30 aprile 2017

L'arte della fotografia secondo Henri Cartier-Bresson 1 e 2

ph di Henri Cartier-Bresson

*   Finché gli esseri umani saranno vivi e ci saranno problemi veri, vitali, importanti, e qualcuno avrà voglia di esprimerli con semplicità, con sincerità, o con umorismo e comicità, ci sarà posto per i fotografi, come per i poeti e i romanzieri.

 **  Fotografare è trattenere il respiro quando le nostre facoltà convergono per captare la realtà fugace; a questo punto l'immagine catturata diviene una grande gioia fisica e intellettuale. Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore.

Henri Cartier-Bresson


 Riprendo dal mio diario FB alcuni commenti:


Cinzia Miceli: Nell' era dei selfie Cartier-Bresson avrebbe avuto vita dura. L'abilità del fotografo sta nel catturare la realtà togliendogli banalità.

Maria Ribaudo: Le popolazioni indiane erano molto diffidenti nel farsi fotografare perché credevano proprio che l'anima del soggetto fotografato venisse imprigionata proprio dentro la foto


Francesco Virga: Ancora negli anni 70, in tanti paesi siciliani e calabresi, molte persone anziane non gradivano farsi fotografare

Giovanna Nobile: “Ogni scatto è il momento massimo di un incontro, quell’attimo che inevitabilmente precede la separazione, l’obiettivo che si chiude, il buio. Amore e vita sono intimamente connessi in quest’arte ostinatamente energica ed erotica”.

ANGELO MARIA RIPELLINO, Tutto si perde








Tutto si perde in un vischioso, amorfo
disperato brulichio di amebe,
in un nauseante pantano di miele.
Tutto s’ingolfa in un giallo, in un putrido
magma di cisposa fanghiglia,
naufraga nella morchia d’una gora,
tra un funesto corale di gufi.
Tutto il tuo fervore, la tua fretta
d’incollare i frantumi della vita,
tutto l’entusiasmo con cui edifichi
in ore felici viadotti di immagini,
teatrini di parole imbellettate,
tutto è corroso dall’indifferenza,
dalla pigrizia, dal cruccio di chi ti circonda.
Tutto s’accartoccia e si deforma
nello specchio ricurvo dell’accidia,
tutto raggela in un abulico stupore,
come una vecchia città spaventata.
E intanto da ogni piega dello spazio
ammicca, guercio e beffardo, il Burlesco,
intanto squilla sempre più vicina
la lunghissima tromba del Giudizio.

