06 dicembre 2024

L' IMMAGINAZIONE ANTICOLONIALE DI GRAMSCI

 



OBLÌO E UTOPIA DEL MERIDIONALISMO
La narrazione dominante è quella delle classi dominanti.
Quella di Gramsci è una contronarrazione del Sud

📚R. Lumley, J. Morris (a cura di)
“Oltre il meridionalismo. Nuove prospettive sul Mezzogiorno d'Italia“, Carocci, 1999

📌La realtà del Sud è stata considerata quasi esclusivamente attraverso la lente dell'arretratezza non solo economica e politica, ma anche sociale, civile e culturale. Negli ultimi anni, tuttavia, una nuova generazione di storici si è impegnata a rielaborare la storia del Mezzogiorno e a suggerirne una lettura più articolata, anche alla luce delle sollecitazioni provenienti dall'antropologia e dalla sociologia, dall'economia e dalla storia letteraria, dalla demografia e dai "cultural studies". Il libro affronta argomenti classici come l'economia del latifondo, la criminalità organizzata o la struttura del potere locale, ma anche la costruzione dell'identità meridionale e la nascita degli stereotipi sul Sud. / #subalternstudiesitalia

GRAMSCI E L’IMMAGINAZIONE ANTICOLONIALE
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Pur non avendo mai esplicitamente offerto una definizione di «colonialismo interno», la riflessione sul ruolo subalterno della Sardegna e del Meridione nei rapporti di potere instaurati in Italia attraversa e anima tutta la produzione di Antonio Gramsci, dai suoi scritti giovanili alle ultime elaborazioni durante la sua lunga prigionia sotto il regime fascista. Al cuore del suo lavoro Gramsci adotta costantemente un’immaginazione anticoloniale, che caratterizza il suo tentativo di risituare il sud, l’Italia e il terreno della lotta politica nella cornice più ampia dello sfruttamento e della resistenza su scala globale.
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Carmine Conelli, cit. da Langley Thomas J., ‘Victims of the Same Destiny’: Italy in the Postcolonial, the Postcolonial in Italy, Tesi di dottorato, Newcastle University, 2015

05 dicembre 2024

A COSA SERVONO GLI INTELLETTUALI OGGI?

 


Giulio Silvano, In quest’epoca di tiranni e fanatismi, l’intellettuale serve ancora? Domande

