15 aprile 2024

LA CLASSE POLITICA ODIERNA CORROMPE ED E' CORROTTA FINO AL MIDOLLO ... 1 e 2

 


...MA NON SI PENTIRA'  MAI!

PUR RICONOSCENDONE I LIMITI, HO VOLUTO BENE A BERLINGUER

 









ADRIANO APRA' VERSO LIDI INESPLORATI

 


Adriano Aprà: «ancora verso lidi inesplorati»


È morto Adriano Aprà, uno dei più grandi e instancabili studiosi di cinema italiani. Lo saluto ospitando qui un suo intervento che mi aveva donato qualche mese fa, in risposta a una mia “inchiesta sul visibile” formulata per un libro ancora a venire. Rileggere oggi queste parole mi ricorda quanto avventurosa e vasta sia stata la sua idea del cinema, e il suo amore: «affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.»

***

 

Caro Giorgiomaria,

le domande che formuli richiedono una riflessione approfondita, che per me è piena più di incertezze che di certezze. Cercherò di risponderti ma in modo indiretto, aggiungendo al visibile anche l’udibile.

Una premessa. Ormai da qualche tempo nel pensare al cinema del futuro si profila un’ombra che mi tormenta: quella della catastrofe irreversibile del nostro pianeta. E dovrei aggiungere imminente, anche se io non vi assisterò, ma sono già testimone di molti segnali premonitori.

Nel 1951 esce un film di fantascienza di Robert Wise, The Day the Earth Stood Still (da noi Ultimatum alla Terra, ma il titolo originale suona “Il giorno in cui la Terra si è immobilizzata”), in cui si narra di un alieno che, in forma umana (un nuovo Cristo?), cerca di convincere i terrestri di scegliere la pace contro la guerra. L’umanità è scioccata dal messaggio ma nel film non sappiamo se lo seguirà. Nella realtà sappiamo che non lo ha seguito.

Nel 1972 viene pubblicato da The Club of Rome di Ginevra per le Edizioni Scientifiche e Tecniche di Mondadori I limiti dello sviluppo (rapporto del System Dynamics Group del Massachusetts Institute of Technology per il progetto del Club di Roma sui dilemmi dell’umanità), in cui, con analisi statistiche approfondite, viene previsto che, in assenza di interventi immediati che hanno a che vedere con il cambiamento climatico, l’aumento della popolazione mondiale, le risorse alimentari, il nostro pianeta collasserà negli anni che stiamo vivendo adesso. Da allora non solo non ci sono stati interventi immediati ma l’umanità ha fatto di tutto per accelerare il collasso, e tutti i provvedimenti che si stanno adottando, e di cui tanto si parla, giungono troppo tardi.

In un altro film fantascientifico di Richard Fleischer del 1973, Soylent Green (2022: i sopravvissuti, Soylent è il nome di una ditta che produce gallette alimentari, di cui quelle verdi, dopo quelle gialle e quelle rosse, sono l’ultimo ritrovato), il protagonista scopre dopo complesse peripezie che le verdi sono ricavate dal riciclaggio dei cadaveri umani.

Non siamo ancora arrivati a questo (ma al suicidio assistito, che è un altro elemento del film, sì).

Fatta questa premessa, che relativizza ogni mia considerazione, sono convinto che il cinema (diciamo per ora digitale) si stia evolvendo sottotraccia, ma visibile per chi si sforza come talpe di individuarlo.

Intanto c’è il cinema espanso, che data da diversi anni, sia in pellicola sia in digitale. Penso, sul versante artistico, al doppio schermo di The Chelsea Girls (1966) di Andy Warhol, agli spettacoli multimediali di Mario Schifano (Grande angolo, sogni e stelle al Piper Club di Roma, 1967) o di Alexander Kluge (ne ho visto uno a Berlino, credo nel febbraio 2002), allo split-screen (più immagini in contemporanea nella stessa inquadratura) inaugurato da Richard Fleischer nel 1968 con The Boston Strangler (Lo strangolatore di Boston), alle istallazioni; sul versante commerciale che cosa sono le pubblicità luminose, semoventi e in continua alternanza che invadono 24 ore su 24 Times Square a Manhattan e altre megalopoli?

Il digitale, per sua natura, non è fatto per riprodurre la realtà. Quelli che in pellicola erano “effetti speciali” in digitale sono effetti normali; l’effetto speciale è appunto la riproduzione della realtà. L’impiego che se ne fa è ancora in prevalenza quest’ultimo, ma in campo sperimentale le cose, anticipate in cinema dalle varie avanguardie, sono ben diverse.

Si sta elaborando la creazione di realtà “altre”. Il videocinema inventa e inventerà altri mondi, sarà multi o pluriverso.

La soggettività che ha fatto capolino nel cinema di ieri, quando ha cominciato a dire “io” e “tu”, e non più soltanto “lui” e “lei”, ha aperto la strada per poter dire non “noi di carne” ma “noi di spirito”: noi che fantastichiamo, immaginiamo, sogniamo.

L’uomo non può fare a meno di immaginare. E il cinema è l’invenzione che meglio riproduce tale bisogno.

