CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
23 marzo 2025
Gonul Tol
La Turchia ora è una vera e propria autocrazia
Foreign Affairs, 21 marzo 2025
Pochi giorni prima che il principale partito di opposizione turco scegliesse il suo prossimo candidato alla presidenza, il principale contendente, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, è stato arrestato e incarcerato, di fatto escludendolo dalla corsa. In questo sfacciato atto di repressione politica, il governo turco ha compiuto un passo importante verso un'autocrazia a tutti gli effetti.
Il piano per mettere fuori gioco Imamoglu era calcolato e approfondito. Martedì, l'alma mater di Imamoglu, l'Università di Istanbul, ha revocato il suo diploma (per legge, i candidati alla presidenza turca devono possedere titoli universitari) citando presunte violazioni delle norme dell'Higher Education Board. Il giorno dopo, Imamoglu è stato arrestato con l'accusa di corruzione e terrorismo. Queste sentenze del tribunale non solo fanno deragliare le sue ambizioni presidenziali, ma lo estromettono anche dalla sua posizione di sindaco della più grande città e potenza economica della Turchia.
Per anni, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha rimosso i controlli sul suo potere e manipolato le istituzioni statali per dare al suo partito vantaggi elettorali, ma fino ad ora l'opposizione turca è stata in grado di schierare candidati validi per contestare il suo governo. A Imamoglu, i gruppi di opposizione pensavano di aver trovato un candidato che avrebbe finalmente potuto sconfiggere Erdogan in una corsa testa a testa. Costringendo il sindaco di Istanbul a uscire dalla politica, il governo ha oltrepassato la linea che separa il competitivo sistema autoritario della Turchia da una completa autocrazia in stile russo in cui il presidente sceglie personalmente i suoi avversari e le elezioni sono puramente per spettacolo.
LA STRADA VERSO L'AUTOCRAZIA
Durante i suoi oltre due decenni al potere, Erdogan ha smantellato le istituzioni democratiche della Turchia, consolidando il suo controllo in un sistema di governo monocratico. Dopo un fallito tentativo di colpo di stato da parte di ufficiali militari nel 2016, che Erdogan e il suo partito hanno collegato a un movimento i cui membri popolavano altri rami del governo e istituzioni pubbliche, Erdogan ha portato la magistratura sotto la sua autorità epurando migliaia di giudici e sostituendoli con lealisti che approvano automaticamente le sue repressioni. I media sono stati imbavagliati; oltre il 90 percento dei media turchi è di proprietà di aziende filogovernative e i giornalisti indipendenti vengono regolarmente incarcerati.
Il paese tiene ancora le elezioni, ma il sistema è altamente distorto. È un caso da manuale di regime autoritario competitivo, che imita la democrazia mentre sistematicamente inclina il campo di gioco a favore del partito al governo. I partiti di opposizione sono attivi, ci sono veri dibattiti pubblici sulla politica e i titolari a volte perdono. Tuttavia, con il governo che controlla la magistratura, soffoca i media indipendenti e trasforma le istituzioni statali in armi per indebolire i suoi oppositori, la competizione elettorale è tutt'altro che equa.
Tuttavia, il governo di Erdogan rimane vulnerabile finché i candidati dell'opposizione possono partecipare alle elezioni. Il suo margine di vittoria, in genere, è relativamente ristretto; nel ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2023, Erdogan ha vinto con il 52 percento dei voti. A volte ha fatto ricorso a misure più estreme per mantenere in vantaggio sé stesso e il suo partito. Nelle elezioni municipali del 2019 a Istanbul, quando Imamoglu ha sconfitto il candidato del partito di Erdogan, le autorità hanno annullato il risultato e costretto a una ripetizione, solo per far vincere di nuovo Imamoglu con un margine più ampio. La tattica più pericolosa di Erdogan, tuttavia, è quella di incarcerare i suoi rivali più forti. Selahattin Demirtas, il carismatico politico curdo che ha sfidato Erdogan nelle elezioni presidenziali del 2014 e del 2018, è dietro le sbarre dal 2016 (ha condotto la sua seconda campagna dal carcere) con dubbie accuse di terrorismo. Imamoglu è stato anche condannato a una pena detentiva, nel 2022, per accuse di insulto a pubblico ufficiale. Ma poiché il caso è ancora in attesa di appello, la sentenza non ha impedito al sindaco di candidarsi di nuovo.
Erdogan non vuole solo proteggere la sua presidenza: vuole anche riprendersi Istanbul.