Angelo Maria Ripellino, Poesie prime e ultime, Aracno 2007

LA LETTERATURA EROTICA SECONDO D. H. LAWRENCE




Letteratura erotica. Cinquanta sfumature di D. H. Lawrence


Tiziana Lo Porto

«Quel che pornografia e oscenità sono dipende, come al solito, interamente dall’individuo. Ciò che per uno è pornografia, per un altro è la risata del genio». Iniziava così la difesa dalle accuse di oscenità e pornografia scritta da D.H. Lawrence nel 1929 all’indomani dello scandalo e delle polemiche suscitate da una mostra di suoi quadri alle Warren Galleries di Londra. La difesa era un veloce e intelligente saggio dal titolo Oscenità e pornografia e insisteva sulla libertà dell’individuo di decidere rispetto alla folla cosa fosse pornografico e osceno e cosa no.
Censurati, processati, mandati al rogo, i romanzi di Lawrence ritornano oggi ad affollare gli scaffali delle librerie a fianco di recentissimi best seller che come unico comun denominatore con L’amante di Lady Chatterley o L’arcobaleno hanno l’appartenenza all’oggi più che mai vasto e vario genere letteratura erotica.
Per avere un’idea di cosa sia letteratura erotica sarà a fine novembre in libreria l’accurata Guida alla letteratura erotica. Dal Medioevo ai nostri giorni di Alessandro Bertolotti (Odoya), utile volume illustrato che fornisce un’affollata panoramica delle opere più importanti, in prosa o versi, mostrando sottogeneri, affinità e correnti. La guida cita tra i romanzi più recenti gli ottimi Camere separate di Pier Vittorio Tondelli, Scritto nel corpo di Jeanette Winterson e Una casa alla fine del mondo di Michael Cunningham, per poi proseguire con una carrellata sulle origini della letteratura omosessuale e su un’ancora più recente letteratura transgender.
Più vasto è lo scenario attuale, ampliato negli ultimi anni dalla comparsa di best seller erotici da centinaia di milioni di copie. Tra tutti: la trilogia diCinquanta sfumature di grigio di E.L. James con 125 milioni di copie vendute nel mondo e più di 5 milioni solo in Italia. Il successo di James ha generato un’infilata di volumi che, pur non raggiungendo il venduto della trilogia, si presentano come varianti della fortunata serie, e la nascita o il rilancio di case editrici (dalla Borelli Editore alla Lite Edition) e collane (Sperling Privé di Sperling&Kupfer e Hot secrets di Mondadori) che pubblicano libri hard.
Contemporanei, e sicuramente più validi, sopravvivono romanzi e racconti che fanno dell’erotismo valore aggiunto e non solo espediente per sedurre le masse. Tra i migliori ci sono la raccolta di racconti di Mary Gaitskill Oggi sono tua (che include il racconto Segretaria da cui è stato tratto il film di Stephen Shainberg Secretary), La casa dei buchi di Nicholson Baker, Carne viva di Merritt Tierce. Tutte storie più erotiche che pornografiche, per quanto sia difficile delineare la frattura tra erotismo e pornografia (in letteratura, nel cinema, nella vita), lasciando aperta la domanda: cosa distingue l’erotismo dalla pornografia? Uno dei tentativi di risposta più brillanti sull’argomento è dello scrittore americano Neil Gaiman, che in prefazione alla magnifica opera a fumetti in tre volumi di Alan Moore e Melinda Gebbie Lost Girls scrive: «Il confine tra pornografia ed erotismo è ambiguo, e cambia a seconda del punto di vista. Per alcuni forse dipende da cosa ti eccita (ciò che per me è erotico, per te è pornografico), per alcuni è una questione sociale (vale a dire l’erotismo è la pornografia per ricchi). Forse ha anche a che fare con la distribuzione – la pornografia in rete è indiscutibilmente porno, mentre un’edizione a tiratura limitata, su carta avorio, comprata da esperti, divisa e rilegata in volumi costosissimi, non può che essere erotica».
Illuminante sull’argomento, parlando di film e non di letteratura, anche il regista Michael Winterbottom che nel 2004 decise di girare il film 9 Songs per colmare quella che a suo avviso era una immotivata lacuna del cinema romantico e sentimentale. Così in un’intervista rilasciata nel 2005 alla Bbc: «Uno dei punti di partenza di 9 Songs è stato: perché nei film il sesso non si vede? Moltissimi film sono storie d’amore, perché non raccontare una storia d’amore mostrando due persone che fanno l’amore? Perché si evitano le scene in cui due persone fanno l’amore se è una storia d’amore?». La letteratura, che racconta a parole e non mostra per immagini, dovrebbe essere per sua natura più incline al sesso del cinema, rischiando meno la squalifica nel ghetto porno, anche se di censure e roghi è costellata la storia del romanzo.
Di D.H. Lawrence venne bruciato L’arcobaleno, oggi riconosciuto come il suo romanzo migliore, e fin tanto che era in vita i suoi romanzi vennero disprezzati dalla critica, evitati dal grande pubblico, e accettati come capolavori della letteratura del Novecento solo parecchi anni dopo la sua morte. Lawrence non usava il sesso a fini commerciali, ma per necessità, perché non avrebbe potuto fare altrimenti, perché quelle scene lì erano cuore e motore delle sue storie, degli eventi che raccontava, dei suoi personaggi, realistici e vivi. Nel breve saggio D.H. Lawrence scritto due anni dopo la morte dello scrittore, l’allora ventinovenne Anaïs Nin (una delle poche che, malgrado la giovane età, abbia riconosciuto sin dall’inizio la grandezza di Lawrence) insiste sulla fisicità della scrittura. Nin individua nei romanzi e racconti dello scrittore inglese un linguaggio fisico e una parola fisica, che mette il corpo prima di ogni altra cosa. L’erotismo, grazie ad autori come Lawrence e Nin, non viene più usato per scandalizzare ma per conoscere. L’esplorazione ed espressione della sessualità rende più consapevoli di quanto non riesca il ragionamento o la scrittura.
Scrive ancora Lawrence nella poesia Il sesso non è peccato...: «Non strappatelo fuori da tali profondità frugando con la sconcezza della mente, non tastatelo e non forzatelo, non infrangete il ritmo ch’esso mantiene quand’è lasciato a sé, nel muoversi e svegliarsi e dormire». E Nin, sempre nel saggio D.H. Lawrence: «Egli scoprì che il corpo aveva i propri sogni, e che ascoltando attentamente questi sogni, arrendendosi a essi, si poteva evocare il genio».

