica e decisiva del vero volto della guerra, di ogni guerra. Le guerre sono i morti, i feriti, gli abbandonati e soprattutto loro, quelli che fuggono per salvarsi e sperare un’altra parte. Dove andate, si chiedeva loro: non sappiamo, dicevano, lontano.

Il vicino Burkina Faso, patria di Thomas Sankara e del giornalista bruciato dai sicari del potere Norbert Zongo, è vittima di attacchi terroristi da cinque anni. Ciò sta causando, oltre le numerose vittime, migliaia di sfollati e dunque una crisi umanitaria senza paragoni nella storia recente del Paese. Il loro numero è passato da 560 mila del dicembre 2019 a oltre un milione nel dicembre dell’anno scorso. Sui 300 comuni che conta il Paese, almeno 266 accolgono una parte degli sfollati. Il 54 per cento di questi ha meno di 15 anni. La scelta principale è stata finora la fuga dal loro luogo di nascita. Dopo aver vissuto il trauma della marcia forzata, della paura di attacchi, rappresaglie, regolamenti di conti e conflitti etnici ereditati o provocati, sarà difficile vivere una vita ‘normale’. D’altra parte, la così chiamata ‘normalità’ è ciò dal quale sono scaturiti i drammi di cui si parla.

La povertà endemica, il cambiamento climatico, la violenza armata, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione continuano a mantere il Sahel in una estrema fragilità. Nelle regioni toccate dai conflitti armati i civili sono confrontati a una crisi di protezione e hanno dovuto fuggire altrove. I servizi di base, la salute e l’educazione, sono seriamente bloccati. Circa 5 mila scuole sono chiuse e così pure oltre 130 dispensari con disagi evidenti per le donne in stato di gravidanza. Quest’anno circa 29 milioni di Saheliani avranno bisogno di assistenza e di protezione, cinque in più dell’anno scorso. Nel Niger, infine, nell’ultimo rapporto dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, vengono rilevati oltre 234 mila rifugiati, circa 300 mila sfollati interni e più di 3 mila richiedenti asilo. Ciò senza contare le migliaia di migranti di passaggio e gli ospiti delle case dell’OIM.

I fuggitivi del Sahel non sono numeri o accidenti di percorso ma uno dei volti e simboli del nostro tempo che scappa da sé senza sapere dove andare. Prima di trovarsi, forse, c’è da andare lontano.

                                                                      Niamey, maggio 2021

Articolo ripreso da  https://comune-info.net/una-vita-scappando/

28 maggio 2021

LA "BOTTIGLIA IN MARE" DI YORGOS SEFERIS

 


Riprendo da   https://pintacuda.it/2021/05/28/bottiglia-in-mare-di-yorgos-seferis/  questo bel pezzo:

“Bottiglia in mare” di Yorgos Seferis

di  Mario Pintacuda


Yorgos Seferis (Γιώργος Σεφέρης, 1900-1971) fu uno dei più celebri poeti, saggisti e diplomatici greci. Ottenne il Premio Nobel per la letteratura nel 1963.

Quando lavorava al consolato greco di Londra (1931-1934), Seferis conobbe la poesia di Thomas Stearns Eliot, di cui nel 1936 tradusse “La terra desolata” (“The waste land”) intitolandola “I èrimi chòra” (Η έρημη χώρα).

Frutto di questa esperienza fu la raccolta poetica “Mythistòrima” (Μυθιστόρημα, Atene 1935), ove abbandonò i versi tradizionali e la ricerca di musicalità per ottenere una nuova essenzialità espressiva. Il titolo della raccolta si può rendere in italiano con “Romanzo” (μυθιστόρημα è il vocabolo che in greco moderno lo indica comunemente) o “Leggenda”. Il “romanzo” per Seferis era la forma epica dei nostri tempi, ma – come spiegava l’autore stesso – due erano le componenti che gli avevano fatto scegliere il titolo: “mythos perché ho utilizzato in modo abbastanza visibile una certa mitologia; historìa perché ho cercato di esprimere, con qualche coerenza, una situazione altrettanto indipendentemente da me quanto i personaggi di un romanzo” (trad. Vitti).

L’opera è articolata in 24 poesie (tante quanti sono i canti di Iliade e Odissea), per complessivi 1.556 versi. Tuttavia è evidente il contrasto fra i canti omerici, che raccontano imprese gloriose, e queste 24 liriche che invece raccontano disfatte, sconfitte, ingiustizie, sensazioni cupe e paralizzanti.

Probabilmente su Seferis, greco di Smirne (attuale Turchia), pesò molto la tragedia del 1922. Infatti, in seguito a una guerra contro la Turchia nazionalista di Atatürk, durata tre anni, era fallita la “Grande idea” (“Megàli idèa”, Μεγάλη ἰδέα) greca irredentista, che aveva sperato di ricongiungere tutte le popolazioni greche, comprese quelle dell’Asia Minore, ponendo la capitale del nuovo stato unificato a Costantinopoli.