Nell'ultimo anno, Erdogan ha rimosso diversi sindaci eletti appartenenti ai partiti di opposizione e li ha sostituiti con altri nominati dal governo. Giornalisti, politici, attivisti per i diritti umani, persino il principale gruppo imprenditoriale del paese sono diventati bersagli di casi giudiziari fasulli. Ma l'arresto di Imamoglu questa settimana è un'escalation significativa. Le accuse di terrorismo e corruzione sono molto più gravi e quindi comportano conseguenze molto più gravi delle accuse nel suo caso pendente del 2022. E a differenza di Demirtas, che era popolare ma non è mai stato altro che un candidato di un terzo partito, Imamoglu rappresenta una minaccia diretta alla presidenza di Erdogan. Rimuovendo questo rivale dal campo, Erdogan ha dimostrato di non essere interessato a mantenere la facciata di elezioni competitive. Invece, cerca il tipo di sistema autocratico che ha il presidente russo Vladimir Putin, uno senza una vera opposizione e senza sorprese elettorali.
Erdogan è ora pericolosamente vicino a raggiungere ciò che vuole e sta seguendo un percorso simile a quello intrapreso da Putin in Russia per arrivarci. Due decenni fa, la Russia non era l'autocrazia strettamente controllata che è oggi. L'economia del paese era in forte espansione e Putin era genuinamente popolare, quindi tollerò una certa opposizione e lasciò intatte parti del sistema democratico. Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre la crescita economica si bloccava e scoppiavano proteste antigovernative, Putin rispose con la repressione. E nel 2020, consolidò pienamente il suo governo come autocrate incontrastato. Furono approvati emendamenti costituzionali che consentirono a Putin di rimanere al potere fino al 2036. Il suo regime andò in overdrive arrestando, esiliando o mettendo a tacere anche i suoi critici più marginali. Nell'agosto 2020, gli agenti del Cremlino avvelenarono l'attivista Alexei Navalny, il più feroce oppositore di Putin, nel tentativo di ucciderlo. (Navalny morì in seguito in una colonia penale russa nel 2024.) Oggi, le elezioni russe sono una mera formalità. I veri sfidanti sono banditi mentre Putin seleziona alcuni avversari simbolici per creare l'illusione della competizione. Il risultato non è mai in dubbio.
Proprio come quella di Putin, la repressione di Erdogan si è intensificata man mano che la sua popolarità è calata. I principali elettori, tra cui i giovani turchi, stanno diventando sempre più disillusi. Frustrati dalle politiche sempre più autoritarie di Erdogan e dalla mancanza di opportunità economiche, molti giovani turchi stanno pensando di emigrare. Sta crescendo una reazione nazionalista contro le politiche del governo che consentono a milioni di rifugiati siriani di vivere in Turchia.
La fiducia di Erdogan nella sua posizione in patria potrebbe essere mal riposta.
Il più grande grattacapo di Erdogan è l'economia malata del paese. La Turchia sta lottando contro l'inflazione e il deterioramento economico dal 2018. Dopo anni di politiche non ortodosse sostenute da Erdogan, politiche che molti economisti sostenevano stessero peggiorando la crisi, un nuovo ministro delle finanze ha abbandonato il vecchio approccio ma finora non è stato in grado di risollevare l'economia. Il principale gruppo imprenditoriale del paese, la Turkish Industry and Business Association, ha apertamente criticato il nuovo programma economico; in risposta, Erdogan ha accusato il gruppo di indebolire il governo. Nel frattempo, l'approvazione di Erdogan ha subito un colpo. Nelle elezioni municipali del 2024, nonostante Erdogan abbia utilizzato tutto il potere statale a sua disposizione per aiutare il suo partito a vincere, il partito al governo ha subito la sua più grande sconfitta di sempre.
La crescente repressione dell'opposizione da parte di Erdogan nell'ultimo anno è stata un tentativo di fermare questo slancio. E questo significa fermare Imamoglu. Un outsider politico prima di entrare nella corsa a sindaco nel 2019, Imamoglu ha scioccato l'establishment ponendo fine ai 25 anni di controllo del partito al governo su Istanbul, la città in cui Erdogan ha lanciato la sua carriera. Nonostante gli instancabili sforzi di Erdogan per spodestarlo, Imamoglu ha vinto facilmente la rielezione l'anno scorso, dimostrando il suo ampio appeal oltre la tradizionale base laica del suo partito. Con il suo partito pronto a sostenere la sua candidatura presidenziale (le prossime elezioni sono previste per il 2028, ma potrebbero essere indette prima), Imamoglu è diventato un formidabile sfidante del governo di Erdogan.
