26 luglio 2024

LEONARDO SCIASCIA PIU' RIVOLUZIONARIO DI D. DOLCI SUL PROBLEMA DELL' ACQUA IN SICILIA

 




 Leonardo Sciascia spiega perché manca l’acqua in Sicilia

Il giornalista Giovanni Taglialavoro ha rintracciato il testo di Leonardo Sciascia che accompagnava il documentario "La grande sete" girato nel 1968 da Massimo Mida con la sceneggiatura di Marcello Cimino. Il testo, praticamente inedito, è stato pubblicato dallo stesso Taglialavoro sul sito www.suddovest.it

Il documento, che riportiamo integralmente, è particolarmente attuale e risulta molto più pungente ed efficace dei tanti discorsi retorici che abbiamo udito in queste ultime settimane in occasione dei 100 anni di Danilo Dolci. (fv)

 

 LEONARDO SCIASCIA, La grande sete (1968)


È ormai un luogo comune che la Sicilia è terra di contrasti, di contraddizioni, di incongruenze, di paradossi. Ma in queste immagini il termine della contraddizione, del paradosso, non è il mulo ma l´automobile, se considerati come simboli - rispettivamente - di una situazione effettuale e di una aspirazione finora vaga e vana. Un´economia agraria tra le più arretrate d´Europa, forse la più arretrata; e il sogno dell´industrializzazione: questa è oggi la Sicilia.
Di questi paesi dell´interno un tempo si diceva che vivevano di agricoltura. Oggi si può dire che di agricoltura muoiono, e sopravvivono soltanto per le rimesse degli emigranti e le pensioni di vecchiaia e inabilità che lo Stato ed altri enti avaramente elargiscono.
L´isola ha tanti problemi. Ma quasi tutti si collegano al problema dell´acqua. L´acqua contesa fino alla violenza e al delitto. L´acqua che si perde nei meandri della burocrazia e della mafia.
La gente di ciò ha coscienza: sa, come proverbialmente si dice, dove e come l´acqua si perde.
La disponibilità attuale dell´acqua in Sicilia è di 165 litri al giorno contro una media nazionale di 250 - media comprendente i depressi livelli del Sud. La disponibilità normale al Nord è di oltre 400 litri al giorno. Nella classifica delle regioni per numero di abitanti con insufficiente disponibilità idrica, la Sicilia è al primo posto seguita dalla Puglia.
Un tempo la Sicilia era celebrata anche nelle sue acque: i poeti greci, i poeti arabi, il poeta Antonio Veneziano che, nel Cinquecento, esaltò l´idrografia siciliana nella marmorea rappresentazione di quella fontana pretoria oggi asciutta nella piazza dove sorge il municipio di Palermo. La Sicilia ricca d´acque è ormai come un miraggio. Un miraggio la Fonte Aretusa nel cuore dell´antica Siracusa, così pure miraggi i fiumi mitici della stessa città, il Ciane e l´Anapo, cantati da Salvatore Quasimodo. In questi fiumi crescono i famosi papiri del tempo classico, piante che hanno bisogno di una grande quantità d´acqua. E ancora miraggio le bagnanti dei mosaici di Piazza Armerina.



Più reale è questa Sicilia arida, percorsa in questa valle dalle acque del fiume Salito, stente e brucianti. Il Salito: un fiume che inaridisce invece di suscitare rigoglio, un fiume che nasce tra i giacimenti di sale - salgemma e sale potassico - di questa zona della Sicilia in cui la tecnica è arrivata soltanto per strappare il minerale e non per desalinizzare le acque che darebbero vita alla terra. Un itinerario lungo, ossessivo, un viaggio quasi senza speranza. Più di diciotto chilometri sono lunghi i tralicci che permettono alla teleferica di convogliare il materiale allo stabilimento di Campofranco, dove un grande bacino artificiale raccoglie le acque del Platani. Una produzione di 250 tonnellate di solfato potassico. Ma cosa resta alla Sicilia?

Il sogno dell´industrializzazione, là dove si è realizzato, ha aggiunto aridità all´aridità: e il caso più evidente è quello della piana di Catania. Dalle dighe Pozzillo e Ancipa la piana doveva essere irrigata, mutata da granaio in giardino. Ma l´industria aveva bisogno di acqua, e subito l´acqua destinata all´agricoltura è stata sacrificata a questo sogno, a questo mito. L´acqua non scenderà mai più per questa rete di canali. Uno dei tanti sprechi, e forse il più imperdonabile che siano stati consumati in questi anni da una classe di potere impreparata e imprevidente.

