30 novembre 2013

NUOVA BUSAMBRA ALL'UNIVERSITA' DI PALERMO


RILEGGERE POUND





Andrea Consonni

 Come e perché il pensiero di Pound salverà il mondo


“Usura soffoca il figlio nel ventre arresta il giovane amante cede il letto a vecchi decrepiti, si frappone fra giovani sposi. Contro natura, A Eleusi han portato puttane carogne crapulano ospiti d’usura”. Premessa: questa non è una recensione ma uno sfogo di sentimenti. Adriano Scianca, responsabile nazionale per la cultura di Casa Pound, nonché giornalista presso Libero, Il Secolo d’Italia, FareFuturo, ha scritto un saggio, “Ezra fa surf – Come e perché il pensiero di Pound salverà il mondo” (zero91), potente, cattivo, affascinante, contraddittorio, politicamente schierato, furbo, scorretto, poetico, accattivante, noioso, retorico, commovente, mai addomesticato. “Ezra fa surf” sull'onda scatenata da questo saggio che pretende lettori girovaghi fra le rovine di questo mondo, vogliosi di rompere le catene che impediscono loro di respirare, di camminare, di gioire dell'esistenza. In queste settimane mi sono spiaggiato fra recensioni, interviste, scritti insapori, l’ho sottoposto a conoscenti e mi hanno fatto storcere il naso le loro parole di risposta, le loro reazioni: un misto di orrore e di accuse a priori, di rifiuti saccenti e il timore di aprire gli occhi, di ricredersi e di percorrere nuove strade, nuovamente contraddittorie, splendenti, solitarie. Dalle loro bocche usciva fiato a costruire domane del tipo: “Ma come fai a leggere qualcosa del genere?” oppure: “Ma sei sicuro di star bene? O “Tu che leggi un saggio scritto da un fascista su un altro fascista?”. Fiato mefitico sopra fiato mefitico che costruisce steccati, differenze, ferite, internamenti. E intanto leggevo e rileggevo, ignorando le stringenti categorie di giusto e sbagliato, di Bene e Male, di corretto e scorretto, di opportuno e inopportuno.

Sorridendo di fronte al quesito: “Cosa vuoi che ci sia di interessante in uno scritto economico di Ezra Pound? Era solo un poeta” che vorrebbe contenere chissà quale verità, quando sin dalla nascita siamo stati allevati a convalidare programmi elettorali farsa, annichilenti di qualsiasi futuro, a digerire sogni costruiti in Borsa e nei loculi di qualche piramide finanziaria o ad ascoltare uomini come Jobs, Bezos, Soros, Draghi manco fossero dei nuovi profeti o a inginocchiarci di fronte a palchi di programmi televisivi eretti in onore della democrazia della Rete o di altre amenità varie. Ecco, un essere umano che ha prestato attenzione a questo genere di scemenze è difficile che possa rapportarsi a un uomo come Ezra Pound senza provare irritazione, ribrezzo, senza esprimere giudizi da pena capitale. La concretezza carnale, la follia creatrice, la fantasia delle parole che oltrepassano le epoche latitano in questa generazione di mele digitali e opportunismi venduti come venti di rivoluzione. Ma in fin dei conti cos'è questo strano oggetto librario che si fa carne, sangue e spirito e che parla di uno dei più grandi poeti della storia? Lancinante, distruttiva, offensiva nei miei riguardi, salvifica, è in primis la prefazione di Pietrangelo Buttafuoco che parte in questo modo: “Non sono le catene che offendono i poeti, che anzi nella storia le hanno portate spesso e volentieri, talora sublimandole in gioielli , come faceva il Brasillach rinchiuso nello stesso periodo in altri carceri democratici. Il più grosso oltraggio che la democrazia ha commesso nei confronti di Ezra Pound non è di averlo rinchiuso nella “gabbia di gorilla”. Né, di per sé, il fatto di averlo cacciato per tredici anni nel “buco d’inferno” del St. Elizabeth's. La vergogna vera e sanguinante del caso Pound non è dunque la violenza del potere nemico del bello e del buono ma la morale. Il peccato originale dell'Occidente non è la forza, ma l’incapacità di darle il sigillo del sacro, dovendo così ripiegare sulla più modesta giustificazione morale. Ecco, ciò che deve essere stato davvero insopportabile per Pound non è tanto il rumore del chiavistello che risuona sordo alle spalle ma il sibilo fastidioso dell'ultimo uomo che tutto giudica e tutto misura sulla propria piccolezza. Potevano rinchiuderlo solamente, Pound. E invece l’hanno anche giudicato. Errore fatale.” (pag 9). E si chiude in quest'altro: “Non rinnegare: il primo comandamento di un’etica del pensiero forte. Ed è un piacere leggere nelle pagine che seguono di un Pound schierato a difesa degli amici che hanno combinato guai in una serata di bagordi etilici o anche seguirlo mentre litiga con i funzionari dell'ambasciata che pretendevano, orrore, di fargli fare la spia a danno dei suoi amici fascisti. Non rinnegare, appunto. Le idee come gli amici. E neanche i discepoli con il gusto della provocazione.” (pag. 13).

II saggio, dopo una densissima introduzione, è diviso in tre sezioni distinte: 1) “With Usura…” L'abc della crisi; 2) Il poeta libertario e 3) Essere Mediterraneo Scianca si fa prendere per mano da Pound e ne utilizza le opere, ne analizza i pensieri, la vita, i legami col fascismo, con la religione, con gli economisti per descrivere la società di oggi e di ieri e per sparare addosso al lettore spunti di riflessione critica. L’autore delinea un quadro, ampiamente risaputo, della situazione socio-economica attuale: crisi economico/finanziaria, strapotere delle banche, spread, governanti incapaci e colpevoli che rischia di far scivolare il saggio nella pedanteria e che si risolleva invece, facendosi interessante e provocatorio, quando Scianca sembra disfarsi delle briglie lasciando che a parlare e mescolarsi liberamente alle parole di Pound siano la sua/nostra mente, il cuore, le viscere, la bocca, le lacrime, il sesso, la rabbia. Riflessioni che portano a un obiettivo dichiarato da contrastare: l’ Usura, in tutte le sue sfumare. Ed è sufficiente entrare in una banca, in un’assicurazione, in una posta, in una scuola, in un ospedale, in un asilo, nelle nostre case, nel nostro letto, con gli occhi, mentre dormiamo, mangiamo, camminiamo per comprendere quanto siamo vittime dell'Usura legalizzata fattasi Sistema. “Con Usura nessuno ha una solida casa Di pietra squadrata e liscia (…) Non si dipinge per tenersi arte In casa, ma per vendere e vendere Preso con profitto”. Usura che connota ogni aspetto dell'esistenza, che trasforma la moneta in una nuova divinità. Senza soldi non sei nulla. Lavori per il denaro. Sei truffato dal denaro. Ti uccidi per il denaro. Pur se Pound non disprezzerà mai il denaro in sé (così come la banca) ma giudicandolo in base all'utilizzo che se ne fa e se è portatori di sfruttamento o sovranità, di lavoro o alienazione. Scrive l’autore: “I soldi che mancano agli Stati, ai popoli, ai lavoratori e alle famiglie escono invece fuori dal cilindro per salvare le banche. Stregoneria? No, alta finanza. Ma in questo modo la promessa del credito è tradita per sempre e la fede acquisisce i caratteri del monoteismo esistenzialista stile Scuola di Francoforte: l’attesa di un dio di cui si sa già che non verrà mai. Sul quale, tuttavia, non cessiamo di interrogarci. Ed è proprio la necessità pressante di questa domanda che ci riporta dritti dritti in direzione del poeta di Hailey. La centralità, la pervasività della fede nel denaro, infatti, non fanno che ribadire l’attualità del pensiero poundiano. Se ormai da diversi secoli “l’economia è il nostro destino”, è per merito del poeta statunitense e di pochissimi altri che l’analisi relativa a tale destino si è concentrata sullo strumento economico per eccellenza – il denaro – e non piuttosto sui suoi effetti. Quella che molti critici definiranno come una ossessione, una mania per la moneta – per la moneta, si badi, non genericamente “per l’economia” – costituisce quindi il principale punto di forza dell'analisi poundiana, il vero elemento di originalità e di chiaroveggenza del suo pensiero. Pound non ha certo inventato gli studi economici, che ha anzi approcciato egli stesso con discontinuità e dilettantismo, né è stato il primo artista a inserire preoccupazione di carattere economico nei suoi testi. Non sta certo qui la sua grandezza. Il punto, come ha ricordato in vari libri, articoli e conferenze Giano Accame, è che almeno dalla metà dell'Ottocento fino agli ultimi scampoli del secolo successivo, l’analisi economica è stata centrata su tutt'altra direttrice. Il demone che ha segnato tutta un’epoca è stato quella della lotta di classe.” (pp. 87-88).