da Pagina 99, 28 novembre 2015

LA RIVOLTA DI ANDRE' BRETON




André Breton. Il sodalizio iniziale con Valéry e Vaché, i «manifesti» surrealisti, l’umorismo allucinato, le intransigenze..

Pasquale Di Palmo 

Breton all’insegna della rivolta secondo Paola Dècina Lombardi


Paola Dècina Lombardi ha sempre dedicato una particolare attenzione a quella straordinaria corrente artistico-letteraria rispondente al nome di surrealismo. Oltre a versioni che riguardano le figure più rappresentative dei cosiddetti sonni ipnotici, ovverosia René Crevel e Robert Desnos, la studiosa ha pubblicato due contributi fondamentali per la conoscenza nel nostro paese di questo movimento come Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione (2002) e La donna, la libertà, l’amore. Un’antologia del surrealismo (2008). 

Ora licenzia una sorta di biografia intellettuale di Breton a cinquant’anni dalla sua scomparsa, con il titolo L’oro del tempo contro la moneta dei tempi André Breton, piuttosto la vita (Castelvecchi, pp. 416, € 28,00), in cui richiama il valore alchemico attribuito dal capostipite del surrealismo al segno e alla parola in aperta contrapposizione con il concetto di profitto economico e perbenismo borghese.


Il libro ripercorre le vicende esistenziali di Breton, partendo dai sodalizi intellettuali della prima giovinezza, tra cui spicca quello con Paul Valéry, considerato un vero e proprio maître à penser, il cui classicismo di taglio cerebrale si rivelerà tuttavia, con il passare del tempo, molto distante rispetto ai canoni estetici e gnoseologici professati da Breton. In questo senso il vero mentore non poteva che essere Jacques Vaché, l’autore delle Lettres de guerre, che, sulla falsariga della patafisica di Jarry, adotterà degli atteggiamenti fortemente iconoclastici come quando, alla prima del dramma Les mamelles de Tirésias di Apollinaire, scandalizzerà il pubblico esibendo di fronte a tutti una rivoltella carica. 

Come non pensare allora alle boutades di Jarry, che si divertiva a sparare nei cortili e rispondeva con voce metallica alle madri preoccupate: qualora avesse colpito uno dei loro bambini, sarebbe stato disponibile a «farne degli altri»?; o allo stesso assunto di Breton, nel Secondo manifesto del surrealismo: «L’azione surrealista più semplice consiste, rivoltella in pugno, nell’uscire in strada e sparare a caso, finché si può, tra la folla»? 