L’esito era stato invece disastroso per i Greci: al termine del conflitto, con il Trattato di Losanna, Turchia e Grecia si accordarono per un gigantesco scambio di popolazioni secondo il criterio dell’appartenenza religiosa: l’afflusso di un milione e mezzo di profughi dell’Asia Minore fu un trauma spaventoso per la Grecia, la cui popolazione era di circa quattro milioni e mezzo di abitanti nell’autunno del 1922 (sarebbe come se oggi arrivassero in Italia altri venti milioni di nostri concittadini!).

Ne derivò una tragedia economica e sociale, ma anche un forte sbandamento culturale, un brusco richiamo alla realtà: da qui derivano anche le scarne liriche di “Mythistòrima”: «i viaggi non portati a termine, i rottami galleggianti, l’affondamento nel mare e nella pietra, le statue e i marmi rotti toccati nel vano sforzo di recuperarne il passato, gli amici periti o assenti, la commovente mediocrità dei compagni, personaggi mitici che parlano di sangue e di sciagure, l’impossibilità dell’eroismo: tutto ciò fa parte di quella sedimentazione di esperienze che confluiscono nella composizione dell’“antichissimo dramma”» (M. Vitti). Proprio l’espressione “antichissimo dramma” (“panàrcheo dràma”, πανάρχαιο δράμα) esprime potentemente questa concezione esistenziale.

Da qui anche le scelte stilistiche: nella raccolta il poeta ricorre a sequenze brevi, usa metonimie, similitudini, analogie, inserisce continue interrelazioni fra i significati, ricorre spesso a “correlativi oggettivi” sul modello di Eliot, utilizza e “riscrive” personaggi mitologici (gli Argonauti, Oreste, Andromeda e anche Elpenore, il compagno di Odisseo che rappresenta l’uomo comune, con la sua incapacità e la sua stoltezza).

Elemento fortemente simbolico, in questa prospettiva, è il paesaggio greco. Come scrive Bruno Lavagnini, «le liriche di questa silloge dicono con varietà di toni e di immagini il rimpianto di una riva perduta, il senso doloroso della grecità nelle peripezie della sua vita millenaria, che si riflette nello stesso paesaggio, arido, contorto, bruciato». Si tratta di un paesaggio “tipico”, contiguo al mare, abbacinante nella sua luce, ma sostanzialmente monotono nella sua bellezza millenaria. E questa monotona essenzialità diviene simbolo della pena costante dei Greci, del loro dramma eterno nei secoli.

Questa concezione emerge bene già nell’incipit della lirica X: “La nostra terra è chiusa, tutta monti, / notte e giorno per tetto cieli bassi. / Non abbiamo né fiumi né pozzi né sorgenti: / poche cisterne vuote, sonanti, venerate. / Suono stagnante e vano, pari al nostro deserto, / al nostro amore, pari ai nostri corpi” (trad. F. Pontani).

Ὁ τόπος μας εἶναι κλειστός, ὅλο βουνὰ
ποὺ ἔχουν σκεπὴ τὸ χαμηλὸ οὐρανὸ μέρα καὶ νύχτα.
Δὲν ἔχουμε ποτάμια δὲν ἔχουμε πηγάδια δὲν ἔχουμε πηγές,
μονάχα λίγες στέρνες, ἄδειες κι αὐτές, ποὺ ἠχοῦν καὶ ποὺ τὶς προσκυνοῦμε.
Ἦχος στεκάμενος κούφιος, ἴδιος με τὴ μοναξιά μας
ἴδιος με τὴν ἀγάπη μας, ἴδιος με τὰ σώματά μας.

L’uso simbolico del paesaggio greco, nella sua monotona essenzialità, è evidente nella XII lirica della raccolta, “Bottiglia in mare”, che presenta appunto diversi elementi caratteristici: rocce, pini, una chiesetta abbandonata, altre rocce, altri pini, una casetta; lo stesso paesaggio poi “si ripete a balze”, a perdita d’occhio. La località si replica sempre, proiettata in uno spazio e in un tempo illimitati.

Nello scenario naturale si innesta ad un certo punto la presenza umana: il poeta, novello Ulisse, ricorda l’approdo in quella spiaggia, con alcuni compagni; era uno sbarco sospirato, dopo un viaggio tormentato attraverso un mare “profondo e inspiegabile” (v. 11), caratterizzato da una (ingannevole?) calma piatta. I viaggiatori intendevano riparare “i remi spezzati” e ristorarsi. Lo “sbarco” e il “viaggio” sono evidenti metafore di una triste condizione esistenziale: il mare, dice il poeta, “ci ha amareggiati” (v. 11); e la sua “calma sconfinata” somiglia pericolosamente alla morte.