Pound sembra parlare anche a questa generazione precaria (“precario” è un termine semplificatorio, vuoto che detesto e non perché secondo le statistiche io sarei un “precario” in tutti i sensi), a questo 40% di giovani senza lavoro o troppo sfiduciati anche solo di cercarlo, perché secondo Scianca: “Pound compie un’operazione ben più sottile e, con il senno di poi, più profetica: egli introduce per la prima volta la categoria dell’ansia in un contesto politico economico. L’ansia di cercare lavoro, di perderlo, di vedersi rinnovato il contratto a termine, di arrivare, di riuscire a conservare un tetto sulla testa, di riuscire a sposarsi e mettere su famiglia. “Senza lavoro, sperare è follia”, leggiamo nel c. 53. E ancora, con parole a dir poco profetiche rispetto a tempi come i nostri in cui i contratti a termine la fanno da padrone: “La libertà dalla preoccupazione, inerente alla ragionevole certezza di conservare il proprio lavoro, deve valere almeno il 25 per cento di OGNI reddito.” (pp. 97-98) E così via. Come se in maniera profetica Pound avesse toccato con le sue qualsiasi tema, seppur è bene ricordare, e lo stesso autore lo fa, che Pound, pur essendosi documentato in maniera puntigliosa, rimase sempre un dilettante economico. I suoi erano più illuminazioni, squarci nell'oscurità. Sintetizzando si potrebbero riportare i tre elementi cardine del pensiero poundiano, visione che deriva dalle tesi di Clifford Hugh Douglas. Ecco i tre elementi: “1) il denaro non è una merce, ma una convenzione sociale; 2) neanche il lavoro è una merce, ma è piuttosto il fondamento della ricchezza; 3) lo Stato dispone del credito, non è quindi necessario che si indebiti con banche private.” (pag. 117) Tesi di buon senso che qualcuno giudicherà fin troppo banali ma a furia di continuare a definire banale il buon senso siamo arrivati a parlare di spread, di borse, di titoli, di investimenti off-shore, a non capire più nulla di quello che mangiamo, di cosa succede ai nostri soldi, alle nostre pensioni, al nostro futuro. Banale per banale, preferisco il banale di Pound. E scrivendo di tutto ciò ho parlato solo di un terzo del libro, il resto è da colpo alle reni anche solo per titoli come “Pound l'anti-Fallaci” (leggetelo e scommetto che se vi irritava la Fallaci vi irriterà anche questo capitolo), “Le onde, la pietra, la luce: geofilosofia poundiana”, “Un poeta pacifista (ma non troppo)”.

Questo libro mi è arrivato in un file adobe da Adriano Angelini, l’ho stampato in copia solo fronte e ne è uscita un mattone di 320 pagine. A furia di leggerlo, rileggerlo, sottolinearlo, di cerchiare numeri di pagina, a scrivere a penna sui bordi “che stupidaggine”, “da cercare”, il bianco è diventato opaco, quasi ocra, in alcuni punti si è annerito completamente e mi ricorda una copia di un libro proibito custodito in nella biblioteca di un’abbazia nascosta fra le montagne. È uno dei più bei libri che io abbia letto ultimamente. Imperfetto, sicuramente schierato (l’ultima parte evidenzia chiaramente le differenze fra il sottoscritto e l’autore. E l’ho ripreso fra le mani in questi giorni in attesa che mia sorella riparta per l’Egitto e pensando a lei che conosce a menadito il greco, il latino, l’italiano, l’arabo e che ogni volta che torna a casa mi parla della bellezza del Mediterraneo, di questo mare dove sono seppelliti migliaia di uomini e donne e bambini in cerca di fortuna e che è stata la culla delle civiltà da cui in parte arriviamo noi stessi. Questo saggio si chiude proprio con una dedica al Mediterraneo: “Il Mediterraneo come luogo dell'anti-crisi. Della libertà, della sovranità, del lavoro. Asse che non vacilla dei destini del mondo. Acqua nutrice da cui innalzarsi per tornare a vendemmiare gli astri.” Vendemmiare gli astri. Per il sottoscritto Ezra Pound ha la voce e il volto delle due professoresse che me lo fecero conoscere e che m’insegnarono tutto in collegio. Mi indicarono la strada. Mi diedero conforto. Corressero molti miei errori. Mi costrinsero al silenzio. Seppero ascoltare e confortare. Non so se il pensiero di Pound salverà il mondo, di certo ti aiuta a guardare al futuro.

Edizione esaminata e brevi note:

Adriano Scianca è nato a Orvieto (Tr) nel 1980. Laureato in Filosofia alla Sapienza di Roma, giornalista professionista, collabora o ha collaborato con vari giornali, riviste e siti web fra cui Libero, Il Secolo d’Italia, FareFuturo, Charta Minuta. Ha curato il libro Dove va la biopolitica? (Settimo Sigillo) e ha scrittoRiprendersi tutto (Barbarossa), quest’ultimo tradotto anche in francese per le Editions du Rubicon. È responsabile nazionale per la cultura di CasaPound Italia fin dalla nascita del movimento (2008).
Adriano Scianca, “Ezra fa surf. Come e perché il pensiero di Pound salverà il mondo”, Milano, zero91, 2013.

Andrea Consonni, novembre 2013

I MATTI SECONDO FRANCESCO DE GREGORI




I matti vanno contenti, tra il campo e la ferrovia.
A caccia di grilli e serpenti, a caccia di grilli e serpenti.
I matti vanno contenti a guinzaglio della pazzia,
a caccia di grilli e serpenti, tra il campo e la ferrovia.
I matti non hanno più niente, intorno a loro più nessuna città,
anche se strillano chi li sente, anche se strillano che fa.
I matti vanno contenti, sull'orlo della normalità,
come stelle cadenti, nel mare della Tranquillità.
Trasportando grosse buste di plastica del peso totale del cuore,
piene di spazzatura e di silenzio, piene di freddo e rumore.
I matti non hanno il cuore o se ce l'hanno è sprecato,
è una caverna tutta nera.
I matti ancora lì a pensare a un treno mai arrivato
e a una moglie portata via da chissà quale bufera.
I matti senza la patente per camminare,
i matti tutta la vita, dentro la notte, chiusi a chiave.
I matti vanno contenti, fermano il traffico con la mano,
poi attraversano il mattino, con l'aiuto di un fiasco di vino.
Si fermano lunghe ore, a riposare, le ossa e le ali,
le ossa e le ali, e dentro alle chiese ci vanno a fumare,
centinaia di sigarette davanti all'altare


Altri testi su: http://www.angolotesti.it/F/testi_canzoni_francesco_de_gregori_125/testo_canzone_i_matti_51055.html
Tutto su Francesco De+Gregori: http://www.musictory.it/musica/Francesco+De+Gregori

RILEGGERE BASAGLIA







Pier Aldo Rovatti

Quando c’erano i matti. La lotta di classe secondo Basaglia


Come si fa un corso su Basaglia? Noi leggiamo delle parole, ma Basaglia è tutto rivolto alle pratiche. C’è o non c’è un pensiero di Basaglia? Io credo che ci sia, ma non è un pensiero facile da disegnare. Possiamo dire che abbia un’intonazione prevalentemente fenomenologica, ma dopo aver usato questa espressione non siamo giunti da nessuna parte, perché far rientrare Basaglia all’interno di una corrente filosofica significa dissanguare, rendere astratta un’esperienza, che è solo in parte un’esperienza di pensiero. Ci sono anche altri autori che entrano a far parte del pensiero di Basaglia, ci sono Foucault, Goffman… andremo alla ricerca di un’identificazione che ancora manca. Ma chi è Basaglia? Un apolide? Qualcuno che non può essere inserito né nella storia della psichiatria né in quella del pensiero?