Affidiamoci senza paure a questo cinema “extraterrestre”, che non grida ma sussurra, che ci conduce per mano verso lidi inesplorati dove, forse, potremo rivivere.

Assistiamo alla dissoluzione progressiva delle classiche distinzioni fra cinema di finzione, documentario, animazione e sperimentalismo.

Una delle conseguenze è p. es. quello che io definisco, con molta prudenza, cinema “quantistico”: un cinema in cui la linearità e la consequenzialità spaziotemporale vengano superate, in cui l’indeterminazione e l’ondularità della rappresentazione siano fattori fondativi.

C’è poi il problema, per me complesso e ancora poco chiaro, della Intelligenza Artificiale.

Che cosa può apportare al cinema?

Non penso certo all’idea di film “fatti a macchina” sulla base di sceneggiature che tengano conto dei “gusti medi” del pubblico incorporando i big data di ciò che già è stato fatto.

Secondo il manifesto di Lev Manovich (studioso di origine russa, fondatore nel 2007 del Software Studies Initiative presso il California Institute of Telecommunications and Information Technology, Calit2) A Letter to a Young Artist del 20 ottobre 2023 (https://www.academia.edu/109991543/A_Letter_to_a_Young_Artist), «ciò che è interessante riguardo all’arte umana sono i nostri limiti, e le nostre ossessioni»; «bisogna lavorare sulle micro-scale» e scavare, scavare…

Ma quando arrivo ai suoi Software Takes Command (Bloomsbury Academic, 2013) e Cultural Analytics. L’analisi computazionale della cultura (Raffaello Cortina, 2023; ed. or. Cultural Analytics, MIT 2020) o The Digital Humanities Coursebook di Johanna Drucker (Routledge, 2021) mi perdo.

Cerco di ritrovare un filo conduttore. Nel 2017 è stato aperto l’Arctic World Archive (AWA), un bunker scavato a 250 metri di profondità dentro una ex miniera di carbone dell’isola Spitsbergen, che fa parte dell’arcipelago Svalbard in Norvegia (https://en.wikipedia.org/wiki/Arctic_World_Archive). Le informazioni, comprese le istruzioni per poterle decodificare, sono conservate su pellicola 35mm convertita in un immutabile medium di preservazione digitale chiamato piqlFilm, a sua volta racchiuso in un contenitore di sicurezza. Perché su un supporto analogico come la pellicola? Perché, oltre a essere più duraturo (da 500 a 1000 anni, dicono), garantisce la preservazione dei dati da possibili attacchi informatici.

Non so però se i dati conservati, oltre a essere statici, possano anche essere in movimento, come i film. Che però sono comprimibili digitalmente ad alta risoluzione.

Chi saranno i destinatari di tali mega database?

Posto che l’AWA sia stato concepito in vista di una possibile catastrofe ecologica (e per cos’altro sennò?), tutto questo sarà per gli “alieni”, quelli di The Day the Earth Stood Sill o di Close Encounters of the Third Kind (Incontri ravvicinati del terzo tipo, Steven Spielberg, 1977)?

Potrebbe invece essere più probabile che i prossimi destinatari siano le “creature superiori” prodotte qui in Terra – come profetizzano i “transumanisti” – dall’Intelligenza Artificiale, o altre consimili macchine incorporee, dotate di un “contenitore” non così fragile come il nostro corpo biologico e mortale e, in quanto tali, non soggette agli effetti catastrofici del collasso del pianeta, “immortali”, come suggerisce Mark O’Connell in Essere una macchina (Adelphi, 2021; ed. or. To Be a Machine, 2017).

Caro Giorgiomaria, mi rendo conto della confusione delle mie riflessioni: tante domande senza vere risposte.

Ma è così che mi sento adesso.

Spero tuttavia che possano incuriosire te e i tuoi lettori.

 

Adriano Aprà

12 febbraio 2024

Pezzo ripreso da  https://www.nazioneindiana.com/2024/04/15/adriano-apra-ancora-verso-lidi-inesplorati/

14 aprile 2024

IN SICILIA NULLA DI NUOVO

 


Queste sono le prime pagine dell'ultima settimana

Questa è la prima pagina del Giornale di Sicilia di sette anni fa

NIHIL SUB SOLE NOVUM

MOSTRA FOTOGRAFICA DI ANGELO PITRONE AD AGRIGENTO

 


QUANDO ITALO CALVINO ERA COMUNISTA

 


 I PRIMI RACCONTI DI CALVINO


Com’è noto, Italo Calvino ha pubblicato articoli sull’Unità negli anni tra il 1947 e il 1956. Alcuni di questi sono stati riveduti e corretti dall’autore e ristampati in Ultimo viene il corvo (1949) e in Racconti (1956). Qui vengono presentati in versione originale quelli presenti già nelle due raccolte, ma usciti in un primo tempo sull’Unità di Torino.