La mancanza totale di acqua ha spopolato quasi del tutto di abitanti il villaggio Capparini, costruito nell´Eras - l´ente per la riforma agraria in Sicilia - non lontano da Roccamena. La famiglia che abbiamo avvicinato, una delle otto superstiti, è di San Cipirello.
Uno dei casi estremi della povertà e dell´incuria del governo nazionale e regionale è quello di Licata. Ma non è purtroppo il solo. Tutta la provincia di Agrigento soffre di una penuria di acqua addirittura inverosimile.
Licata è la città più assetata d´Italia: la sua dotazione massima arriva a 35 litri al secondo, ma in questo periodo non supera i 22, con punte frequenti fino a 14 litri al secondo. Talvolta l´acqua viene a mancare perfino trenta giorni di seguito.

Nel luglio del 1960 la popolazione esasperata per la mancanza di acqua bloccò la stazione ferroviaria. Intervennero reparti speciali di polizia che fecero fuoco sulla folla. Un giovane rimase gravemente ferito.
Anche Favara, grosso centro minerario, il cui nome arabo vuol dire sorgente, è fra i paesi più assetati della provincia di Agrigento.
Anche Agrigento, che non ha acqua nelle case, ma ne abbonda invece nel cimitero: paradosso che assurge a simbolo di soluzione metafisica di un problema che resta per i vivi insoluto.
A prova che il problema può anche essere sottratto alle soluzioni metafisiche e risolto con concreta buona volontà e competenza, abbiamo questa zona di Vittoria, in provincia di Ragusa, dove gli agricoltori, senza godere di quei contributi di solito generosamente elargiti a chi specula e inganna, si sono affaticati a trasformare un´agricoltura estensiva in colture intensive.
Tutta la costa meridionale della provincia di Ragusa è ricoperta di serre. L´iniziativa ha cambiato il volto socio-economico della zona. I prodotti pregiati delle coltivazioni comportano affari nell´ordine di miliardi. Il boom è recente: nel 1964 le serre coprivano un migliaio di ettari, oggi oltre 5000. Furono i braccianti di Vittoria che con il solo capitale delle proprie braccia impiantarono le prime serre sui terreni sabbiosi della costa. Il problema dell´acqua lo risolsero ugualmente con le proprie forze, scavando dei pozzi alle volte con mezzi rudimentali, senza aiuti di nessuno genere dallo Stato.
Una zona agrumaria fra le più importanti della Sicilia è quella intorno ai centri di Lentini e di Francofonte. Ma anche qui la mancanza d´acqua diviene di giorno in giorno più grave. La situazione invece di migliorare peggiora sensibilmente, e la produzione di agrumi rischia di essere seriamente compromessa.
Pare che il famoso biviere di Lentini, il biviere della malaria verghiana, debba essere di nuovo ripristinato in questa valle oggi coltivata da piccoli proprietari. Ma l´acqua sarà destinata all´industria e non all´agricoltura.
Lentini è diretta da un´amministrazione di sinistra. Il sindaco e gli amministratori si consultano sul problema dell´acqua. A tanta sete, della terra e degli uomini, rispondono delittuose incongruenze: questa diga del Disueri, a monte di Gela, è rimasta abbandonata e va in rovina.
La diga Disueri fu iniziata nel 1939 e portata a termine nel 1949, con una interruzione a causa della guerra. La capacità iniziale di invaso era di 14 milioni di metri cubi di acqua, ora ridotta a otto milioni per il progressivo interramento del bacino dovuto alla insufficienza e al ritardo del rimboschimento.
Finalmente si costruisce la diga sullo Jato, anche se si è arrivati ai lavori dopo tante lotte, tanti digiuni e tante marce per sensibilizzare l´opinione pubblica e per far tacere l´opposizione mafiosa. L´ultimo digiuno fu fatto a Partinico e durò otto giorni.
Quando la diga sullo Jato sarà in funzione si potranno irrigare 8500 ettari con un aumento della produzione per il valore di un miliardo e 700 milioni rispetto all´attuale, con un incremento di circa 850 mila giornate lavorative all´anno.
La diga sul Carboi, al lago Arancio, irriga circa 6000 ettari delle pianure di Menfi e di Sciacca. Domenico Messina, organizzatore e dirigente dei contadini, Vincenzo Saladino della cooperativa "Madre terra" di Sciacca, e il dottor Michele Mandiello, agronomo, ci parlano di questa diga.
E siamo a Palermo, città in anni non lontani sufficientemente rifornita dell´acquedotto di Scillato e oggi paurosamente povera di acqua, specialmente nei quartieri popolari. Sembra incredibile che questa sia la città che gli arabi vedevano circonfusa di acque, specchiata nelle acque, viva del suono e del refrigerio delle acque.
E si può dire che dopo gli arabi, nessuno si è mai provato a risolvere il problema dell´acqua in Sicilia. Vale a dire da mille anni.
Tutte le acque che si conoscono, sono stati gli arabi a scoprirle e a nominarle. Quelle acque che loro raccoglievano e che noi abbiamo lasciato perdere e disperdere. E siamo nell´era della tecnica, dei più immaginabili prodigi della scienza.  
Non si direbbe, a vedere questa disperata aria di arrangiarsi, cui sono costretti gli abitanti della più grande città siciliana per procurarsi quel minimo di acqua per bere, per lavarsi, per lavare. E la devono ai "gattopardi", a quegli antichi signori e amministratori della città che hanno ceduto ora il passo agli "sciacalli".
Quella poca acqua che c´è ha di questa ipoteche: speculazione, violenza, il profittevole giuoco della rivendita. Un bene pubblico tra i più indispensabili, è dominio del sopruso, dell´affarismo, del capriccio, della mafia.
Ma la Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ha offerto in questi ultimi tempi un documento della lungimiranza governativa su cui gli italiani e i siciliani possono fondare le più ampie speranze. Si prevedono opere per un importo di 1844 miliardi di lire: sicché nell´anno 2015 il problema dell´acqua sarà completamente e definitivamente risolto.
La Sicilia del 2015 sarà ricca di acque quanto oggi il cimitero di Agrigento. Naturalmente si aspetterà il 2014 per cominciare i lavori.