C’è anche una parte del pensiero di Basaglia fortemente influenzata dal marxismo, da cui preleva alcune nozioni, come quella di una lotta di classe tra chi ha il potere e chi lo subisce, in questo caso gli internati, caratterizzati dalla parola “miseria”. Quando Basaglia entra nella bolgia infernale del manicomio di Gorizia, quello che vede è la miseria. C’è un accoppiamento nella testa di Basaglia tra psichiatria e miseria, tra quella psichiatria che bisogna esercitare e la miseria di fronte alla quale ci si trova quando si esercita la psichiatria dentro l’istituzione totale del manicomio. Anche le storie triestine sono storie di povertà, miseria ed esclusione.

La parola esclusione spicca in tutta la riflessione di Basaglia: gli esclusi, gli interdetti, gli emarginati. Perciò il suo discorso è attuale, perché riguarda quel gioco tra inclusione ed esclusione che comanda la nostra società, dove l’esclusione non è solo quella sotto i nostri occhi, l’esclusione degli altri, sottoprivilegiati o senza privilegi, ma ha a che fare anche con la vita comune, l’esperienza del sentirsi esclusi può avvenire anche in situazioni di non-miseria e anche quando non siamo oggetto di un effettivo rifiuto sociale (rifiuto che molto spesso passa attraverso un’apparente accoglienza).


Ho l’impressione che Basaglia –nomen che comprende l’esperienza, il pensiero, gli effetti che produce – non sia stato confinato, ma lentamente e gradualmente assimilato dalla psichiatria ufficiale. Nei luoghi deputati di questa psichiatria gli sono state aperte le porte: nessuno oggi si azzarda a fare un’esplicita difesa dell’istituzione psichiatrica intesa come istituzione di contenimento. La distruzione del manicomio è accolta da tutti, ma credo che spesso si dica una cosa e se ne faccia un’altra. Basaglia, nell’esperienza psichiatrica italiana, è in realtà un cane morto. Si va avanti diritti nella convinzione che la medicalizzazione della cosiddetta follia sia la linea da seguire, con tutta la fiducia accordata alla scoperta scientifica e al continente delle neuroscienze, il cui obiettivo è di costruire la catalogazione delle malattie mentali.

Ho conosciuto direttamente persone che hanno avuto esperienze con le strutture della cura psichiatrica e quasi mai ne ho ricavato una bella immagine. La velocità con cui a una situazione viene collegata un’etichetta è molto rapida, perfino là dove ci dovrebbe essere maggior cautela, vista la storia passata. Lo stigma della malattia mentale non è davvero scomparso. Una volta c’era anche uno stigma legato alla psicoanalisi, le persone che erano in analisi non amavano dirlo, ma questo era un piccolo stigma, invece, ancora oggi, se affermi di essere psichiatrizzato, la tua identità si sgretola agli occhi degli altri e anche ai tuoi stessi occhi. È un territorio estremamente delicato, è molto facile che certe parole (psicosi, schizofrenia, disturbo bipolare, ecc.) vengano usate, e una volta usate rimangano appiccicate addosso alla persona.



Quanta civiltà c’è in un operare che non vuole applicare etichette? In una pagina delle sue Conferenze brasiliane Basaglia afferma che non è una questione di diagnosi, ma di saper descrivere la crisi di vita che si ha di fronte. Non arriverei a dire che la filosofia può sostituire gli psicofarmaci, fa un po’ ridere. Fa però meno ridere se alla filosofia diamo un ruolo. Cosa se ne fa Basaglia della filosofia? La filosofia stessa diventa per lui qualcos’altro. Prima di dare un’etichetta, di fare una diagnosi, forse c’è da fare un’operazione – e qui può entrare in gioco la fenomenologia – di sospensione del giudizio.

Basaglia si identifica con questa difficile lotta, difficile perché i numeri sono grandi: cinquecento, mille persone ricoverate in manicomio. È molto complicato lavorare singolarmente con questi numeri, perché le istituzioni hanno già livellato. Basaglia sospende il giudizio e ipotizza un lavoro inimmaginabile quanto a impegno, strutture, personale, formazione, che entri nelle storie singole, storie che possono anche non essere cupe. La storia del San Giovanni liberato è anche una storia di feste (“Marco Cavallo” e tante altre situazioni), Basaglia libera anche una voglia di allegria.



Prima ancora di ogni terapia bisogna analizzare la crisi di vita. Come si fa? Come utilizza Basaglia la sua formazione psichiatrica? La psichiatria non va rifiutata, va messa in una situazione di sospensione rispetto all’attenzione alle crisi di vita. Con questo Basaglia apre il campo a tutta una serie di implicazioni e magari anche a una ripresa di interesse nei confronti della psicoanalisi. Imparare a sospendere il giudizio, a rallentare la velocità con cui si stigmatizza, ecco il punto. Se esiste il manicomio, l’etichetta coincide con l’entrata in manicomio; se entri lo stigma è immediato. Ma anche quando abbiamo distrutto il manicomio permane il problema della velocità del-l’etichetta, nell’individuo e nella società, in ognuno di noi (sesso, età, provenienza, colore della pelle, cultura).

(Da: Pier Aldo Rovatti, Restituire la soggettività, Alpha & Beta, 2013)


(Da: La Repubblica del 30 novembre 2013)




VIVA WALTER BENJAMIN

Walter Benjamin, Frammenti. Il tempo eretico della logica senza sistema



Una raccolta che restituisce gli anni giovanili, caotici, precari e densi di promesse, del pensatore tedesco. Testi brevi, talora brevissimi, scritti tra il 1916 e gli anni Venti

Massimiliano Palma

Il tempo eretico della logica senza sistema


Sono lacerti di scrittura che accompagnano la maturazione del Benjamin studente prima, dottorando poi, infine traduttore e saggista estraneo all'accademia. In un autore spesso messo all'indice per la sua «frammentarietà» - come se non fosse anche l'effetto di un destino di precarietà -, questi abbozzi di teoria gnoseologica e linguistica rivelano piuttosto l'ansia sistematica di una mente capace di pensieri abissali e di abbaglianti ipotesi teoriche: oltre l'oziosa dicotomia «frammento e sistema», vi si individua invece un percorso di ricerca unitario.

Il pregio del volume, oltre a quello, notevole, dell'inedita traduzione di brani che aspettano da troppi anni il volume promesso delle Opere complete einaudiane, è nella ricostruzione accurata, per opera di Tagliacozzo, della cornice dottrinaria in cui il tentativo benjaminiano si sviluppa: ove pesano con pari rilievo «l'influsso del pensiero di Kant e di Husserl, della logica matematica, della dottrina logica e messianica di Hermann Cohen e insieme della dottrina teologica ebraica che Benjamin recepisce da Scholem».