Certo, si tratta di un umorismo allucinato di cui Breton stesso avrebbe fornito uno specimen nel 1940 pubblicando l’Anthologie de l’humour noir, ma che dà un’idea di quella particolare Weltanschauung che si era venuta a creare entre deux guerres, in cui le correnti più oltranziste dell’avanguardia ancora risentivano dell’influenza delle provocazioni futuriste e, soprattutto, dadaiste (Duchamp docet).


Breton diede vita a varie riviste, tra cui «La Révolution surréaliste» (undici numeri tra 1924 e 1929), in cui uscirono i testi più dirompenti del surrealismo come i due manifesti programmatici dello stesso Breton che si proponeva di scardinare i canoni stereotipati della rappresentazione artistica e letteraria attraverso una nuova concezione estetica, in parte legata alla scoperta dell’inconscio freudiano. 

È noto che una delle tecniche più importanti fu quella dell’écriture automatique che consisteva nel registrare, senza alcun tipo di sorveglianza psicologica, le immagini che di volta in volta affioravano dall’inconscio. Ben presto si distinsero in tale procedimento due personalità di rilievo come quelle di Desnos e Crevel che scrivevano i loro testi in stato medianico. Naturalmente un tale linguaggio influenzò anche gli artisti: si considerino, al riguardo, le composizioni automatiche di Masson o i disegni collettivi soprannominati cadavres exquis.

Numerosi furono i riferimenti da cui prese l’abbrivio Breton, tra i quali bisogna segnalare perlomeno la lezione di alcuni precursori come Sade, Rimbaud e Lautréamont. La teoria degli accostamenti analogici casuali rimanda espressamente all’autore misterioso dei Canti di Maldoror, il quale asseriva che «la poesia deve essere fatta da tutti, non da uno». In tale contesto vanno lette alcune sperimentazioni, non di rado sconfinanti in una dimensione provocatoriamente ludica del linguaggio, come quelle della stesura collettiva di un testo: si pensi, ad esempio, alla raccolta poetica Les champs magnétiques, uscita nel 1920 e composta da Breton e Soupault, universalmente considerata la prima opera surrealista. 


Non è un caso, d’altronde, che alcuni titoli basilari siano stati composti a quattro mani, come L’Immaculée conception di Breton e Éluard o, addirittura, a sei, come Ralentir travaux di Breton, Char e Éluard (entrambi i volumi furono pubblicati nel 1930).

Il libro della Dècina Lombardi ci accompagna lungo un itinerario artistico complesso e sfaccettato, cercando di dare un’immagine di Breton che sia il più possibile obiettiva rispetto alle schermaglie ideologiche che sono sconfinate in tentativi di carattere agiografico o nel rinnegamento più radicale (fu definito sarcasticamente «il papa del surrealismo» o Un cadavre, come recita un libello del 1930 che si rifà al documento collettivo eponimo contro il passatismo di Anatole France).

L’intransigenza del fondatore del surrealismo aveva sconfessato progressivamente l’opera degli autori che gli erano stati a fianco, seppur in circostanze e in momenti storici differenti: Artaud e Soupault, rei di non aver aderito alla svolta engagée impressa al movimento; Aragon e Éluard che prenderanno una deriva «stalinista»; Salvador Dalí soprannominato, anagrammando il suo nome, «Avida Dollars» per l’attenzione spasmodica all’aspetto commerciale dei suoi lavori; De Chirico colpevole di essersi orientato verso modelli neoclassici; Desnos che si era «svenduto» al genere romanzesco.

Bisogna tuttavia riconoscere a Breton, come fa l’autrice, di aver vissuto una vita spesa all’insegna della rivolta e di essere stato coerente con le proprie scelte, rinnegando di pari passo nazismo e stalinismo in virtù di una concezione libertaria che trova in Les vases communicants (1932) una delle espressioni più emblematiche. Il proposito era quello di coniugare rivolta rimbaldiana e dettami del materialismo dialettico, accantonando ogni tipo di dogmatismo. Ricordiamo che nel 1935 gli sarà proibito di intervenire al congresso dell’Aer di Parigi, colpevole di aver schiaffeggiato il narratore russo Il’ja Erenburg, il quale aveva scritto: «I surrealisti prediligono Hegel, Marx e la Rivoluzione, ma non hanno nessuna intenzione di lavorare» e che, durante il soggiorno messicano del 1938, firmerà con Trockij il manifesto Per un’arte rivoluzionaria indipendente.