 Il Foglio, 4 dicembre 2024

A cosa servono gli intellettuali? E soprattutto, a cosa servono gli intellettuali oggi? Hanno ancora i mezzi per avere un ruolo efficace nella società? Un modo per cercare di rispondere a queste domande eterne – ma allo stesso tempo specifiche del nostro tempo – è andare a guardare al ruolo di alcuni intellettuali del Novecento, e accorgerci se le sfide poste nel Ventesimo secolo sono diverse da quelle che ci siamo posti all’inizio del Ventunesimo. E anche se alla fine di tutto ci restano in mano più risposte o più domande. A portare avanti questo processo ci ha pensato lo storico David Bidussa nel libro Pensare stanca (Feltrinelli). Sulla copertina, esemplificativo, un Albert Camus che sembra sorridere tenendosi una mano sul volto in uno degli uffici della rivista NRF, e che sembra dire: “Chi me l’ha fatto fare, di pensare”. Ci sarebbero mille modi per parlare di questo libro di Bidussa, che è denso come sono densi gli affreschi rinascimentali, dove al posto di simbologie e richiami ai precursori abbiamo citazioni da sottolineare a penna e bibliografie da aggiungere compulsivamente al carrello Amazon. Ma un modo forse utile per leggere il libro – più utile di altri in questo periodo di allarmi sulle democrazie in pericolo, da Trump all’est Europa – è quello di leggere il tratto comune delle figure che Bidussa esplora, da Walter Benjamin ad Amos Oz, e cioè quello della sete di libertà che contraddistingue il vero intellettuale, l’allergia al fanatismo. Non è più tempo di essere ospiti dei tiranni, il pensatore può lavorare senza padroni, il pensatore può diventare bandiera di libertà politica. L’intellettuale è quindi colui che pensando cerca di fare la differenza nella realtà.
Siccome gli intellettuali Bidussa se gli è masticati ben bene negli anni, a suon di prefazioni e curatele e studi attenti, qui ha districato la sua costellazione accademica riportandoci all’essenziale delle menti influenti per capire cosa sia questa libertà di cui parliamo tanto. Senza cedere in facili wikipedizzazioni, l’autore ci fa trovare faccia a faccia con Hannah Arendt, Simone Weil, Victor Serge, Ignazio Silone, Furio Jesi, Nicola Chiaromonte. Persone che a un certo punto, anche nel percorso personale e non solo filosofico, hanno dovuto scegliere tra la parresia* e la sopravvivenza (fisica e professionale). Persone per cui idee e vita combaciano. L’opposizione prima alle destre nazionaliste e poi la critica allo stalinismo, al sistema di oppressione sovietico che ha allontanato le migliori menti della sinistra dai partiti comunisti europei, sono una chiave per capire cosa vuol dire essere intellettuali (l’antistalinismo emerge come la vera sofferta patente di libertà per i pensatori della gauche, spesso costretti dai capipartito a sottostare all’accettazione delle purghe).
Oggi viviamo in una “condizione di orfanità di pensiero”, scrive Bidussa, in un tempo “al massimo capace di esprimere ‘stelline’ o intellettuali autoriferiti che si autopromuovono, ma non inquietudine”. Per citare Susan Sontag, nel 1937 Hemingway, Orwell, Malraux, Weil partirono per la Spagna col fucile in spalla, adesso invece sembra esserci un “fallimento di coscienza”. Con il crollo del Muro si pensava di arrivare a un futuro senza barriere e, dice Bidussa, “alcuni si sono convinti che non fosse più necessario sognare, ma solo vivere”. Forse alla fine, “la dimensione dell’intellettuale è quella di un ragionevole pessimismo”, soprattutto nell’èra “post-ideologica” dove è difficile sia essere i “dissidenti impegnati” del primo Novecento che i guardiani della libertà del secondo. Ma nonostante questo, anche se pensare stanca, “ne vale la pena”.

03 dicembre 2024

SI PRESENTA A PALERMO IL NUOVO LIBRO DI GINO PANTALEONE


 

UNA MOSTRA POCO FUTURISTA

 


Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909


Alessandro BeltramiSul futurismo una mostra poco futurista
Avvenire, 2 dicembre 2024

È complicato visitare la mostra sul Futurismo che oggi apre al pubblico a Roma cercando di concentrarsi soltanto su quanto si vede, sul progetto espositivo, sulle opere e lasciando sugli scalini della Galleria nazionale di arte moderna tutto quanto l’ha preceduta. Arduo lasciare da parte la vicenda politica e mediatica (e ben poco culturale) che ha accompagnato fin dall’inizio “Il tempo del Futurismo” (un tempo brevissimo almeno dal punto di vista espositivo: chiuderà il 28 febbraio, una finestra davvero esigua per un progetto nato e dichiarato ambizioso, in un momento tra l’altro in cui le mostre hanno lunghe teniture – ma, come qualcuno forse ricorderà, lo mostra doveva aprire a ottobre) e che non serve qui riassumere. Basterà osservare che era difficile che non finisse così, viste le premesse che affondano nel dirigismo “Italy first” (Tolkien a parte) dell’ex ministro Sangiuliano, oggi riemerso per ricordarci di essere un entusiasta biografo trumpiano, e in un pressapochismo nella gestione della componente organizzativa, a partire dall’incapacità di costruire un comitato scientifico.

Quella sul Futurismo era stata annunciata subito come mostra programmatica di un corso governativo e di un rilanciato orgoglio nazionale (e così è avvenuto ieri in una conferenza stampa che ha visto presenziare il ministro della Cultura Alessandro Giuli, il presidente della commissione cultura della Camera Federico Mollicone e Massimo Osanna, capo della Direzione generale Musei), ma profumava assai più di bandiera della revanche di una destra intenta a costruire una nuova egemonia presto rivelatasi piuttosto una endogamia culturale. Una mostra forse anche frutto di un malinteso e di ingenuità: il Futurismo non ha certo più bisogno di riabilitazioni, semmai di studio e divulgazione. Ma il peccato originale di questa mostra, in un ultima analisi, sta nell’essere stata di fatto organizzata e gestita direttamente dal ministero della Cultura, come se fosse l’assessorato di un comune qualsiasi.