Leonardo Sciascia


LEONE GINZBURG VISTO DA NORBERTO BOBBIO

 



Norberto BobbioRitratto di Leone Ginzburg, Maestri e compagni, Passigli editore, Firenze 1984

Leone aveva il culto dell’amicizia. La sanità della sua natura si mostrava anche nel fatto che il rigore non era fine a se stesso, non aveva niente a che vedere con la pedanteria moralistica, con la puntigliosa osservanza dei doveri personali, ma era volto al perfezionamento di se stessi solo come via al miglioramento dei rapporti con gli altri. L’abituale scrupolosità nell’adempimento dei propri doveri poteva far credere che egli seguisse un’etica della perfezione; ma a contatto con gli altri, soprattutto nella cerchia degli amici, si capiva che egli aveva in mente un ideale più vasto, più comprensivo, più umano, vorrei dire, una etica della comunione. Amava la conversazione, la compagnia, il mondo: era anche un uomo di società. Non era un solitario: anzi aveva bisogno di espandersi, di comunicare, di conoscere molta gente per scambiare idee, impressioni su fatti, libri, persone, per dare e ricevere notizie del giorno (e per questo era sempre informatissimo d’ogni cosa). La rete delle sue relazioni era vasta e fittissima. Gli faceva piacere conoscere sempre nuove persone, che poi analizzava, soppesava, catalogava, e aggiungeva alla sua raccolta di tipi. Le cose di cui era più curioso, in fondo, erano proprio gli uomini vivi, con le loro virtù, vizi e stranezze (le sua segreta ambizione fu sempre quella di fare lo scrittore di racconti psicologici). Amava la compagnia dei coetanei, ma anche dei grandi, i quali in genere lo ammiravano e lo tenevano in gran conto, stupefatti della sua assennatezza, dell’equilibrio dei suoi giudizi e delle sue opinioni. Stava volentieri con le ragazze della nostra età, compagne di scuola, amiche delle vacanze, signorine della buona società: le trattava da pari a pari, senza timidezza né orgoglio, senza complessi di inferiorità né spirito di conquista; si confidava con loro e ne riceveva le confidenze. Era innamorato della loro grazia e gentilezza e di quella sensibilità femminile per le cose del cuore, che rende meno selvatica e ispida e scontrosa la vita di un adolescente. Con gli amici era affabilissimo: la pratica continua dell’amicizia rappresentò una parte importante della sua vita. Quando c’incontravamo, o andavamo a trovarlo a casa (per alcuni anni in via Pastrengo 13, poi in via Vico 2), gli si apriva il cuore. Un amico era sempre il benvenuto, l’ospite inviato dagli dèi: la mamma o la sorella preparavano una tazza di tè, alla maniera russa, squisita. Qualche volta gli amici arrivavano a gruppi:
Leone non si scomponeva, e se non c’era una seggiola per tutti, alcuni si sedevano sul letto. Ma non