La Dècina Lombardi, oltre a offrire un ritratto biografico a tutto tondo di Breton, ne ripercorre le opere, da Mont de piété (1919) fino a L’art magique (’57), passando attraverso testi fondamentali come Les pas perdus (’24), L’amour fou (’37), Arcane 17 (’45), facendo riferimento a una serie infinita di riviste: «Le Surréalisme au service de la révolution», «Minotaure», «VVV», «Medium», «Le surréalisme, même», «Bief», «La Brèche». 

Ma il libro che forse meglio contrassegna la beauté convulsive bretoniana (e del surrealismo stesso) è Nadja (1928) che racconta le singolari vicissitudini derivate dall’incontro fortuito con la vagabonda Léone Ghislaine che finirà i suoi giorni in un ospedale psichiatrico (ricordiamo en passant l’interesse di Breton per le dottrine di Charcot, il padre della moderna neurologia: si vedano al riguardo le fotografie sull’isteria femminile inserite in un numero della «Révolution surréaliste»). 

Le prose di questa narrazione sui generis si avvalgono di varie illustrazioni (alcune di Man Ray) che creano una felice commistione tra parola e immagine, anticipando una tendenza che attecchirà in tempi non lontani (si pensi a certi libri di Sebald). Lo stesso Breton osservava all’inizio degli anni Cinquanta: «Non voglio farvi entrare nessuna vanità, ma è generalmente riconosciuto oggi che il surrealismo ha contribuito in gran parte a modellare la sensibilità moderna». 


Il manifesto/Alias – 9 aprile 2017

29 aprile 2017

LA SICILIA DI STEFANO VILARDO


        Nino Cangemi con questa bella recensione rompe il vergognoso silenzio che sta accompagnando il nuovo libro del poeta di Delia (CL)

La Sicilia di Stefano Vilardo: selvaggia, aspra, fascinosa, “di luce e di lutto”