Una sala della mostra “Il tempo del Futurismo” alla Galleria Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma - Ansa/Maurizio Brambatti

Dunque, in tutto questo marasma, che mostra ha preparato il curatore Gabriele Simongini? La chiave dichiarata è nella relazione tra arti, scienza e tecnologia che caratterizza “il tempo del Futurismo” e che lo avvicinerebbe al nostro presente sottoposto, scrive Simongini, allo «tsunami tecnologico dell’intelligenza artificiale» che avvera «la profezia della macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata proprio dai futuristi». La mostra è oggettivamente gigantesca, con 350 tra opere, progetti, disegni, oggetti d’arredo, film e un centinaio fra libri e manifesti, insieme a automobili, motociclette e strumenti scientifici dell’epoca e un modello in scala reale dell’idrovolante Macchi-Castoldi M.C.72, con cui Francesco Agello nel 1934 ottenne il record del mondo di velocità (709 chilometri orari), ancora imbattuto. In questo senso Simongini introduce come figura centrale Guglielmo Marconi, considerato come un futurista – forse un po’ forzatamente: tutti gli scienziati e i tecnologi lo sarebbero stati, ma certamente le sue apparecchiature restituiscono il brivido di un’epoca di pionieri.

L’idea è giusta, ma l’allestimento fatica a restituirla. L’unica sala in cui questo si compie in maniera efficace è la prima, in cui vengono accostati i precedenti divisionisti del Futurismo ma soprattutto viene istituito un rapporto visivo diretto tra Il Sole di Pellizza da Volpedo (1904) e Lampada ad Arco di Giacomo Balla (1911), giunta dal MoMA di New York, dove il lavoro comune sulla luce si sposta simbolicamente e graficamente dal naturale all’artificiale, dal mondo rurale alla città. Accanto, una lampada ad arco francese dei primi del Novecento. Poi la mostra si diluisce e si perde. Un problema essenziale è dato dagli spazi troppo grandi e iper-illuminati della Gnam per opere che soprattutto nella prima parte hanno dimensioni esigue e borghesi (meglio sarebbe stata una sede espositiva più contenuta e articolata come le Scuderie del Quirinale), che schiacciano la mostra in particolare nelle fasi iniziali costretta a riempire le sale in modo un po’ confuso. Ma soprattutto non c’è un guizzo nella scansione omogenea e priva di brio delle pareti, sulle quali un quadro è appeso invariabilmente ogni 60 centimetri, e dove le poche opere maggiori sono disperse tra i molti quadretti. Mentre la pannellistica anodina e burocratica non prova neppure (ma quando lo fa è davvero discutibile) a recuperare l’energia anarchica e strafottente della grafica futurista, questa invece sì ben documentata nelle molte edizioni in mostra. Per quanto riguarda l’accostamento tecnologia e arte, è difficile non notare come nel grande salone, senza dubbio spettacolare, le automobili e le motociclette oscurino e divorino i quadri alle pareti. Tra l’altro quasi nessuno di questi improntato al tema della velocità: tutti i lavori astratti di Balla sul movimento li troviamo in una sala successiva, dedicata all’intonarumori. Coerente invece la sala sull’aeropittura (ma in generale il secondo Futurismo è meglio rappresentato del primo), costruita attorno all’idrovolante.
La mostra in sé è onesta e tutto sommato esaustiva del mondo futurista, con molti nomi di secondo e terzo piano a testimoniare la vastità del fenomeno, ma non appare di portata internazionale come nelle intenzioni. Inoltre, ed è un pregio, evita secche ideologiche. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione che anche con lo stesso materiale, abbondante ma non sempre entusiasmante, sarebbe stato possibile suggerire un percorso differente. Sarebbe bastato osare con più libertà, sovvertendo la consequenzialità cronologica e riavvolgendo più volte il tempo su se stesso per proiettarlo, davvero futuristicamente, di nuovo in avanti.

 


AMMINISTRAZIONE E POLITICA