Fra i ciottoli, i marinai (o naufraghi?) trovano “una moneta” (v. 13) e subito se la giocano ai dadi; la vince “il più giovane” (v. 15) fra loro, ma la sua vittoria coincide con la sua rovina (“andò perduto”, v. 15). Il dettaglio evidenzia l’illusorietà di ogni consolazione e la fine di ogni speranza (soprattutto in coloro che sono più giovani).

Quando i superstiti riprendono il mare, c’è un’amarezza in più nei loro cuori; essi ripartono ancora “coi remi spezzati” (v. 16). La sosta non ha risolto i problemi; anzi, l’approdo (dopo la prima illusoria consolazione) ha aggiunto un’ulteriore delusione alle precedenti.

Ecco il testo, nella traduzione di Mario Vitti (a seguire il testo originale).

ΙΒ´ (XII)

BOTTIGLIA IN MARE – Μποτίλια στὸ πέλαγο

Tre rocce pochi pini bruciati e una chiesetta deserta e più sopra

lo stesso paesaggio copiato si ripete;

tre rocce a forma di porta, rugginose

pochi pini bruciati, neri e gialli               

e una casetta quadra sepolta nella calce;          

e più su ancora molte volte

lo stesso paesaggio si ripete a balze

fino all’orizzonte fino al cielo in tramonto.

Qui approdammo col nostro naviglio per riparare i remi spezzati  

bere acqua e dormire.                                       

Il mare che ci ha amareggiati è profondo e inspiegabile

e dispiega una calma sconfinata.

Qui tra i ciottoli trovammo una moneta

E la giocammo ai dadi.

La vinse il più giovane e andò perduto.        

Ci rimbarcammo coi remi spezzati.

Τρεῖς βράχοι λίγα καμένα πεῦκα κι ἕνα ρημοκλήσι

καὶ παραπάνω

τὸ ἴδιο τοπίο ἀντιγραμμένο ξαναρχίζει

τρεῖς βράχοι σὲ σχῆμα πύλης, σκουριασμένοι

λίγα καμένα πεῦκα, μαῦρα καὶ κίτρινα

κι ἕνα τετράγωνο σπιτάκι θαμμένο στὸν ἀσβέστη

καὶ παραπάνω ἀκόμη πολλὲς φορὲς

τὸ ἴδιο τοπίο ξαναρχίζει κλιμακωτὰ

ὡς τὸν ὁρίζοντα ὡς τὸν οὐρανὸ ποὺ βασιλεύει.

Ἐδῶ ἀράξαμε τὸ καράβι νὰ ματίσουμε τὰ σπασμένα κουπιά,

νὰ πιοῦμε νερὸ καὶ νὰ κοιμηθοῦμε.

Ἡ θάλασσα ποὺ μᾶς πίκρανε εἶναι βαθιὰ κι ἀνεξερεύνητη

καὶ ξεδιπλώνει μίαν ἀπέραντη γαλήνη.

Ἐδῶ μέσα στὰ βότσαλα βρήκαμε ἕνα νόμισμα

καὶ τὸ παίξαμε στὰ ζάρια.

Τὸ κέρδισε ὁ μικρότερος καὶ χάθηκε.

Ξαναμπαρκάραμε μὲ τὰ σπασμένα μας κουπιά.



27 maggio 2021

DRAGHI TRA SVILUPPO ED ECONOMIA CRIMINALE

 


Foto di MonikaP da Pixabay

La visione di Draghi tra sviluppo ed economia criminale. – di Tonino Perna

C’è un vero e proprio progetto politico in linea con la storia del capitalismo. Per capirlo dobbiamo fare un passo indietro all’epoca della rivoluzione industriale in Inghilterra nella seconda metà del secolo XVIII.

Nei libri di scuola, ed anche all’Università, viene raccontata come la semplice introduzione delle macchine (tra cui la famosa spoletta volante di John Kay) nel settore tessile che permise all’Inghilterra di diventare leader in questo settore a livello mondiale. Quello che raramente viene spiegato è che l’introduzione delle macchine arrivò più di un ventennio dopo la loro scoperta e che fu preceduta da profonde riforme legislative, nonché da una tolleranza rispetto a pratiche fraudolente che riguardavano gli articoli di esportazione (adulterazione delle stoffe).