Ciascuno racconta la Sicilia che ha viva dentro di sé, che è custodita nel suo cuore, che palpita nella sua memoria, che pulsa nelle sue viscere. Quella che racconta Stefano Vilardo nel suo ultimo singolare romanzo, “Garibaldi e il Cavaliere” edito da Le farfalle, è la Sicilia interna, della sua Delia, del Nisseno e dell’Agrigentino, antica nei suoi riti, nelle tradizioni, nei costumi e nella sua storia fatta di soprusi, vessazioni, dominazioni subite, ingiustizie patite, illusorie conquiste, ribellioni tentate (“terra di conquista, la nostra, di razziatori, di grassatori, di lenoni, di bastardi assassini, che con la loro violenta arroganza hanno indurito, smaliziato, imbastardito il cuore di questo strano bipede orgoglioso e vigliacco; prudente, pavido, ma a volte estremamente violento, ribelle”).
E’ un’isola assolata, aspra, selvaggia, di “luce e di lutto”, fascinosa e terribile, ma vera nelle sue irriducibili dicotomie, la Sicilia protagonista del monologo del cavaliere don Pasquale Nascinbene – appena intervallato da cenni di contraddittorio del dottor Nenè Crescimanno (niente più che un espediente narrativo) –, alter ego dell’autore, vegliardo nonagenario lucido, brillante, estroso nel suo irrequieto e inquieto divagare. Un monologo, il suo, che prende l’abbrivio dalla narrazione dei fatti del bisnonno in epoca garibaldina, ma che poi si disperde nei tanti rivoli dei ricordi che si accavallano e s’intersecano disordinatamente con licenza sulle sequenze temporali perché la memoria di un uomo che ha attraversato lunghe generazioni rivendica il diritto di svincolarsi dalla prigione del tempo e di costruire, nella impetuosa affabulazione, un tempo proprio, esclusivo, autonomo.
Tra le citazioni in esergo, la prima è del fraterno amico di Vilardo Leonardo Sciascia (i due furono compagni di scuola all’Istituto Magistrale di Caltanissetta): “Il racconto è il pretesto per dire certe cose…”. “Garibaldi e il Cavaliere” è, per Vilardo, il pretesto per intrattenere i lettori con la narrazione –franca, ardita, personalissima- della sua Sicilia, che ha l’epicentro nella piccola comunità dove è nato e cresciuto, Delia, come svela il sottotitolo “Storia, racconti e folclore di un paese della profonda Sicilia”.
Ma è anche il pretesto per manifestare liberamente, senza veli, costrizioni, condizionamenti -così come in piena anarchia può esprimersi dall’alto dei suoi novant’anni don Pasquale Nascinbene –, il suo pensiero sulla vita, sugli uomini, sul falso progresso mistificatore di usi genuini, sulla religione, sulla morte. Un pensiero condito di pessimismo e ravvivato da una mai spenta indignazione civile (“Vi supplico di essere sempre indignati”, Martin Luther King, altra citazione in esergo). Sicché si scopre che, per Vilardo, l’uomo è un misto di luce e di buio, di bene e di male: “Siamo impastati, Nenè, di fertile humus o fetida fanchiglia…”, che “il più grande perdente che la storia ricordi” è “Gesù”, che “se un Dio c’è”, è “un Dio di cui non sappiamo nulla…ma se un Dio non dovesse esserci…saremmo amaramente perdenti perché non gli umili erediterebbero la terra, ma questa genia di bricconi, di debosciati che tanto in questi tempi ci deliziano”.
Un discorso a parte merita la lingua di Vilardo. Vilardo, non dimentichiamolo, si è imposto nel panorama letterario con la trascrizione in versi dei discorsi raccolti dagli emigrati di Delia e del Nisseno in Germania, che condusse alla pubblicazione di “Tutti dicono Germania Germania”, Garzanti 1975. Ha scritto diverse sillogi di versi, oltre ad alcuni romanzi e, poeta innanzitutto e poi narratore, è stato sempre attratto dallo sperimentalismo. In questa sua prova narrativa è accentuato il pastiche linguistico, la mescolanza tra l’italiano e il dialetto; ciò dà luogo a una prosa esuberante che potenzia la foga affabulatoria del monologo di don Pasquale Nascinbene. La sua è una lingua “incline alle movenze del colto, all’espressione polita, al lirico”, come nota Nicolò Messina nel risvolto di copertina, mirabile sintesi critica del testo.
Se “Tutti dicono Germania Germania” è l’opera che ha consegnato Vilardo alla storia della letteratura sull’immigrazione, “Garibaldi e il Cavaliere”è il suo testamento, l’opera che tramanda ai posteri il suo pensiero. Perciò merita un posto nelle librerie dei cultori della nostra letteratura.