Paul Klee, Angelus Novus (1920)
















Il saggio decisivo Sulla lingua in generale e sulla lingua dell'uomo risulta criptico senza tener conto di questo sfondo, in cui il neokantismo - destino d'ogni studente tedesco dell'epoca, ma non da intendersi quale orizzonte omogeneo - si mescolava all'ebraismo attinto alle fonti più eretiche cui il giovanissimo Scholem stava attirando Benjamin. È nel peregrinare tra Berlino, Friburgo, Monaco e Berna, tra maestri come Rickert e Cohen, il meno noto Ernst Levy, che in Benjamin concresce un interesse teoretico indomito, stimolato dalle discussioni con Scholem e col sodale Noeggerath sui temi della fenomenologia più eterodossa (Tagliacozzo sottolinea i nomi di Paul Linke e di Geiger) fino agli studi di Frege e Russell su senso e significato. Come sottolinea Fabrizio Desideri nella densa prefazione, in gioco in questi frammenti è la definizione del «carattere sistemico» della verità e l'intrico di percezione e linguaggio nell'esperienza e quindi nella conoscenza, senza che la verità possa esser in qualche modo «intenzionata» («la verità è morte dell' intentio », recita il celebre fr. 27).

La mediazione tra verità e conoscenza resta solo simbolica - è un'esibizione del non comunicabile che ha fondamento nell'oggetto stesso e nel suggerimento di affinità che questo comanda, attraverso il nome, all'intenzione stessa. Anti-husserliana, contraria a ogni riduzionismo coscienziale che assorba nell'io trascendentale l'empirico, quella benjaminiana è un'attitudine che preserva le differenze, che le vuole salvare come tali , proprio attraverso il ribaltamento del rapporto concetto-linguaggio, che reca in primo piano la parola e ne fa schema di un'esperienza assoluta che è filosofia (fr. 19). La filosofia dev'essere esperienza capace di mostrare nel nome - punto-cardine genuinamente ebraico della dottrina benjaminiana della Sprache , come sottolinea Tagliacozzo - il margine di incomunicabile, di riottoso rispetto alla presa del concetto.



Ne emerge, giova ripetere la felice espressione di Desideri, l'«espressivismo» benjaminiano, una traccia di «esoterico relativismo» che assegna all'«ora della conoscibilità», detto in un nome (fr. 25), la pertinenza - e la responsabilità etica - di mostrare l'inespresso nel fenomeno che è oggetto di un interesse critico. Di qui, la curvatura di Kant nel senso di un'esperienza assoluta, che coincida paradossalmente con la dottrina stessa. Mediata dal linguaggio e quindi dalla percezione, quest'esperienza-dottrina si identifica col «compito infinito», ripreso e traslato da Cohen. Sarà l'applicazione di questa teoria, in cui vibra più di una traccia messianica, al fenomeno storico, nella chiave materialista qui soltanto in nuce (e solo teorica), a far sorgere il concetto di attualità ( Jetztzeit ) e con esso, una dopo l'altra, le tesi Sul concetto di storia .

Come denota la splendida citazione di Frege sui segni quali vele da sfruttare per navigare controvento, di cui Tagliacozzo ben rileva l'affinità con un brano assai più tardo del lavoro sui Passages , il pensiero di Benjamin mostra una singolare coerenza, un firmamento di costellazioni concettuali sempre arricchite, negli anni, ma sempre riconoscibili. Questa raccolta di frammenti, munita di un apparato dettagliato e esplicativo, ci restituisce l'officina degli anni di apprendistato di Benjamin, caotici, precari, carichi di promesse.
il manifesto | 30 Novembre 2013

BERLUSCA-GRILLO-RENZI


Guido Vitiello - Diario astrale 

Da IL FOGLIO del 30 novembre 2013

Due libri per comprendere la congiunzione politico-planetaria chiamata Renzi-Grillo-Berlusconi

Da quando Kant li dichiarò “scagionati di fronte al tribunale della ragione”, non possiamo più prendercela con i pianeti. Per secoli l’allineamento di tre corpi celesti, fenomeno piuttosto raro, fu letto come un presagio di catastrofi – la peste nera, il terremoto; ma le cause di quelle sciagure, diceva il filosofo, vanno cercate “sotto i nostri piedi”. Il guaio è quando i segni terrestri sono più oscuri dei celesti. L’8 dicembre, primarie del Pd, si annuncia una triplice congiunzione politico-planetaria, mai registrata nelle effemeridi nazionali: i capi dei tre grandi schieramenti che si erano spartiti l’elettorato lo scorso febbraio si troveranno, simultaneamente, fuori dal Parlamento. L’uno (Berlusconi) in quanto decaduto, l’altro (Grillo) in quanto azionatore di un giocattolo radiocomandato, l’altro ancora (Renzi) in quanto ammutinato del suo partito. Diverremo, chissà per quanto, una Repubblica a guida extraparlamentare, e ci toccherà ragionare sul grande problema di ciò che è dentro e ciò che resta fuori (e spinge per entrare, per trovare rappresentanza). Confesso di non avere, al riguardo, l’ombra di un’idea; solo due consigli di lettura un po’ visionari.
“Clic! Grillo, Casaleggio e la demagogia elettronica”, il nuovo pamphlet di Alessandro Dal Lago pubblicato da Cronopio, meriterebbe di esser letto anche solo per una pagina – quella che stabilisce una filiazione diretta tra il comico Bracardi (“In galera!”) e il professor Flores d’Arcais – e per una nota a piè di pagina in cui l’autore annuncia, per il 2014, un saggio contro la filosofia delle manette. Ma più che del mio tripudio di garantista, vale dar conto del ragionamento di Dal Lago sugli usi politici dell’indignazione, e sui modi in cui il populismo grillino tenta di combinare il dentro e il fuori, la rabbia diffusa e la sua rappresentanza pubblica. Il sentimento dell’indignazione è in sé impolitico, come tutti i sentimenti morali; ma il M5s – caso unico di un movimento controllato da un’azienda e da un blog – se ne ciba come un vampiro, succhiandolo dalla rete, e offre un “franchising” sotto cui ospitare le più varie (e incompatibili) incazzature nazionali, in una sorta di marketing del rancore. Trasformare l’energia morale grezza in influenza politica e in profitto aziendale, ecco la prodigiosa (e sciagurosa) alchimia di un movimento per il quale Dal Lago non esita a usare l’etichetta di “fascismo elettronico”.
Il secondo libro, “Napolitano dopo Napolitano” (Cooper), raccoglie alcuni interventi di Alberto Abruzzese apparsi sul settimanale Gli Altri, e lascia ammirati per il colpo di genio di accostare, in un solo giro mentale, la riforma costituzionale e YouPorn. Correlazione bizzarra, ne convengo, ma che in questa temperie di euforica disperazione mi pare, non so perché, stranamente ovvia. Abruzzese assicura che YouPorn, il sito di pornografia online dall’accesso libero e anonimo, vale più di qualunque saggio o sondaggio sul presente. Ne fa quasi una metafora del dentro e del fuori, dello scontro tra istituzioni tradizionali e pulsioni indisciplinate che premono alle loro porte, e che si sono manifestate finora attraverso tre ondate di barbari: le “bande emergenti e insieme frustrate” del localismo leghista, le “berlusconiane tribù dei consumi voluttuari” e quella “polvere di genti in cui c’è di tutto” che ha dato il suo primo vagito con il trionfo di Grillo. L’immaginifica intuizione che Abruzzese ne fa discendere, e che lascio al lettore scoprire, muove da uno scritto minore di Walter Benjamin, “Monopolio di stato per la pornografia” (1927).
Due favole – l’una cupa, l’altra più lieve – deliberatamente senza morale, e che anzi hanno per bersaglio costante la sterilità delle analisi moralistiche. E’ il mio equipaggiamento per la congiunzione politico-astronomica in arrivo.

di Guido Vitiello

LA BELLEZZA DELLA CULTURA CLASSICA


Salviamo la bellezza della cultura classica



I nostri licei sono invidiati nel mondo. Vanno migliorati non aboliti
Rimandati in latino

Maurizio Bettini
 “La Repubblica”, 30 novembre 2013
Il liceo classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo, per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – , potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire, ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma differente, più vicino alle esigenze culturali della società contemporanea. Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione, quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio, la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani,della loro organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra, diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari “zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui si mettono i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice “dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli studenti, per esempio, che il terminemonstrum “mostro” deriva da monere «far ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata. Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”, oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza, un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilità di dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni risulterebbe davvero irreparabile.