Le mosse di questa settimana, se reggono, bloccherebbero fermamente l'avanzamento di Imamoglu. L'annullamento del suo diploma squalifica Imamoglu dalla corsa alla presidenza e l'accusa di terrorismo lo rimuove dall'ufficio di sindaco. Erdogan non vuole solo proteggere la sua presidenza, vuole anche riprendersi Istanbul. Perdere la città a favore dell'opposizione nel 2019 non è stato solo un insuccesso politico, ma anche un colpo finanziario. Ha tagliato fuori Erdogan dalle vaste risorse della città, che hanno alimentato la sua rete di clientela per decenni. Riconquistare Istanbul potrebbe aiutare a mantenere in funzione la sua macchina politica in un momento di difficoltà economica. La rimozione del sindaco consente a Erdogan di installare al suo posto il governatore di Istanbul, un nominato scelto a mano.
CHI PRENDE RISCHI
Erdogan sta giocando una partita ad alto rischio e alta ricompensa. Se ci riesce, si presenterà alle prossime elezioni contro un avversario che ha scelto lui stesso, assicurandosi di fatto il suo governo a vita. Questa presa di potere suggerisce che crede di poter agire impunemente. Potrebbe avere ragione. I partiti di opposizione e le istituzioni politiche non hanno i mezzi per limitarlo. E sebbene molte persone in Turchia siano arrabbiate, anche l'opinione pubblica ritiene di avere poche risorse contro il presidente. L'ultima volta che Erdogan ha dovuto affrontare proteste di massa è stato nel 2013 e lo Stato ha risposto brutalmente: le forze di sicurezza hanno ucciso diverse persone, ne hanno ferite migliaia e hanno effettuato arresti di massa. Da allora, Erdogan ha represso gli assembramenti pubblici per garantire che le dimostrazioni non raggiungano mai più la stessa portata.
Il leader turco sta anche sfruttando un ambiente internazionale eccezionalmente permissivo. Il ritorno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca ha incoraggiato Erdogan; non teme una rappresaglia degli Stati Uniti ora che Trump sta attivamente minando la democrazia statunitense e non mostra alcun interesse nel ritenere responsabili gli autocrati stranieri per la loro repressione. Le aperture di Trump a Putin hanno anche scosso i leader europei, costringendoli a impegnarsi nuovamente con la Turchia nella speranza di rafforzare le loro difese contro l'aggressione russa, e sono molto probabilmente disposti a ignorare la crescente autocrazia di Erdogan se ciò significa assicurarsi il sostegno di Ankara.
Ma la fiducia di Erdogan nella sua posizione in patria potrebbe essere mal riposta. L'ultima volta che ha cercato di mettere da parte Imamoglu, si è ritorto contro in modo spettacolare. La ripetizione forzata delle elezioni del sindaco del 2019 a Istanbul, vinte di misura da Imamoglu, ha fatto infuriare molti elettori, che l'hanno vista come un'ingerenza ingiustificata da parte del governo. Nella seconda votazione, Imamoglu ha vinto con un margine più ampio, il più ampio per un sindaco di Istanbul da decenni.
Ancora più importante, Erdogan potrebbe aspirare a essere come Putin, ma la Turchia non è la Russia. A differenza della Russia, che prospera sulla ricchezza delle risorse, l'economia della Turchia è profondamente dipendente dagli investimenti esteri. Gli investitori stanno già fuggendo mentre il paese diventa più autoritario, e una scivolata verso una completa autocrazia difficilmente li riporterà indietro. L'economia turca rimarrebbe impantanata nella crisi. E persino un uomo forte deve produrre risultati per mantenere la sua presa sul potere.