Recensione ripresa da   http://www.siciliainformazioni.com/ 27 aprile 2017

DANILO DOLCI E GOFFREDO FOFI. 1 e 2

Goffredo Fofi e Danilo Dolci nel 1957

CON VIOLENZA E CON AMORE
Intervista a Goffredo Fofi
di Marcello Benfante

È un fiume di parole, Goffredo Fofi. La sua voce pulita, in cui s’indovina dolcezza e ironia, corre rapida a ripercorrere i lunghi anni del suo rapporto con Palermo e la Sicilia. Il 29 aprile, quasi festeggiare il suo ottantesimo compleanno caduto due settimane fa, Fofi riceverà la cittadinanza onoraria di Palermo, un riconoscimento, ci dice, che lo riempie di gioia.
“Il mio rapporto con Palermo dura da sessant’anni e comincia con Danilo Dolci che mi spinse, anzi mi istigò, nel 1957 a calarmi nella realtà del Cortile Cascino, dove ho trascorso un anno, intenso e terribile, precipitando dentro la vita, con violenza e con amore. È stata un’esperienza in qualche modo mistica, come nel Medioevo quando i santi venivano gettati nella fossa dei serpenti e ne uscivano miracolosamente intatti. Da quella comunità di circa un migliaio di persone - ché i miei rapporti non erano soltanto con i bambini, ai quali insegnavano, appena diplomato maestro, le nozioni più elementari - ho imparato tutto. Il Cortile Cascino, dico sempre, è stata la mia università. E lì che ho imparato a sentire la necessità di occuparmi del prossimo, che la cultura è fatta di rapporti umani e significa in primo luogo comprensione dei bisogni sociali.
A quel tempo chi faceva volontariato era una piccolissima minoranza. Ci si conosceva tutti, in Italia. Avevamo grandi speranze di poter cambiare il mondo con il nostro intervento, che oggi sono svanite del tutto. Oggi il volontariato costituisce una vasta maggioranza che ovviamente non ha alcun interesse a cambiare davvero e radicalmente la società, ma soltanto, nella maggior parte dei casi, a ricavare e mantenere un proprio utile”.
Ma anche dopo il drammatico esperimento del Cortile Cascino, tu hai mantenuto un rapporto privilegiato con la realtà palermitana.
“Non ho mai cessato di dialogare con Palermo. Anche nel ’68, con Vincino e con altri. E poi soprattutto dopo le stragi mafiose del ’92 con un gran numero di persone da Letizia Battaglia a Ciprì e Maresco, da Roberto Alajmo a Roberta Torre o Emma Dante, e poi gli amici delle riviste, più o meno piccole, da Segno a Nino domani a Palermo. A un certo punto, in quegli anni di rinnovamento e di ribellione, cercai di convincere Vincenzo Consolo a tornare in Sicilia, ma lui giustamente se ne guardò bene. Il mio cuore è rimasto molto attaccato a questa città. Di Gubbio, dove sono nato, amo soprattutto le pietre, il sentimento che ho con i morti, di cui ascolto la voce. La Sicilia è stata per me la scoperta della vita. Allora, quando vi giunsi la prima volta, la Sicilia era davvero una nazione, vi accadevano fatti che realmente incidevano sul corso della storia. Ricordo, per esempio, quando ci recammo, io, Ciccio Busacca e Ignazio Buttitta a trovare la madre del sindacalista Turi Carnevale ucciso nel ’55 dai mafiosi, in una Sciara desolata, con la gente rintanata che ci guardava e ci ascoltava da dietro le persiane socchiuse. Era un altro mondo. Oppure la prima volta che ho assistito all’Opera dei Pupi. E quando ho visto in un piccolo teatro una coppia di comici quasi sconosciuti: Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. E poi c’era ovviamente anche la Palermo colta, illuminata, quella del diritto. Nino Sorgi, per fare un esempio significativo. Sono stati anni di straordinaria formazione non solo intellettuale. Palermo mi ha dato moltissimo. Assai più di quanto ho potuto darle io”.
A un certo punto è avvenuto un distacco, forse doloroso ma necessario, da Danilo Dolci e soprattutto da una certa metodologia dolciana di inchiesta e di organizzazione politica…
“Danilo Dolci era un agit-prop straordinario, un leader di grande lucidità politica, ma accadeva che talvolta si chiudesse nelle proprie riflessioni, e ciò rendeva difficile il dialogo. Aveva un modo gentile ma perentorio di chiudere le conversazioni con questa frase: “Io capisco quello che vuoi dire tu e tu capisci che voglio dire io”. Dopo di che il discorso era finito. Si alzava e se ne andava. Un po’ alla volta molti compagni si staccarono e intrapresero una strada diversa, soprattutto un’ala più libertaria. Poi arrivò lo sviluppo, ovviamente distorto. Si costruirono le dighe. E anche questa crescita malsana andava a scardinare le battaglie di emancipazione fin allora condotte dai contadini. Tentammo una breve esperienza simile in Calabria, ma il movimento non attecchì. Allora Raniero Panzieri, che era stato dirigente del PSI in Sicilia, mi suggerì di andare a Torino. Era lì che si spostava lo scontro di classe, perché i contadini emigravano, si inurbavano e diventavano operai. Ma anche a Torino, dove lavoravo all’Einaudi, continuò il mio rapporto con la Sicilia. Tra i primi libri di cui curai l’editing vi fu “L’isola appassionata” di Bonaventura Tecchi, uno scrittore allora molto importante. E subito dopo “Mafia e politica” di Michele Pantaleone, che tante querele e cause gli portò. Di Pantaleone ricordo le meravigliose lenticchie di Villalba che ci portava!”.
Palermo oggi sta attraversando un periodo controverso, forse di stasi e forse di rinascita. Recentemente è stata insignita del gratificante titolo di capitale italiana della cultura 2018. Come giudichi questa stagione culturale di Palermo?
“Io non credo più alla cultura, ormai. Mi sembra, per usare un linguaggio antico, un modo per ingannare il popolo. La cultura oggi serve a far girare il denaro e addormentare la gente. Io penso che una cultura slegata dall’azione, da un concreto operare per trasformare la società, sia soltanto una forma di narcisismo. Per cui se questo titolo di capitale della cultura potrà far nascere iniziative volte alla conoscenza della realtà nell’ottica di un cambiamento, di un riscatto collettivo, allora ben venga. Altrimenti non credo serva a molto”.