Il testo di Maurizio Bettini anticipato qui in parte appare integralmente nel prossimo numero della rivista “il Mulino”

LA SICILIA DI MARINELLA FIUME



Massimo Maugeri

La Sicilia esoterica di Marinella Fiume



Intervista all'autrice di Massimo Maugeri

Nata a Noto, Marinella Fiume, risiede a Fiumefreddo di Sicilia, cittadina di cui è stata sindaco per un decennio. Laureata in Lettere classiche presso l’Università di Catania, ha insegnato Italiano e Latino e ha svolto la funzione di supervisore di tirocinio presso la scuola di specializzazione per l’insegnamento secondario dell’Università di Catania. Studiosa di antropologia e medicina popolare, ha pubblicato vari saggi di settore; ha scritto alcune voci per il dizionario Italiane, progetto del dipartimento per le Pari Opportunità; ha curato il dizionario biografico illustrato Siciliane. Ha pubblicato romanzi e ha collaborato al libro a più mani Un lenzuolo contro la mafia – Sono vent’anni e sembra domani a cura di Roberto Alajmo.
Ha appena pubblicato il volume Sicilia esoterica. Alla scoperta dei miti e dei riti arcaici dell’isola del sole (Newton Compton).


Ne ho discusso con l’autrice…
- Cara Marinella, come sai sono sempre incuriosito dalle notizie riguardanti la genesi dei libri. Ti chiedo, dunque, di raccontarci come nasce “Sicilia esoterica”… Da quale idea, spunto, suggestione o esigenza?
Fino a pochi anni fa l’esoterismo veniva considerato una controcultura rivolta contro la modernità; gli intellettuali più avvertiti guardavano dall’alto in basso e se ne tenevano alla larga, per non parlare delle Università. Oggi il paradigma è mutato e l’esoterismo viene visto come l’erede di una lunga e ricca tradizione che ha alimentato per secoli la cultura europea e occidentale. L’interesse a un immaginario aperto al mito è anzi frutto del disagio davanti alla povertà spirituale di filosofi e teologi. Il francese Antoine Faivre è stato il primo a essere titolare di una cattedra di “Storia dell’esoterismo occidentale” come specialità all’interno della disciplina accademica “Storia della religioni”, all’École Pratique des Hautes Études, alla Sorbona. Questa cattedra è stata la prima in Europa, in seguito sono state costituite due altre cattedre, nelle università di Amsterdam e di Exeter in Inghilterra. In Italia questi studi, se prescindiamo dalla Psicologia archetipica, sono ancora agli albori, gli storici pensano che si tratti di un tema di scarso valore scientifico e presso il grande pubblico il termine esoterismo è legato ad occultismo e a tante manifestazioni negative, come il satanismo. In realtà, per semplificare, l’esoterismo postula l’esistenza di una tradizione primordiale di cui le varie tradizioni religiose sarebbero frammenti sparsi, più o meno autentici; in tal modo, l’interesse della storiografia si allarga a modi di pensare per lungo tempo emarginati e invece importanti per ricostruire la cultura di un’epoca. Proprio interessandomi ad un fenomeno poco studiato come il megalitismo siciliano, mi sono rafforzata nell’idea che niente meglio della Sicilia potesse prestarsi a una ricostruzione e a una narrazione in chiave esoterica.

- In che modo, in generale, l’analisi degli aspetti esoterici (e della simbologia a essi legata), può contribuire a far conoscere un luogo? E, in particolare, in che modo l’esoterismo può aiutarci a conoscere meglio la Sicilia?

L’isola è un organismo vivente dalla lunghissima storia, una creatura di pietre e stelle, di terra e cielo, un coacervo di saperi di lunga, lunghissima memoria e il suo presente trae senso da questo antichissimo passato; mito e storia ne costituiscono l’essenza. Non è facile comprendere l’essenza profonda della Sicilia, cosa che ho cercato di fare con questo mio libro, perché di essa spesso non ci rimangono che simboli. Non è poco, anzi, ma non è neanche facile cercare di decifrarne il senso nascosto e disseppellirne il significato. Si tratta di ricongiungere ciò che si vede con ciò che non si vede, ciò che c’è con ciò che non c’è più… ed è questo che ho cercato di fare.

- Immagino che tu abbia svolto un’attenta attività di ricerca, propedeutica alla scrittura del libro. Cosa puoi dirci da questo punto di vista?
Ti sembrerà strano, ma ho scritto questo libro in pochi mesi. Come è stato possibile, mi chiederanno i lettori, vista la miniera di informazioni che esso contiene? Perché, in realtà, questo libro l’ho sempre avuto in testa, l’ho covato per anni e mi rendo conto che tutti i libri che ho scritto prima non sono stati che particelle di quest’ultimo. Lo ha capito bene, questo, la mia editor della Newton Compton, Giusi Sorvillo, che mi ha prescelta e mi ha assegnato i tempi per la sua scrittura. Già da quando davo l’esame di Archeologia greco-romana all’Università di Catania, con il mio volumone dell’Arias sotto il braccio visitavo ogni plaga della Sicilia cercando di scoprire al di là di quanto lo studioso non dicesse. Una sorta di grand tour, un mio personale viaggio di formazione alla maniera dei viaggiatori del Sette-Ottocento. Il Ciaceri, poi, diventò una sorta di libro sacro per me. Ho capito ben presto però che questi strumenti non mi bastavano… E mi sono rafforzata in questa convinzione in occasione di un lungo colloquio con la psicoterapeuta junghiana di origine siciliana Bianca Garufi, nella sua casa siculo-giapponese a Trastevere. Ci eravamo ripromesse di fare un viaggio insieme in Sicilia, ma è mancata prima che potessimo sciogliere il voto. Intanto, sin dagli anni Ottanta, approfondivo lo studio delle tradizioni popolari jonico-etnee, di cui possiedo un discreto archivio, della Massoneria, del Mesmerismo e dell’omeopatia in Sicilia nell’Ottocento, mi sono imbattuta così nel fenomeno dello Spiritismo. Mi sono data allo studio dei simboli con la guida di Mircea Eliade, Frazer, Zolla e infine l’Archeoastronomia, una scienza relativamente giovane…

- In epigrafe hai scelto di inserire un passo tratto da “Alì Babà e i quaranta ladroni” da “Le mille e una notte”. Mi riferisco all’aneddoto del «Sesamo, apriti!». Perché questa scelta?
R. Per molte ragioni! Innanzitutto perché questo mio libro che può sembrare un saggio è in realtà il Cuntu dei cunti e basta sfogliare l’indice per accorgersi che ogni capitolo è una storia da cui scaturiscono altre storie. La Sicilia è sempre stata cerniera tra Oriente e Occidente per cui certi accostamenti non sono affatto peregrini. “Le mille e una notte” è un intramontabile romanzo dalle mille storie, raccolte a Bagdad nel 6° secolo da un anonimo; narra di un potente sultano che non crede nella fedeltà delle donne e per questo ogni giorno sposa una vergine, trascorre una notte con lei e la uccide il mattino dopo. Questo ciclo sconvolge tutto il regno fino all’arrivo di una straordinaria fanciulla, il cui nome è Sherazade, che ammalia il sanguinario marito grazie alla sua abilità di affabulatrice: gli racconta storie avventurose e incredibili per 1000 e 1 notte. Così io credo nella capacità del racconto di fermare la morte. Allo stesso modo, la favola di “Alì Babà e i quaranta ladroni”, tratta dallo stesso libro, è sinonimo del disvelamento iniziatico, dell’aprire una porta dietro l’altra di quella grotta scura che è la Sicilia delle tenebre per trovarvi, come per magia, la luce dei tesori che vi sono nascosti. Leggendo il mio libro come un percorso iniziatico, capitolo dietro capitolo, consentiamo al lettore di scoprire una Sicilia di pura luce, aprendo successive porte, gesto che simbolicamente corrisponde allo svelamento di verità nascoste, di sensi occulti. Scopriamo così una successione di mondi, connettiamo ciò che si vede con ciò che non si vede, fino a cercare di raggiungere l’ “anima mundi”, cioè il punto di vista esoterico. Una sorta di viaggio del pellegrino che procede verso Oriente.