LA GRANDE PROLETARIA SI MUOVE
Gianluca Modolo
La mossa della Cina: "Disposta a schierare caschi blu in Ucraina"
la Repubblica, 23 marzo 2025
PECHINO – La Cina “sonda il terreno” per capire come potrebbe essere accolta da parte degli europei una proposta del genere. Le truppe di Xi Jinping in Europa per mantenere la pace in Ucraina dopo un cessate il fuoco nella guerra con la Russia? Sulla possibilità di un invio di forze di peacekeeping da parte di Pechino nei circoli diplomatici di mezzo mondo se ne parla da oltre un mese. Ora la questione sembra prendere forza, stando all’aggiornamento della Welt am Sonntag. Per il giornale tedesco, che cita fonti europee, «la Cina starebbe valutando la possibilità di partecipare a eventuali forze di pace in Ucraina. I diplomatici cinesi avrebbero sondato a Bruxelles se un tale passo sia concepibile e forse anche auspicabile dal punto di vista Ue. Il coinvolgimento della Cina in una “coalizione dei volenterosi” potrebbe aumentare l’accettazione delle forze di pace in Ucraina da parte della Russia. In ogni caso, la questione è delicata».
Delicata al punto che la diplomazia cinese non ha mai finora affermato in modo diretto se Pechino sarebbe pronta a mandare forze di peacekeeping, ma ha comunque lasciato intendere che, nel caso, sarebbe pronta. Lo scorso 7 marzo fu il ministro degli Esteri Wang Yi a dire che «siamo disposti a continuare a svolgere un ruolo costruttivo nella risoluzione finale della crisi e nella realizzazione di una pace duratura». L’Ucraina però potrebbe non essere entusiasta dell’idea dato il sostegno di Pechino a Mosca.
Finora il Dragone sulla crisi ucraina sembra ai margini. «Le truppe cinesi potrebbero guidare un’operazione di mantenimento della pace in Ucraina, se venisse lanciata. Ma la Cina sta aspettando che la situazione si calmi prima di rendere pubblica una simile offerta», scriveva l’Economist a fine febbraio. «Qualsiasi dispiegamento dovrebbe essere effettuato nell’ambito delle Nazioni Unite», emergeva negli stessi giorni sul South China Morning Post.
L’invio di forze di peacekeeping cinesi farebbe fare un discreto “salto di qualità” all’immagine di Pechino negli affari globali. In un mondo scosso dai cambiamenti di rotta della politica americana durante questo inizio di secondo mandato di Donald Trump, Pechino vuole essere percepita come una forza di “stabilità”, una “potenza responsabile” e affidabile, che di fronte a grandi cambiamenti «porta certezza in un mondo incerto», come ebbe a dire proprio Wang. La Cina potrebbe sperare di trarre vantaggio cercando di riparare i suoi rapporti con l’Europa. E se si dovesse raggiungere un accordo di fine delle ostilità che regga, ne può approfittare incoraggiando le proprie aziende a cercare profitti nella ricostruzione dell’Ucraina. E proprio oggi in Arabia Saudita dovrebbe cominciare un nuovo round di colloqui tra Usa e Ucraina che dovrebbe essere seguito, nei prossimi giorni, sempre a Riad, da incontri tra americani e russi.
L' ITALIA DI MELONI COMINCIA A BALBETTARE
Si fa presto a dire Andreotti. Che, volendo, non era neppure doroteo. La Democrazia cristiana ha governato il nostro paese per quarant'anni. Sembra che lo abbia fatto sempre procrastinando le decisioni, cambiando le cose il meno possibile, procedendo a piccoli passi. Eppur si muove. Con quella classe dirigente che aveva al suo interno figure di grande rilievo e spessore l'Italia è diventata una democrazia industriale moderna e perfino laica, in una certa misura. Temporeggiando temporeggiando da che parte va la fatina bionda? Perfino Eisenhower che parlava del complesso militare-industriale era un uomo di progresso rispetto a Trump. Dove va Giorgia Meloni? In braccio a Musk? Scommettiamo che non ce la fa, perché non ce la può fare? Scommettiamo.
Marco Damilano
Meloni e la deriva andreottiana dell'infinito tirare a campare
Domani, 23 marzo 2025
... Una distopia cui partecipano anche intellettuali liberali, disposti a discettare sui punti del Manifesto di Ventotene e a bendarsi gli occhi davanti a ciò che rappresenta la fiamma nel simbolo del Msi. O chi contrappone De Gasperi a Spinelli, dimenticando che entrambi sognavano un’Europa antifascista e antinazionalista, o che Spinelli fu nominato commissario europeo nel 1970 dal democristiano Aldo Moro su suggerimento del socialista Pietro Nenni. Quello che ieri ha fatto sbottare Romano Prodi: «Ma il senso della storia ce l’avete?».