In un voluminoso saggio dal titolo Prometeo liberato (Einaudi 1978), lo storico statunitense David Landes mostrò come fosse determinante l’abolizione di tutta una serie di regole che stabilivano quanto doveva essere larga la stoffa, i colori, il peso, il broccato, ecc. E’ dal tempo di Dante, e ancor prima, che le Corporazioni di arti e mestieri regolavano con estrema cura, quasi ossessiva, ogni tipo di produzione di beni, impedendo la concorrenza sul prezzo (era vietata) e dando ampie garanzie al cittadino (per esempio ogni artigiano doveva svolgere il proprio mestiere davanti alla finestra…).

L’innovazione di prodotto quanto di processo erano rare e difficili, dovendo combattere contro il potere delle Corporazioni. Solo cancellando una parte importante di queste regole il capitalismo, che era nato con le prime banche nel XIII secolo, poté dare vita a alla “rivoluzione industriale”.

Non diversamente oggi la digitalizzazione del tessuto sociale, la nascita delle smart city, e la ripresa degli investimenti su larga scala sarà possibile solo abbattendo quelli che già un governatore della Banca d’Italia definiva “lacci e lacciuoli”. Abbattere i vincoli burocratici e velocizzare la giustizia civile e penale rappresentano la conditio sine qua non del rilancio del modello di sviluppo capitalistico vincente su scala mondiale.

Questo comporterà certamente una crescita dell’economia, in particolare dell’economia criminale, della presenza delle imprese a capitale mafioso, come denuncia Libera e una parte dei sindacati, ma è difficile opporsi se non c’è un modello alternativo realizzabile. Mi spiego meglio con un esempio. Da quando la magistratura, dopo la morte di Falcone e Borsellino, ha ingaggiato una lotta contro le mafie in tutto il Mezzogiorno, con relativa confisca di beni immobili e imprese, i capitali mafiosi sono fuggiti dal Sud e si sono trasferiti nel Nord Italia ed all’estero.

Nel settore edile è diventato difficile portare avanti un’opera per le interdittive della Prefettura a cantieri aperti. Magari dopo che la stessa impresa aveva ricevuto un certificato antimafia. A questo si aggiunga l’atavica gestione neoborbonica della Pubblica Amministrazione che nessuna riforma è riuscita finora a contrastare. In breve, il Mezzogiorno è caduto in una progressiva stagnazione negli ultimi vent’anni proprio a causa di tutti questi vincoli.

E quindi? Dobbiamo sperare che l’economia criminale prenda il sopravvento in nome dello sviluppo? Certamente no. Allo stesso tempo, la lentezza della giustizia civile, la farraginosità delle procedure burocratiche creano un malessere crescente nella stragrande maggioranza della popolazione. Non è facile uscire da questo dilemma, ma non si può smettere di cercare una soluzione alternativa, praticabile, che non può non passare da una reale partecipazione popolare ai processi decisionali, a partire dagli enti locali.

Ma, anche, da una lotta per spostare gli investimenti verso la cura del territorio, verso i servizi sociali, il recupero delle terre abbandonate, delle aree interne, verso una riduzione degli sprechi e dei consumi di suolo. Una vera rivoluzione ecologica non può non accompagnarsi con una forte spinta democratica da basso. Che si traduce in una maggiore resistenza alla penetrazione dell’economia criminale.

da “il Manifesto” del 27 maggio 2021
Foto di MonikaP da Pixabay

CARLA FRACCI ERA PIU' LEGGERA DELL' ARIA e ILLOGICA COME LA RAGIONE 1 e 2

 



"Più leggera dell'aria più lieve di un sospiro"

Eugenio Montale.


LA DANZATRICE STANCA

Torna a fiorir la rosa
che pur dianzi languia…
Dianzi? Vuol dire dapprima, poco fa.
e quando mai può dirsi per stagioni
che s’incastrano l’una nell’altra, amorfe?
Ma si parla della rifioritura
d’una convalescente, di una guancia
meno pallente ove non sia muffito
l’aggettivo, del più vivido accendersi
dell’occhio, anzi del guardo.
È questo il solo fiore che rimane
con qualche metro d’un tuo dulcamara.
A te bastano i piedi sulla bilancia
per misurare i pochi milligrammi
che i già defunti turni stagionali
non seppero sottrarti. Poi potrai
rimettere le ali non più nubecola
celeste ma terrestre e non è detto
che il cielo se ne accorga basta che uno
stupisca che il tuo fiore si rincarna
si meraviglia. Non è di tutti i giorni
in questi nivei défilés di morte.

Eugenio Montale


Anche Alda Merini ha dedicato dei bei versi a Carla Fracci:

Delle lusinghe della notte un sogno
esce e percorre tutta la vallata
una fata che genera altri tempi
e vola via come una canzone
non occorre nel vederti danzare
aver letto molti testi
oppure domandandosi
l’origine dell’amore.
Tu sei l’amore
tu sei il sentimento
tu sei illogica
come la ragione
tu sei leggera come la follia.
Alda Merini