SU BUKOWSKI E IL NICHILISMO AMERICANO



Bukowski, o del nichilismo americano
Per una lettura di Ham on Rye di Charles Bukowski

di  Gianmarco Pinciroli
«Un giorno – dissi a Jan – quando scopriranno che il mondo ha quattro dimensioni invece delle solite tre, si potrà andare a fare una passeggiata e sparire. Niente funerali, niente lacrime, niente illusioni, niente inferno e paradiso. La gente dirà, “Che cosa ne è stato di George?” E qualcuno risponderà, “Be’, non so. Ha detto che andava a prendere un pacchetto di sigarette”».
Charles Bukowski

Una salvifica dannazione
Charles Bukowski ha passato l’intera sua vita di scrivente a scrivere della sua possibilità di scrittura, del fatto cioè che in lui giaceva ora sepolta ora manifesta una sorta di salvifica dannazione, che lo portava nell’oggi di ogni suo giorno di vita a domandarsi non tanto il senso del suo Esserci, o non così direttamente, quanto il senso del suo bisogno di testimoniarlo(1).
Il personaggio alter-ego(2) (Henry “Hank” Chinaski) del romanzo di Bukowski oggetto privilegiato di questa nota, e di molte altre pagine sparse nella sua immensa opera in prosa e in versi, ha comprato e quindi – così ci racconta – impegnato al Banco dei Pegni un numero incalcolabile di macchine da scrivere tra gli anni cinquanta e gli anni settanta, poi non ha avuto più bisogno di impegnare i ferri del mestiere, poiché ha cominciato ad avere successo, è passato alla macchina elettrica, infine al computer e negli anni ottanta è dunque ‘diventato’ uno ‘scrittore’, riconosciuto come tale, invitato a letture di poesia, tradotto in tutto il mondo, intervistato, e in qualche caso persino trattato come una sorta di maître à penser, che poteva fare su qualsiasi argomento qualsiasi affermazione, anche insensata, poteva ubriacarsi durante una trasmissione televisiva e andarsene seduta stante, poteva permettersi di recitare, o forse vivere, il lusso di un disagio della civiltà che diventa, a certe condizioni molto privilegiate, spettacolo come qualsiasi altro fenomeno apparentemente conturbante. Probabilmente, il caso Bukowski è l’archetipo del nichilista americano contemporaneo(3).

Ne ha tutte le caratteristiche. Se assumiamo come provvisorio elemento definitorio di nichilismo il disvalore di tutto ciò che la maggioranza assume come valore(4), allora il non-lavoro, la pura sopravvivenza, il principio di piacere opposto a qualsivoglia principio di realtà, l’assunzione di fumo e alcool oltre i limiti della sopportazione fisica fino al suicidio che tale sovradosaggio accusa e rivela, la marginalità sociale totale, la piena assenza di progettualità lavorativa ed affettiva, il gioco dei cavalli come fonte di sostentamento in occasionale alternativa alle occupazioni precarie più umilianti che il mercato del lavoro possa offrire, e ancora tutto quanto l’immaginazione di chi legge può accumulare accanto e dentro una tale scelta esistenziale, ebbene, tutto questo Bukowski lo è stato, lo ha vissuto, lo ha scelto, ne è stato scelto, lo ha difeso e lo ha persino legittimato e giustificato, e non se n’è mai nemmeno pentito, portando come collante di una tal scelta di vita il suo disprezzo per la natura umana nel suo complesso(5), per tutti i suoi simili dunque, per se stesso anche e soprattutto, insomma avanzando come bandiera e come ideologia la sua radicale, convinta misantropia e misoginia. Ma con un tratto in più rispetto a tutti i milioni di disperati che condividono con lui un tale tipo di vita per interi decenni nelle più diverse città d’America, soprattutto comunque nel macrocosmo multietnico di Los Angeles, un tratto in più che ne fa nientemeno che il testimone di una condizione di vita non soltanto storicamente determinata, ma probabilmente rinvenibile in luoghi e tempi anche molto diversi dall’America degli anni del secondo conflitto mondiale e del secondo dopoguerra. Infatti, e contro tutte le aspettative rispetto a una scelta esistenziale di questo genere, Charles Bukowski scrive.


L’’autenticità’ americana: la filosofia del non
La sua biografia ci informa del fatto che, prima di tutto, il giovane Bukowski legge, legge di tutto e legge di nascosto, e leggendo al lume della lampada tascabile di nascosto dai suoi genitori scopre un mondo che lo danna per sempre. Poiché il fatto di farsi raccontare delle storie è fin da subito sostitutivo nei confronti di una vita che non vive, che non può vivere: la sua eccezionale bruttezza fisica, il non meno eccezionale sfogo d’acne sul volto e su tutto il corpo durato per anni, proprio quelli in cui s’impiantano le strutture relazionali che poi varranno per tutto il resto della vita, la particolare natura patologica del nucleo familiare (tedeschi immigrati di seconda generazione) in un’America sempre molto diffidente nella sua accoglienza verso chi non è WASP, tutto questo naturalmente spiega l’estrema difficoltà nel modo di percepire il mondo incontrata da questo ragazzo, poi da questo giovane, e infine da questo uomo diventato adulto in queste condizioni. Charles Bukowski, però, non diventa un malato di mente, o un serial killer, o altro tipo di disagiato sociale da rinchiudere affinché non turbi i corpi e le menti di coloro che si considerano ‘normali’. Bukowski diventa uno scrittore. Uno scrittore americano, ossia un tipo ‘particolare’ di scrittore.
In Europa, affermerà più tardi, se n’è perso un po’ lo stampino, dopo Céline, di questo tipo di scrittori. Questo spiega il suo odio caldo caldo per tutti gli intellettuali, i giornalisti, i professori d’università, gli scrittori laureati. Scrivere, per Bukowski, significa denunciare il proprio perfetto sradicamento sociale, lo scrittore è inadatto alla vita comune, non di meno non intende rifugiarsi in una torre d’avorio, Bukowski non è Mallarmé, Bukowski ama davvero le puttane, i giocatori incalliti e gli alcoolizzati come lui, e non so se si può azzardare un paragone tra la Méry Laurent di Mallarmé, l’assenzio di Verlaine e Charles Bukowski. Forse è più vicino a Bukowski un tipo come Baudelaire, che quanto a stravizi e puttane non scherzava affatto. Però erano altri tempi, Baudelaire amava Wagner, i pittori, Poe (altro nichilista americano assai più vicino al Nostro di quanto si creda), e Bukowski?
Bukowski consuma, dal canto suo, immense quantità di musica classica alla radio (Mahler, Bruckner, Brahms i suoi compositori preferiti), legge Norman Mailer, Hemingway, e conosce tutti gli europei che contano qualcosa, ma li liquida per la gran parte, considerandoli poco ‘autentici’. Chissà se il parametro dell’’autenticità’ può essere assunto senza discutere per descrivere le sue simpatie e i suoi disgusti? Sembrerebbe di sì, secondo lui, il che però farebbe fatalmente del Nostro un ingenuo, considerata l’estrema scivolosità di un tale parametro di giudizio. A meno che non si riesca a dedurre dai suoi giudizi che cosa intenda mai dire assumendo un tale parametro.