La legislatura che per Meloni doveva raggiungere due obiettivi, cambiare verso all’Europa, riscrivere la Costituzione con il premierato, si sta risolvendo nel nulla. L’Europa si è spostata a destra, ma in questa Europa stritolata dalla morsa Trump-Putin l’Italia di Meloni balbetta, non ha un ruolo credibile su nessuna sponda. Il premierato è finito nel tempo del mai, sul binario morto di qualche commissione, in ritardo come sono tutti i treni in questo periodo. Anche per Meloni la stagione delle grandi riforme è precocemente finita.
Meglio così. Ma resta l’amministrazione del potere, feroce e spietata, anche se a beneficiarne sono figure mediocri. Resta la guerra ideologica, che serve a fomentare i più scalmanati, per chiudere l’antifascismo in una parentesi della storia. E restano i provvedimenti più pericolosi, come l’articolo 31 del ddl Sicurezza appena approvato che impone a scuole e università, ma anche ospedali e editori in regime di concessione e autorizzazione, come il servizio pubblico Rai, di consegnare ai servizi di intelligence, se richiesti, anche i dati più sensibili. Un obbligo inquietante perché arriva da un governo che ancora non è riuscito a imbastire una versione credibile sui giornalisti, attivisti e preti monitorati e spiati.
FRANCO FORTINI E ROSSANA ROSSANDA
Massimo Raffaeli
Una feconda amicizia con note dissonanti
il manifesto, 12 marzo 2025
Arrivederci tra dieci anni? Il carteggio Fortini-Rossanda (1951-1993) (Firenze University Press-USiena Press, pp. 146, euro 21.85, ma scaricabile gratuitamente in pdf), con un saggio di Monica Marchi, nella puntuale curatela di Giuseppe Ferrulli.
... Fortini e Rossanda si incontrano nell’immediato dopoguerra quando l’uno, ex partigiano e appena reduce dal Politecnico, iscritto al Psi, è consigliere della Casa della Cultura a Milano, mentre l’altra, storica dell’arte entrata nella Resistenza da allieva di Antonio Banfi, giovanissima dirigente del Pci, la dirige.
L’esordio del rapporto, o meglio il primo punto di frizione, è una disputa all’interno della Casa della Cultura (diretta fino al ‘63 da Rossanda con risolutezza e aperture impensabili in anni di Guerra fredda e zdanovismo) che si conclude nel dicembre del ’51 con le dimissioni di Fortini dal consiglio direttivo della Casa, quando in una lettera accusa i militanti del Pci (e dunque, di riflesso, la direttrice medesima) di essere dei «comunisti piccoli», agenti di un mediocre machiavellismo nei confronti dei compagni e soprattutto dei socialisti.
LA NATURA, la postura stessa del rapporto tra Fortini e Rossanda, qui sono dati una volta per sempre: di solito Fortini porta l’affondo ironico ovvero aggressivo, additando gli spettri di una umanità ferita e irredenta, ridotta allo stato di perenne parzialità, sia pure ritrovata nel pensiero poetico, in immagini la cui drammatica scomposizione lascia tuttavia intravedere un possibile riscatto, il disegno utopico della totalità e, pertanto, di un’umanità risarcita. (A una simile oltranza dell’immaginario, corrisponde il riflesso psicologico di un carattere ombroso, insofferente e refrattario a gesti di conciliazione: la sua interlocutrice un giorno lo definirà di carattere «infiammabile», un altro citerà le parole di don Abbondio a proposito del cardinal Federigo: «Oh che sant’uomo! ma che tormento!»).
ROSSANDA HA PROFILO e carattere antipodi, in lei ogni gesto istintivo coincide con l’incipit di una riflessione e così la sua ricerca di una mediazione non è mai rifiuto del conflitto ma un rilancio del discorso su un piano ulteriore, più largo e magnanimo: la scrittura le somiglia, ha un passo lungo e avvolgente prima di approdare alla fermezza di una conclusione.
L’uno in una celebre poesia (Il Comunismo, nella raccolta Una volta per sempre, 1963) dovrà ammettere la difficoltà di vivere l’eguaglianza con i propri compagni nella comune negazione dell’esistente («Non si può essere comunista speciale./ Pensarlo vuol dire non esserlo»), l’altra in una lettera ormai tarda, del gennaio 1981, gli si rivolgerà nella sgomenta convinzione che il comunismo non è il traguardo ma la via, terribilmente accidentata, per raggiungerlo: «La mia identità è di essere comunista, e non lo sono; non me ne importa di niente altro, per rapporto a quel che ho capito un giorno del ’43 e rispetto al quale ho collezionato soltanto cammini faticosi approdati in vicoli ciechi».