chiudeva la porta in faccia a nessuno: anzi, alla festosità un po’ rumorosa dell’invasione, rispondeva con la cordialità più discreta, ma non meno festosa, di una lieta accoglienza. Quante ore della nostra vita – ore che hanno contato nel nostro destino, ore incancellabili nella memoria, intense, piene di propositi futuri e di affetti presenti, godute minuto per minuto – abbiamo trascorso accanto a quella scrivania ricoperta da una spessa carta assorbente verde, con gli occhi rivolti alla libreria di cui mi pare ancora di rivedere ad uno ad uno i dorsi dei volumi? Quelle quattro pareti sono state la nostra Accademia, la nostra Stoa, il luogo in cui si è ricevuta l’educazione formatrice, da cui si esce finalmente più adulti, più nutriti e saldi: lunghi colloqui a due, a tre, a quattro, che facevano e disfacevano il mondo, mettevano in scompiglio credenze, opinioni ricevute, pregiudizi, rovistavano i recessi più nascosti dell’anima, li mettevano a nudo, li rivoltavano sino a che non si vedesse il fondo. Talora ne uscii vinto, col senso di una sconfitta irreparabile, del fallimento; ma poi mi davo una ragione, trovavo sempre una tavola a cui aggrapparmi, e riprendevamo il filo del discorso interrotto e ricominciavamo insieme la strada. Più spesso ne uscivo scosso, turbato, col cuore in subbuglio; ma era un turbamento salutare che aiutava a fare un passo innanzi nel chiarimento di se stessi e nella comprensione della dura realtà (la realtà mi parve sempre spessa, densa, inaccessibile, e perciò inclinavo negli anni dell’adolescenza al solipsismo).
Leone mi aiutò, mi porse la mano quando ero titubante, mi incoraggiò quando ero sfiduciato;
soprattutto mi diede il conforto di un’indomita forza accompagnata da una accattivante dolcezza, un
esempio corroborante di coraggio verso gli eventi e di pazienza verso gli uomini, di rigidezza nelle idee temperate da una pudica delicatezza nei sentimenti. Era l’esempio di cui avevo bisogno per non sentirmi continuamente in balia delle mie inquietudini, inibito dal timore che avevo del mio prossimo, diviso dal conflitto che in me si combatteva tra l’attrazione degli ideali superiori e l’urto con la realtà che sentivo ingrata, ostile, soverchiante. Leone, il grande mediatore: mi mise in pace con me stesso, con gli altri, con le cose che non comprendevo, cui recalcitravo. Mi iniziò al “lungo viaggio”, che si sarebbe concluso nel “sangue d’Europa”, e abbiamo terminato, dolorosamente, senza di lui.

 


TINA MODOTTI NELLA GUERRA CIVILE SPAGNOLA



Tina Modotti lanciò nelle trincee " Viento del pueblo"

 di Miguel Hernández

Giovanni Marchetti

A sostenere la tesi è la studiosa alicantina Isabel Tejeda che ha preparato l' anno scorso a Barcellona la maggiore Esposizione sulla figura di Tina Modotti per la Fundación Mapfre.

Tina Modotti come responsabile del Soccorso Rosso in Spagna fu ad Alicante nel 1936 in due occasioni.

Una prima volta per visitare una sartoria nel Barrio de Carolinas, dove le donne cucivano della roba per soldati nel fronte ( e di questo c'è traccia in un articolo che Tina Modotti scrisse nella rivista Ayuda firmandosi col nome di María). In questo articolo Tina esaltò la figura della donna nel lavoro e il suo ruolo nella lotta antifascista.