Si tratta di racconti che hanno alcune caratteristiche comuni. I protagonisti sono in genere dei marginali; lo stile della scrittura mescola un realismo minuto alla fantasia; una grande attenzione è riservata alla natura e agli animali; il paesaggio sullo sfondo in molti casi appartiene alla riviera ligure di Ponente ed è ritratto con estrema precisione naturalistica. Sono stati aggiunti altri articoli di vario genere: un pezzo sul biologo Lysenko permette di mostrare quanto fosse profonda l’adesione dello scrittore al comunismo staliniano del suo tempo; altri articoli sono stati ripresi come pezzi di bravura letteraria ancor prima che giornalistica: due recensioni (una per Sartre. L’altra per Primo Levi), il resoconto di una partita di calcio vista dalla parte della città, il reportage sul set di Riso amaro e La gran bonaccia delle Antille, uscito nel 1957 su Città aperta; quest’ultimo è un racconto di tipo allegorico. Ha per oggetto la politica del partito comunista italiano nel dopoguerra e segna il distacco dello scrittore da quella esperienza.
La collaborazione di Calvino con l’Unità inizia nel 1946. L’anno dopo lo scrittore è assunto dalla casa editrice Einaudi dove si occupa dell’ufficio stampa e pubblicità. Alla fine di aprile 1948 diventa invece redattore dell’Unità con l’incarico di curare la terza pagina. Nel settembre 1949 c’è il ritorno all’Einaudi. Si chiude allora una fase della sua attività letteraria. Stando a ciò che afferma Domenico Scarpa, il 1948, il 1949, il 1950, il 1951 segnano per l’autore una “rarefazione della produzione narrativa”.
Ancora qualche parola sul rapporto con il paesaggio nei racconti di quel momento aurorale merita di essere spesa. Quello che nell’opera compiuta appare come un elemento di contorno è invece primordiale nel processo creativo. Si veda per questo la prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno (1947): “Il mio paesaggio era qualcosa di gelosamente mio. (…) Io ero della Riviera di Ponente; dal paesaggio della mia città – Sanremo – cancellavo polemicamente tutto il litorale turistico – lungomare con palmizi, casinò, alberghi, ville – quasi vergognandomene; cominciavo dai vicoli della Città vecchia, risalivo per i torrenti, scansavo i geometrici campi dei garofani, preferivo le ‘fasce’ di vigna e d’oliveto coi vecchi muri a secco sconnessi, m’inoltravo per le mulattiere sopra i dossi gerbidi, fin su dove cominciano i boschi di pini, poi i castagni, e così ero passato dal mare – sempre visto dall’alto, una striscia tra due quinte di verde – alle valli tortuose delle Prealpi liguri. – Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che esso diventasse secondario rispetto a qualcos’altro: a delle persone, a delle storie “.
Infine, bisogna rendere conto della grazia che informa i racconti in particolare. Italo Calvino è uno scrittore che cambia periodicamente il suo stile. Due elementi permangono come dati immutabili: il linguaggio e la motivazione ultima della scrittura. Il linguaggio è limpido e preciso, assai leggibile. La motivazione ultima della scrittura è il bisogno inesausto di comprendere e di conoscere il mondo. Altre cose mutano da una fase all’altra della produzione letteraria. All’inizio prevale un realismo associato a una modalità fiabesca dell’invenzione. Già questo instaura una atmosfera di incanto che si perde tra le righe. Il lettore è coinvolto senza sapere bene perché. E poi c’è il lato rivelatore di un procedimento che serve a superare una difficoltà nascosta. Calvino in un primo tempo non riesce a rappresentare la realtà in modo frontale. Anche il riferimento alla sua biografia gli appare involuto e artificioso. Presto individua una via d’uscita nell’approccio indiretto al mondo e alle cose. Ed ecco lo scrittore da giovane, o prima maniera se si preferisce. Una naturalezza leggera, segnata dal distacco e al tempo stesso da una vicinanza in seconda battuta al senso della vita. Tutto questo viene chiarito e spiegato dall’autore nella già citata prefazione del 1964 al Sentiero dei nidi di ragno: “ogni volta che si è stati attori o testimoni d’un’epoca storica ci si sente presi da una responsabilità speciale… A me questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora proprio per non lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l’avrei affrontato non di petto ma di scorcio. (…) Il Sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza assoluta, per metà patita fino allo strazio, per metà supposta e ostentata. Se un valore riconosco a questo libro è lì: l’immagine di una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane” e l’indigenza degli esclusi e dei reietti”. Ecco il segreto di una scrittura che lascia intravedere una segreta armonia. Segreta e nascosta. In questo momento aurorale della sua carriera lo scrittore ritrova l’impulso epico di altri tempi. In fasi e momenti successivi dell’opera calviniana la storia e il progresso lasceranno il posto a qualche filo residuo di speranza, come nelle Città invisibili (1972).  Alla fine del percorso le Lezioni americane, uscite postume (1972), recheranno un’eco che rimanda a un bilancio dell’intero percorso compiuto dall’opera dello scrittore. Il primo capitolo del libro avrà per titolo la leggerezza. L’ultimo ragiona della molteplicità. Su Calvino autore molteplice convergono le analisi di Domenico Scarpa e Marco Belpoliti, per non parlare delle conclusioni raggiunte dalla figlia Giovanna.