SONO DINAMICHE riavviate ad ogni passaggio di fase del loro rapporto, scandito dalla storia grande del secondo Novecento e dall’avvicendarsi dei gruppi intellettuali e politici che lo costellano. Prima c’è l’indimenticabile ’56 (con una sfuriata di Fortini contro la Casa della Cultura, rea di ignorare il rapporto Krusciov e di ridurre – con una conferenza dello psicoanalista Cesare Musatti – la critica dello stalinismo ad una eterna lotta col padre), poi gli anni del Miracolo economico e la lunga stagione delle lotte che culmina nel ’68-’69 e apre il decennio antagonista, con la radiazione dal Pci del gruppo del manifesto e la successiva fondazione, nel 1971, del quotidiano.
Fortini ne sarà una prima firma (i suoi articoli sono ora nei due volumi di Disobbedienze, manifestolibri 1997-’98) ma con aspri dissensi prima sulla scelta di inglobare il quotidiano nel Pdup poi, dagli anni ottanta, sulla progressiva ai suoi occhi «americanizzazione» nei gusti, nello stile e nel linguaggio del giornale che egli vorrebbe, scrive nella lettera del 18 dicembre ’74, concentrato sulla critica «che smonta e spiega il processo produttivo della cultura circostante e cerca di farci capire come funziona e non soltanto quale ideologia indossi e propagandi».
Ma il contrasto diventa frattura irreparabile quando nel ‘79, recensendo il Doppio diario postumo di Giaime Pintor, Fortini estrapola la figura dello scrittore e martire antifascista per farne un caso di ceto privilegiato e di classe, la stessa che a cadenza rifornisce lo Stato dei suoi Grand Commis: l’articolo non esce e Rossanda, sdegnata, si schiera immediatamente dalla parte di Luigi Pintor, offeso nel profondo. Ci vorranno anni per ripristinare la collaborazione di Fortini al giornale e un qualche rapporto con la sua interlocutrice ma prevarranno d’ora in poi il senso di stanchezza per la vecchiaia incipiente, i silenzi, e le reciproche omissioni.
ANCHE NEI TESTIMONI terminali del carteggio la postura rimane immutata e, rileva Monica Marchi, «da una parte c’è Fortini che orgogliosamente rivendica il suo isolamento dall’altra parte, invece, c’è Rossanda che al contrario difende il suo essere parte di qualcosa». In altri termini, con gli stereotipi che ogni tanto il carteggio rilancia, da una parte c’è il poeta scismatico e comunista «speciale», dall’altra l’intellettuale prediletta da Palmiro Togliatti e Jean-Paul Sartre, la compagna dell’indimenticabile K. S. Karol.
Quegli ultimi documenti sono gesti di omaggio che l’antico discidium, retrospettivamente, carica di senso e destino. Rossanda scrive in occasione del pensionamento di Fortini dall’Università di Siena lo stupendo saggio (anche autobiografico) che si intitola Le capre ostinate mentre il poeta le conferma una definitiva adesione nell’epigramma Per Rossana R. (in Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Einaudi 1997): «Gente, la rima non ripaga/ corta è la vita lunga la piaga./ Finché un’ora più vera non viene/ la Rossana a me va bene».
AL CENTRO CULTURALE BIOTOS di PALERMO IL LIBRO DEDICATO A FRANCESCO CARBONE
MERCOLEDI' 9 APRILE 2025, ore 17, al CENTRO CULTURALE BIOTOS DI PALERMO, via XII Gennaio n.2,
ALDO GERBINO e FRANCESCO VIRGA
presenteranno un libro dedicato alla memoria della geniale opera di FRANCESCO CARBONE.
20 marzo 2025
LA MELONI SI E' TOLTA LA MASCHERA
Eric Josef, Ma così Meloni ha rinnegato le radici antitotalitarie
La Stampa, 20 marzo 2025
Nei suoi due anni e mezzo alla guida del governo italiano, Giorgia Meloni era riuscita a limare il suo passato di giovane militante post-fascista ma anche, dialogando con Bruxelles, a eclissare le posizioni ultra-nazionaliste e anti-europeiste di quando era all’opposizione. Ieri, alla Camera dei deputati, additando il “Manifesto per un Europa libera e unità” scritto nel 1941, ha dileggiato tre confinati antifascisti di estrazioni ideologiche diverse, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, ma ha soprattutto riaperto la questione del suo rapporto con l’Europa. Estrapolando dal loro contesto passaggi del [manifesto] di Ventotene, la premier italiana ha cercato infatti di fare passare il [documento] per un’apologia di regimi autoritari e rivoluzioni marxiste snaturandolo da quel che è, un ragionamento con limiti e contraddizioni ma con l’incredibile forza d’immaginare in un continente sottomesso alla dittatura nazifascista [la] possibilità di un’Europa pacificata, libera, federale e democratica. Ed è vero che dalle pagine emana una visione socializzante della società futura, ma era allora un’ispirazione talmente diffusa che pure la Costituzione italiana del 1948 inizia proclamando la Repubblica “fondata sul lavoro”. Questo però, lungi dal fare del Manifesto un Libretto Rosso ante-litteram, lo rende un testo fondativo dell’idea di Europa unita.