La seconda volta Tina fu ad Alicante per l'edizione di " Viento del pueblo" di Miguel Hernández, pubblicato nel 1937 , di cui la Modotti fu testa pensante oltre che editrice.

Inoltre, nel testo appaiono 17 foto di cui 3 erano con quasi totale certezza di Tina Modotti.

"Viento del pueblo" di Miguel Hernández era un "fotopoemario" cioè un poema con foto che fu redatto proprio dal Soccorso Rosso da una idea di Tina Modotti per rianimare ed incoraggiare i combattenti repubblicani nella guerra contro il golpe fascista. Un particolare curioso: i libri " Viento del pueblo" di Miguel Hernandez furono lanciati nelle trincee repubblicane con piccoli aerei in volo.

Fu la stessa Tina Modotti ad assistere Miguel Hernández a Valencia nel 1937 in occasione del Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura.

È certo, infatti, che la Modotti oltre a conoscere M.Hernández conoscesse Rafael Alberti e Maria Teresa León oltre che Antonio Machado con cui era molto amica.



 

25 luglio 2024

SENSATION di A. RIMBAUD

 




OGGI LA REGISTRAZIONE DEL DIBATTITO SULL' OPERA DI DANILO DOLCI

 




LE SASSATE DI GIORGIO CAPRONI

 



Ho provato a parlare.
Forse, ignoro la lingua.
Tutte frasi sbagliate.
Le risposte: sassate.
#GiorgioCaproni - Sassate

CAPITALISMO, MORTE e POLITICA

 


Capitalismo, morte e politica


Gian Andrea Franchi
25 Luglio 2024

Il dominio del denaro si è affermato con la crisi delle religioni che per secoli hanno offerto alcune risposte all’angoscia per la morte. Ma una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, l’unico modo di accogliere la morte. Per mettere in discussione quel dominio abbiamo bisogno di una nuova cultura politica, abbiamo bisogno cioè di luoghi nei quali la capacità di muoversi come collettivi che riscoprono l’azione politica si interseca con l’esperienza del singolo che viene riconosciuto come tale. Appunti dalla “Piazza del Mondo” di Trieste, abitata ogni giorno dai migranti della Rotta balcanica

“Piazza del mondo” di Trieste, 22 luglio 2024. Foto di Lorena Fornasir

Tre punti di partenza ineludibili mi sembrano i seguenti: tutte le rivoluzioni sono fallite; tutti i processi di trasformazione radicale, sono in crisi, anche nell’ambito di culture non occidentali (anche lo zapatismo, ad esempio, vive difficoltà e trasformazioni); il capitalismo, con un passo di morte, ci sta portando verso il disastro sociale e biologico. In questo scenario ci sono lotte e anche tentativi di alternative, ma non sembrano in grado di produrre un cambiamento significativo in una macchina di potere globale nella quale le questioni di egemonia, come tra Stati Uniti e Cina, rendono ancora più devastanti le dinamiche politico-economiche.

    Di certo, la cultura del capitale, nata in Europa fra il XV°e il XVII° secolo, diffusa ovunque con violenza estrema, ha infranto il nesso vitale tra riproduzione della vita e produzione degli elementi vitali necessari alla riproduzione; detto con concetti più pregnanti, il capitale ha spezzato il nesso fra cura e bisogno. Ha ridotto la cura, indispensabile alla nascita e al lungo processo di crescita dell’essere umano, al minimo, confinandola nel genere femminile e facendo della produzione del necessario per i bisogni vitali un oggetto di compravendita, una merce. Il sorgere e la potente affermazione di questa dinamica storica hanno rotto il vincolo vitale dei bisogni con l’effetto di spingerli all’eccesso, moltiplicandone illimitatamente la produzione. Lo scopo, infatti, non è più la necessaria soddisfazione del bisogno, ma la produzione tendenzialmente illimitata dello scambio, cioè del valore di scambio, del denaro.

    Questa frattura fra cura (riproduzione) e bisogno (produzione) si manifesta come una ferita irreparabile all’equilibrio della vita: una ferita mortale.