Per Bukowski l’’autenticità’, come tradizione americana vuole, coincide con la ‘vita’ e, sul piano letterario, con una forma ‘indiscutibile’ e irrevocabile di ‘realismo’. Anche Ginsberg afferma di stare bene attaccato alla realtà dei suoi tempi, e ci riesce, eccome, almeno per tutti gli anni cinquanta-sessanta, e Bukowski in più di un’occasione, parlando di Ginsberg, ne ha riconosciuto il valore.
Anche Kerouac ha pensato della propria scrittura questo giudizio, e molti altri – Bukowski non lo nega – in terra americana hanno seguito questa sirena pararealistica, ma poi tutti, chi più chi meno, hanno – secondo Bukowski – per così dire tradito, si sono ‘laureati’ scrittori, si sono istituzionalizzati e si sono perduti nei fumi del successo fasullo o della vanità o del denaro facile.
Che cos’è allora l’autenticità per Bukowski? L’autenticità, sembrerebbe di poter dire, è il grado zero, il grado zero donde si diparte tutto il valoriale metafisico possibile: è il ‘non’ fatto precedere a tutto ciò che il senso comune riconosce come alcunchè di ‘positivo’, è il non-lavoro come terra da cui si dipartono i gradini di un buon lavoro, è la non-letteratura come luogo di impiego del tempo in cui si scrive esattamente ciò che si vive, o illudendosi che la corrispondenza scrittura-realtà si realizzi così, è la non-relazione come cominciamento di una presa in carica problematica dell’alterità che si pone il compito di ricostruire l’umano, perché a questo punto, in terra di quotidiano nichilismo, nessuno sa più bene che cosa sia l’umano e che cosa non lo sia(6).
Può darsi che questa esigenza di autenticità abbia qualcosa di inconsapevolmente fenomenologico, certo la somma di tutto l’autentico bukowskiano può compendiarsi nella formula classica del non-sapere, come fondamento però di un’esistenza che gioisce del proprio referente infondato, della propria casualità d’appartenenza, dell’arbitrarietà con cui decide, sceglie, si abbandona.
Ecco: il tema dell’abbandono; il tasso alcolemico sempre molto elevato dei personaggi di Bukowski non consente loro di assumersi, come si dice, responsabilità, donde l’emergere di un’etica del non-agire, del non-decidere, del non-scegliere, del lasciar essere che le cose siano come sono, ed esse sono come accadono, ed esse accadono per come vengono lasciate o fatte accadere dagli altri. Il non-intervento coincide fatalmente coll’agire degli altri, con la somma delle scelte, delle decisioni e delle responsabilità degli altri, con l’accettazione deliberata di subire il mondo e la vita, di vivere all’insegna della passività, al fine di conseguire in essa proprio in questo modo l’ occasione di un ultimo rifugio.



Un solo, piccolo passo fuori dal nichilismo
L’occasione di un ultimo rifugio riscatta Bukowski dall’abiezione che, altrimenti e per tutto il resto, lo accomuna al fallimento generale; infatti, la dannazione che lo segna, la stessa di tutti gli altri rifiuti della società losangelina, trova espressione, si manifesta in tutto il suo orrore, in tutta la sua nuda, accecante libertà, in tutta la sua insensatezza inebriante e inebriata: Bukowski scrive.
La salvezza: non è propriamente la sua intenzione, un prodotto volontaristico di un progetto di lunga gittata, che in Bukowski non ha luogo ad essere. Ma la sua effettuale scrittura narrativa e poetica è testimonianza di una forma della salvezza; essa parla per tutti, denunciando la tracotanza dell’America, forse più in là la presunzione di superiorità dell’occidente (di cui gli USA sono un’incarnazione, probabilmente ultimativa), forse addirittura l’insensatezza della forma più generale della mondità del mondo giunta in fondo al secondo millennio della sua discutibile storia di occidentale dominio.
Il successo di questo autore che odia uomini donne e successo, che vorrebbe restare totalmente incognito, che si accontenta di quanto basta per sopravvivere decentemente e detesta il superfluo, forse si spiega esattamente così, nella misura in cui la sua parola interpreta un sentire al tempo stesso comune e altro dal senso comune, consentendo a tutti i suoi lettori al tempo stesso di guardare negli occhi l’imperante opulenza del nichilismo contemporaneo e di sentirsene fuori nel giudizio che se ne può dare per quel tanto che se ne riconoscono comunque partecipi: un solo, piccolo passo fuori dal nichilismo.

Scrivere equivarrebbe oggi, dunque, a questo piccolo passo?(7)