Tuttavia, al di là della strumentalizzazione politica di alcuni passaggi, la polemica aperta da Giorgia Meloni presenta un merito. Nell’affermare «non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia» la presidente del Consiglio pone il Manifesto di Ventotene come la discriminante tra due visioni radicalmente distinte dell’Europa, oggi più che mai. Quella cioè di chi ne trae ispirazione per proiettarsi verso un’Unione antinazionalista, anti-imperialista e sempre più federale, e l’altra di chi, sull’onda del premier ungherese Viktor Orban o del ministro Salvini, afferma la propria fede europeista (servendosi dello slogan di Elon Musk “Make Europe Great Again”) impiantandola su un continente tradizionalista, bianco e cristiano, vicino al “Dio, patria e famiglia” di Giorgia Meloni.
DARE TERRA E PACE AI PALESTINESI
Mi chiamo Mahmoud, sono un prigioniero politico
Mahmoud Khalil
19 Marzo 2025
Foto di Jewish Voice for Peace: il 14 marzo un centinaio di persone sono state arrestate a New York durante la protesta per l’occupazione della Trump Tower promossa per chiedere il rilascio di Mahmoud Khalil, lo studente palestinese della Columbia University trattenuto dalle autorità per l’immigrazione degli Usa. Gran parte dei fermati indossavano magliette rosse con la scritta “Gli ebrei dicono di smetterla di armare Israele”. C’è vita oltre Trump
Mi chiamo Mahmoud Khalil e sono un prigioniero politico. Vi scrivo da un centro di detenzione in Louisiana, dove mi sveglio al freddo del mattino e trascorro lunghe giornate a testimoniare le silenziose ingiustizie in atto nei confronti di moltissime persone a cui è preclusa la tutela della legge.
Chi ha il diritto di avere diritti? Non sono certo gli esseri umani ammassati in queste celle. Non è l’uomo senegalese che ho incontrato e che è stato privato della sua libertà per un anno, con la sua situazione legale in un limbo e la sua famiglia a un oceano di distanza. Non è il detenuto ventunenne che ho incontrato, che ha messo piede in questo paese all’età di nove anni, per poi essere deportato senza nemmeno un’udienza.
La giustizia sfugge ai contorni delle strutture di immigrazione di questa nazione.
L’8 marzo sono stato preso da agenti del Department of Homeland Security che si sono rifiutati di fornire un mandato e hanno avvicinato me e mia moglie mentre tornavamo da una cena. Il filmato di quella notte è stato reso pubblico. Prima che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, gli agenti mi hanno ammanettato e costretto a salire su un’auto senza contrassegni. In quel momento, la mia unica preoccupazione era la sicurezza di [mia moglie] Noor. Non sapevo se sarebbe stata portata via anche lei, visto che gli agenti avevano minacciato di arrestarla per non avermi abbandonato. Il DHS non mi ha detto nulla per ore: non sapevo la causa del mio arresto né se rischiavo la deportazione immediata. Al 26 di Federal Plaza ho dormito sul pavimento freddo. Nelle prime ore del mattino, gli agenti mi hanno trasportato in un’altra struttura a Elizabeth, nel New Jersey. Lì ho dormito per terra e mi è stata rifiutata una coperta nonostante la mia richiesta.
Il mio arresto è stato una conseguenza diretta dell’esercizio del mio diritto alla libertà di parola, mentre sostenevo la necessità di una Palestina libera e la fine del genocidio a Gaza, che è ripreso in pieno nella notte di lunedì (17 marzo). Con il cessate il fuoco di gennaio ormai infranto, i genitori di Gaza stanno di nuovo cullando sudari troppo piccoli e le famiglie sono costrette a scegliere tra fame e sfollamento e le bombe. È nostro imperativo morale continuare a lottare per la loro completa libertà.