    Il capitalismo ha trasformato il valore d’uso in valore di scambio, ovvero in qualcosa di quantificabile, che vuol dire di controllabile, anche se paradossalmente – un paradosso che vorrei chiamare ontologico – è proprio questo esasperato bisogno di controllo che provoca il suo contrario: la perdita di ogni controllo, siamo su una nave nel mare in tempesta.

    Mi chiedo e chiedo: come mai il valore di scambio è diventato così importante da costituire lo scopo dominante, se non unico, della civiltà che negli ultimi secoli si è imposta in tutto il mondo, al punto di mettere a rischio la vita stessa? La risposta – nella misura in cui è possibile rispondere a questa domanda – si può cercare nella crisi europea della visione religiosa della società e della vita, fra XV° e XVII° secolo, in cui è apparsa e si è sviluppata una variante che ha aperto prima un sentiero poi un’autostrada in grado di rimuovere il problema fondamentale di tutte le società, di tutte le culture: la questione della morte.

    L’essere umano è il vivente consapevole della morte: questo produce un’angoscia che deve essere elaborata o rimossa. Le religioni, in senso lato, servono appunto ad elaborare l’angoscia per la morte, attraverso rituali in cui gestire il transito dalla vita alla morte mediante l’accoglienza comunitaria del lascito del defunto.

    In questa nuova cultura, che da Marx in poi chiamiamo correntemente capitalismo, la forma fondamentale dell’organizzazione della società è ciò che, con nome di origine greca, chiamiamo economia: il nomos dell’oikos (casa o luogo della vita quotidiana), che invece dovremmo chiamare polinomìa, il nomos della polis. Questa cultura è caratterizzata dalla tendenza a ridurre i rapporti sociali a rapporti tenuti insieme da un criterio quantitativo, misurabile attraverso uno strumento di calcolo: il denaro, per cui il valore e il potere individuali, e quindi il potere sociale, si misurano essenzialmente con il possesso o il controllo del denaro diventato la forma fondamentale di relazione sociale. Il potere della ricchezza è sempre stato notevole, soprattutto nelle società più grandi e complesse, ma con il capitalismo è diventato la forma stessa del vivere sociale, non solo: della vita intera, trasformata in un magazzino di merci.

    Una società caratterizzata da una forma valoriale e organizzativa misurabile quantitativamente è risultata molto efficace proprio per il potere dell’astrazione nel rimuovere l’angoscia per la morte, eliminando nel contempo ogni forma rituale. Una società del denaro è necessariamente una società di individui contrapposti che distrugge ogni forma comunitaria, ma la comunità è l’unico modo di accogliere la morte.

    C’è una notissima riflessione storica che può aiutare a comprendere in Europa il passaggio dalla società precapitalistica, in cui il valore del denaro era anche molto forte ma non totalizzante, alla società capitalistica. Mi riferisco a Max Weber che individua la formazione di un’élite capitalistica a partire dalla cultura calvinista, soprattutto nelle sue varianti anglosassoni, in cui si elabora “l’adempimento del proprio dovere nelle professioni mondane come il più alto contenuto che potesse assumere l’attività etica”1, una cultura emigrata anche in nord America. Di questa cultura, inizialmente propria di una élite di origine borghese, Oliver Cromwell in Gran Bretagna e Benjamin Franklin in America del nord sono due figure esemplari: il primo con una terribile violenza coloniale contro gli irlandesi nella feroce convinzione, su base religiosa, che vadano educati al lavoro, analoga al “Manifest destiny” che ha guidato culturalmente l’affermazione degli Stati Uniti; il secondo offrendo l’esempio concreto di una quotidianità operosa tutta dedita all’onesto guadagno: “ricordati che il tempo è denaro”, “ricordati che il denaro è di sua natura fecondo e produttivo”, in cui risulta evidente il capillare lavoro di rimozione dell’angoscia nell’operatività quotidiana. I due aspetti sono complementari: la violenza estrema, giunta fino al genocidio e la serena operosità di ogni giorno e si sono a lungo appoggiati reciprocamente. Oggi – possiamo dire che il primo è scomparso a favore del secondo:

    “un imprenditore, Elon Musk, CEO di Tesla, ha domandato e ottenuto una remunerazione annuale di 56 miliardi di dollari. Nel vecchio capitalismo industriale (ma ancora negli anni Cinquanta) il rapporto tra il salario dell’operaio e il compenso del padrone era al massimo di 1 a 20. Negli anni 80, di 1 a 42. Nel 2000, di 1 a 120 e via via aumentando fino all’1:56 miliardi di dollari di oggi. […] la presidente di Tesla, Robyn Denholm, in una lettera ha spiegato agli azionisti che lo «stipendio», serve «a mantenere l’attenzione di Elon e a motivarlo a concentrarsi sul raggiungimento di una crescita sorprendente per la nostra azienda». Musk «non è un manager tipico» e per motivarlo «serve qualcosa di diverso»”2.