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Note
(1) L’ipotesi generale, di natura teoretica, che sottende questo lavoro è che, sotto la superficie salvifica della scrittura, si nasconda la salvaguardia dell’identità che lotta contro il nichilismo radicale della modernità (americana, europea, occidentale), connotante sia l’ambiente in cui vive l’uomo contemporaneo sia la reattività, immediata e non riflettuta, di chi ne subisce per lo più inconsciamente l’azione. L’atto di scrittura diventa salvifico nella misura in cui porta a piena coscienza questa condizione generale. Si spiega in tal modo il giudizio negativo di Bukowski su molti colleghi scrittori più o meno a lui contemporanei: esso consiste proprio nell’accusa loro rivolta di non essere affatto in grado di ‘affrontare’ la realtà, per lo meno quella, apparentemente estrema e in realtà solo l’altra faccia di quella levigata e ufficiale, nella quale si trova (per scelta, in gran parte) lui a vivere. “Stai solo cercando di sfuggire la realtà”, disse Becker. “Perché non dovrei?”. “Non diventerai mai uno scrittore, così. I veri scrittori l’affrontano, la realtà.” “Ma cosa dici? È proprio quello che non fanno mai!”. (Charles Bukowski, Ham on Rye, Black Sparrow Press, 1982 [trad. it. Panino al prosciutto, Milano, Sugarco, 1990, p. 298])
(2) Si apre – lo notiamo en passant – il consueto problema riguardante la relazione presuntivamente autobiografica tra le vicende attribuite da uno scrittore al personaggio (o all’Io Narrante, come spesso accade in Bukowski) e quelle accadute realmente all’autore. Senza pensare di potere in queste poche pagine anche solo impostare, men che meno risolvere, la questione rispetto a Bukowski, si ponga comunque attenzione al fatto che nelle interviste (una per tutte, la più famosa per noi italiani, quella condotta da Fernanda Pivano nell’agosto del 1980 e pubblicata da Feltrinelli nel 1982 col titolo Quello che importa è grattarmi sotto le ascelle) molti degli aneddoti e delle considerazioni che vi si leggono sono pressochè identici a fatti narrati qui e là nel romanzo in oggetto. Aggiungiamo che, oltre a Ham on Rye [Panino al prosciutto], tutto impegnato a descrivere infanzia e adolescenza di Bukowski, una probabile ‘autobiografia’ dell’autore è contenuta anche in Factotum, 1975 [Factotum, SugarCo, 1979], Post Office, 1971 [Post Office, SugarCo, 1981] e Women, 1978 [Donne, SugarCo, 1980], opere che descrivono giovinezza e adultità dell’autore.
(3) Qualche chiarimento di metodo. Mantenendo provvisoriamente ferma (provvisorietà ribadita nel testo) la definizione nietzscheana dei Frammenti postumi (“Nichilismo: manca il fine; manca la risposta al ‘perché?’; che cosa significa nichilismo? – che i valori supremi si svalorizzano.”), e suggerendone come complemento necessario il commento heideggeriano (corso universitario friburghese del secondo trimestre del 1940, ora in Il nichilismo europeo, Milano, Adelphi, 2003), qui si è scelto di assumere in qualità di campione di un ipotetico nichilismo tutto statunitense Bukowski piuttosto che Henry Miller, o Hemingway, o Philip Roth, o Foster Wallace, o altro nome, sia per una qualche più evidente (o più semplificata) esemplarità rispetto all’ipotesi qui discussa di un tale nichilismo, sia anche per dare un piccolo contributo alla scarsa letteratura critica (almeno italiana) che, riteniamo, lo dovrebbe riguardare con maggiore attenzione, e che sembra configurare una frettolosa e ingiustificata liquidazione del personaggio.
(4) Bukowski ovviamente non è Nietzsche, e men che meno Heidegger. Il suo lavoro di scrittore intende valere, e qui come tale lo assumiamo, come semplice testimonianza. Il nichilismo che Bukowski è in grado di testimoniarci attraverso i suoi personaggi è il risultato di un’esperienza vissuta al limite di ogni valorialità che il conformismo, non solo statunitense, vorrebbe invece, come sempre, assoluta e indiscutibile. Cosicchè la qualifica di ‘nichilistico’ deve poter riguardare sia il modo di vivere ufficiale, nella fattispecie l’american way of life, sia il modo di vivere reattivo ed estremo di un personaggio come quelli messi in scena da Bukowski, che però, nella sua negatività, costituisce, adornianamente, l’unica testimonianza autentica possibile. “Non avevo interessi. Non riuscivo a interessarmi a niente. Non avevo idea di come sarei riuscito a cavarmela, nella vita. Agli altri, almeno, la vita piaceva. Sembravano capire qualcosa che io non capivo. Forse ero un po’ indietro. Era possibile. Mi capitava spesso di sentirmi inferiore. Volevo solo andarmene. Ma non c’era nessun posto dove andare. Il suicidio? Gesù Cristo, un’altra faticata. Avevo voglia di dormire per cinque anni di fila, ma non me lo permettevano.” (ivi, p. 202)
(5) “Non valeva la pena di aver fiducia negli esseri umani. Qualunque cosa fosse, a dar fiducia, gli esseri umani non ce l’avevano.” (ivi, p. 165)
(6) Il Novecento letterario ha ampiamente dubitato della possibilità di definire l’umano, ossia ciò che è reperibile come tratto distintivo dell’umano. Un tratto nichilistico così deprimente come quello che qui segue, ai margini suicidari dell’abiezione, va clamorosamente contro il caratteristico ottimismo del ‘pensare positivo’ statunitense, germinato dall’ideologia pioneristica della Frontiera e migrato con immenso successo nella forma che, da almeno un secolo e mezzo, ha assunto negli Stati Uniti la forma di produzione capitalistica, forma peraltro testimoniata proprio nei testi di Bukowski in cui si tratta il tema, sicuramente autobiografico, del lavoro. Lo sguardo velenoso che Bukowski getta sulla società civile che lo circonda è anche un giudizio spietato sui risultati antropologici e sociologici che costituiscono, a livello di mentalità comune diffusa, la democrazia di massa in cui si è trovato a crescere e a vivere. “La gente era limitata e diffidente, tutta uguale. E io devo vivere con queste teste di cazzo per il resto della mia vita, pensavo. Dio mio, ce l’avevano tutti il buco del culo, e il sesso, e la bocca e le ascelle. Cacavano, chiacchieravano, ed erano tutti scemi come biglie. Le ragazze sembravano carine, da lontano, col sole che brillava nei vestiti, nei capelli. Ma bastava avvicinarsi e ascoltare l’anima che usciva dalla loro bocca, e veniva voglia di scavarsi un buco e seppellircisi dentro con una mitraglia. Di certo non sarei mai stato felice, non sarei mai riuscito a sposarmi, a fare dei figli.” (ivi, p. 283)
(7) “Per quelli di voi che non hanno potuto ascoltare il presidente, leggerò ora il tema di Henry Chinaski”. “E così, ecco che cosa volevano: bugie. Belle bugie. Ecco di cosa avevano bisogno. La gente era stupida. Avrei avuto buon gioco, io. […]”. (ivi, pp. 93-94). Cfr. anche in Quello che importa…, cit., le pp. 97-99, nelle quali viene raccontato e commentato lo stesso aneddoto che, a questo punto, possiamo considerare ‘fondante’ la scrittura di Bukowski. E’ dunque questo il passaggio della biografia esistenziale di Bukowski in grado di testimoniare il senso di una vocazione, la sua funzione salvifica, ma anche i suoi inganni più tradizionali, legati alla scivolosa deriva di malafede tipica della moderna riflessione sulla Letteratura (si veda ad es. il Barthes di Grado zero della scrittura). La scoperta di sé come scrittore, dunque, al tempo stesso salva Bukowski come individuo dall’avvilente omologazione rispetto alla massa, ma lo pone, d’altro canto, fin da subito di fronte al rischio mortale (si veda in Compagno di sbronze il racconto ‘Tutti grandi scrittori’) di porsi, proprio attraverso lo strumento della propria salvezza, al servizio di un sistema che di quella stessa omologazione è responsabile. Si veda anche in Quello che importa…, cit.: “[…] hai ragione, scrivere non è per niente un lavoro. E quando la gente mi dice com’è faticoso scrivere non capisco, perché… E’ come rotolare giù da una montagna, capisci. È liberatorio. È piacevole, è un volo, e si viene pagati per fare quello che si vuol fare.” (p. 56).
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FONTE:http://rebstein.wordpress.com/2013/11/30/bukowski-o-del-nichilismo-americano/

29 novembre 2013

JOSEPH BEUYS: fai amicizia con la libertà e l'insicurezza...


Ho conosciuto J. Beuys più di trent'anni fa a Gibellina. Corrao aveva allestito una delle   prime Mostre che si tenevano in Italia delle originali opere dell'artista ecologista tedesco. Allora non sapevo nulla di Beuys, ma rimasi egualmente colpito dalla sua straordinaria  potenza espressiva.
 Nella poesia che pubblico oggi, prendendola dal sito http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/ , si trova una chiave per comprendere la  sua poetica e il suo stile di vita.


Anleitung zum guten Leben - Manuale della buona vita

Lass dich fallen, lerne Schlangen zu beobachten.
Pflanze unmögliche Gärten.
Lade jemanden Gefährlichen zum Tee ein.
Mache kleine Zeichen, die “ja” sagen
und verteile sie überall in deinem Haus.
Werde ein Freund von Freiheit und Unsicherheit.
Freue dich auf Träume.
Weine bei Kinofilmen.
Schaukle so hoch du kannst mit einer Schaukel bei Mondlicht.
Pflege verschiedene Stimmungen.
Verweigere dich,’ verantwortlich zu sein’ – tu es aus Liebe!
Mache eine Menge Nickerchen.
Gib Geld weiter. Mach es jetzt. Es wird folgen.
Glaube an Zauberei, lache eine Menge.
Bade im Mondschein.
Träume wilde, fantasievolle Träume.
Zeichne auf Wände.
Lies jeden Tag.
Stell dir vor, du wärst verzaubert.
Kichere mit Kindern, höre alten Leuten zu.
Öffne dich, tauche ein. Sei frei. Preise dich selbst.
Lass die Angst fallen, spiele mit allem.
Unterhalte das Kind in dir. Du bist unschuldig.
Baue eine Burg aus Decken. Werde nass. Umarme Bäume.
Schreibe Liebesbriefe.

 




Manuale della buona vita

Fatti cadere, impara ad osservare i serpenti.
Pianta giardini impossibili.
Invita qualcuno di pericoloso a bere un tè.
Fai piccoli segni che dicono di si
e distribuiscili per tutta la casa.
Fai amicizia con la libertà e l’insicurezza.
Rallegrati dei sogni.
Piangi al cinema.
Al chiaro di luna, vai sull’altalena più in alto che puoi.
Coltiva stati d’animi diversi.
Rifiutati di sentirti “responsabile”, fallo per amore!
Non dimenticare di fare il pisolino.
Regala soldi. Fallo subito. Ritorneranno.
Credi nella magia, sii pronto a ridere.
Fai un bagno nel chiaro di luna.
Sogna sogni selvaggi, fantasiosi.
Dipingi su tutti i muri.
Leggi ogni giorno.
Immagina di essere incantato.
Ridi insieme ai bambini, ascolta i vecchi.
Apriti, immergiti. Sii libero. Fai le lodi di te stesso.
Fai cadere la paura, gioca con tutto.
Intrattieni il bambino in te.
Sei inocente.
Costruisci un castello di coperte.
Bagnati.
Abbraccia gli alberi.
Scrivi lettere d’amore. 


Joseph Beuys

Traduzione di Stefanie Golisch