Sono nato in un campo profughi palestinese in Siria da una famiglia sfollata dalla propria terra durante la Nakba del 1948. Ho trascorso la mia giovinezza in prossimità ma lontano dal mio paese. Ma essere palestinese è un’esperienza che trascende i confini. Vedo nelle mie circostanze analogie con l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa – imprigionamento senza processo o accusa – per privare i palestinesi dei loro diritti. Penso al nostro amico Omar Khatib, che è stato incarcerato senza accusa né processo da Israele mentre tornava a casa dopo un viaggio. Penso al direttore dell’ospedale di Gaza e pediatra Dr. Hussam Abu Safiya, che è stato fatto prigioniero dall’esercito israeliano il 27 dicembre e che oggi rimane in un campo di tortura israeliano. Per i palestinesi, l’imprigionamento senza un giusto processo è una prassi comune.
Ho sempre creduto che il mio dovere non sia solo quello di liberarmi dall’oppressore, ma anche di liberare i miei oppressori dall’odio e dalla paura. La mia ingiusta detenzione è indicativa del razzismo anti-palestinese che sia l’amministrazione Biden sia quella di Trump hanno dimostrato negli ultimi sedici mesi, quando gli Stati Uniti hanno continuato a fornire a Israele armi per uccidere i palestinesi e hanno impedito ogni intervento internazionale. Per decenni, il razzismo anti-palestinese ha guidato gli sforzi per espandere le leggi e le pratiche statunitensi utilizzate per reprimere violentemente i palestinesi, gli arabi americani e altre comunità. È proprio per questo che sono stato preso di mira.
Mentre attendo decisioni legali che tengono in bilico il futuro di mia moglie e di mio figlio, coloro che hanno permesso che venissi preso di mira rimangono comodamente alla Columbia University. I presidenti Shafik, Armstrong e il rettore Yarhi-Milo hanno gettato le basi perché il governo degli Stati Uniti mi prendesse di mira, disciplinando arbitrariamente gli studenti filopalestinesi e permettendo che la delazione virale – basata sul razzismo e sulla disinformazione – si svolgesse senza controllo.
La Columbia mi ha preso di mira per il mio attivismo, creando un nuovo ufficio disciplinare autoritario per aggirare il giusto processo e mettere a tacere gli studenti che criticano Israele. La Columbia si è arresa alle pressioni federali divulgando i dati di studenti e studentesse al Congresso e cedendo alle ultime minacce dell’amministrazione Trump. Il mio arresto, l’espulsione o la sospensione di almeno 22 studenti di Columbia – ad alcuni è stata tolta la laurea a poche settimane dal diploma – e l’espulsione del presidente della Student Workers of Columbia, Grant Miner, alla vigilia delle trattative contrattuali, ne sono chiari esempi.
Se non altro, la mia detenzione è una testimonianza della forza del movimento studentesco nello spostare l’opinione pubblica in favore della liberazione della Palestina. Studenti e studentesse sono stati a lungo in prima linea nel cambiamento: hanno guidato la carica contro la guerra del Vietnam, sono stati in prima linea nel movimento per i diritti civili e hanno guidato la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Anche oggi, sebbene l’opinione pubblica non l’abbia ancora compreso appieno, sono studenti e studentesse a guidarci verso la verità e la giustizia.
L’amministrazione Trump mi sta prendendo di mira come parte di una strategia più ampia per reprimere il dissenso. I titolari di un visto, i titolari di una green card e i cittadini saranno tutti presi di mira per le loro convinzioni politiche. Nelle prossime settimane, studenti, sostenitori e funzionari eletti devono unirsi per difendere il diritto di protestare per la Palestina. In gioco non ci sono solo le nostre voci, ma le libertà civili fondamentali di tutti.
Sapendo che questo momento trascende le mie circostanze individuali, spero comunque di essere libero di assistere alla nascita del mio primo figlio.
Questa lettera è stata dettata per telefono dal centro di detenzione ICE (l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione e delle dogane) in Louisiana, da Mahmoud Khalil, dove si trova dopo l’arresto dell’8 marzo. Khalil, nato in Siria da rifugiati palestinesi, è stato figura chiave nelle proteste alla Columbia University contro la guerra a Gaza nella primavera del 2024. Traduzione di Connessioniprecarie (che ringraziamo).
Iscriviti a:
Post (Atom)