    Un chiaro esempio di come il denaro ha acquistato una valenza insieme simbolica, di altissimo status sociale, e di potere concreto.

    Il denaro si è rivelato come il fondamentale strumento di rimozione dell’angoscia per la morte nella misura in cui è uno strumento di potere in grado di diffondersi nelle società attraverso la gestione della soddisfazione dei bisogni vitali trasformata in produzione in merci: il denaro è modernamente il diaframma tra il bisogno e la sua soddisfazione. Ciò ha moltiplicato illimitatamente i bisogni, trasformando il cittadino in individuo consumatore. Il denaro è penetrato alla radice del carattere relazionale della soggettività.

    Senza denaro siamo nudi in mezzo al deserto, come i migranti che attraversano il Sahara – e anche in molti vi muoiono.

    Con il denaro siamo chiusi in una gabbia dall’estensione illimitata.

    Trasformare la vita intera in una produttrice di denaro – cioè di potere dei pochissimi su tutti, su tutto – sta però avvelenando la vita: la morte rimossa tracima dal pavimento della cella, delle innumerevoli celle della terra. Con un paradosso, che ancora mi permetto di chiamare ontologico, la morte è diventata il mercato più importante: la produzione di strumenti direttamente o indirettamente legati alla produzione di morte, in tutte le sue forme, con alto sviluppo tecnologico, come l’Intelligenza Artificiale, di cui l’esercito di Israele si serve nel genocidio di Gaza.

    In tale contesto, con un brusco salto storico ed esistenziale che contiene un sofferto nesso biografico, è inevitabile la domanda “Che fare?”.

    Colloco questa domanda nell’esperienza di vivere su un confine di Stato, di fronte, quindi, a uno strumento caratteristico di produzione di quella violenza. Arrivo allora al luogo che chiamiamo “Piazza del Mondo”: la piazza alberata di fronte alla stazione di Trieste. I migranti in fuga e in cerca che arrivano dalla Rotta balcanica mi danno – anzi: ci danno perché non può che accadere in una dimensione collettiva – l’opportunità di produrre un tentativo di risposta: il loro cammino mi spinge, ci spinge, lungo il nostro cammino. La piazza del Mondo è un luogo in cui si manifesta il fondo della soggettività: la ricerca di riconoscimento, sia come disperato bisogno di autoaffermazione che come ricerca di sé nell’altro. È un luogo, quindi, in cui traspare la prima matrice del gesto politico, che, nell’azione di massa tende a confondersi nello slancio emotivo e corporeo della moltitudine, momento necessario, di entusiasmo e di lotta, ma insufficiente – come dovremmo aver dolorosamente compreso – se non accompagnato dall’esperienza del singolo.


    LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY:


    Il tempo della singolarità e quello della moltitudine tendono a divaricarsi: il primo molto più lento e complesso del secondo, che vive di slanci. Io credo che sia nata in questa drammatica divaricazione la crisi dei periodi di azione politica radicale, come quello a cavallo degli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Ma solo un rapporto tra le due dimensioni temporali può garantire la continuità, collocando i momenti di massa lungo un cammino.

    Nella Piazza del Mondo si agitano molto concretamente, nell’incontro fra corpi, queste problematiche. I bisogni elementari, necessari, si intersecano con i bisogni di riconoscimento, il dolore fisico e psichico con la gioia, l’allegria, la frustrazione, come le lingue molteplici, la diversità di culture…


    1 Max Weber, Etica protestante e spirito del capitalismo, Sansoni 1965 (1922), p. 145.

    2 Maurizio Lazzarato, La “guerra civile” in Francia”, da Machina rivista on line.

    PEZZO RIPRESO DA: https://comune-info.net/capitalismo-morte-e-politica/