(Republica-Palermo 29 aprile 2017)


Riprendo di seguito due commenti presi dal mio diario FB:

Giovanna Nobile la diga appartiene alle crescite malsane? non capisco. Incontrai Fofi a Pisa durante le celebrazioni del cinquantesimo dello sciopero alla rovescia di Danilo e fu un evento straordinario. C'era anche Paolo Benvenuti il regista di SEGRETI DI STATO e Alberto Castiglione che aveva realizzato da poco MEMORIA E UTOPIA. Furono giornate intense di presenze legate a Danilo e Fofi mi dette l'impressione (che poi divenne per me certezza) di avere nei confronti di Danilo qualcosa in sospeso.
Francesco Virga Non credo che Goffredo addebiti a Danilo lo sviluppo distorto che ha avuto la nostra isola. Fofi in questa intervista, come in tanti altri luoghi, pur riconoscendo i meriti di Dolci ne ha segnalato i limiti ( di cui nessun uomo, per quanto grande, e' privo). In particolare ha voluto ricordare un tratto tipico del suo modo di relazionarsi con i collaboratori piu' autonomi e critici. Al riguardo posso riferire la mia modesta esperienza diretta: dopo circa due anni di lavoro al suo fianco, a meta' degli anni 70, non appena cominciai a fare qualche osservazione critica sul suo operato, mi chiamo' in privato e con la sua consueta elegante arte oratoria mi disse: caro Franco, ormai sei cresciuto e puoi camminare con le tue gambe. Vai a costruire un Centro Studi a Marineo!

Giovanna Nobile la tua esperienza è stata anche quella di Pino Casarrubea e qualche altro. Da un lato, da ciò che hai scritto, mi sembra una nota di pregio nei tuoi confronti (visto ciò che hai prodotto e produci aveva ragione lui) e dall'altra ho sempre pensato che chi ha un progetto a lungo termine come aveva lui nella sua mente, va avanti come un treno nella notte. Non ho strumenti per valutare il suo operato tranne quelli sotto gli occhi di tutti, tipo la diga e i suoi scioperi per la fame della nostra terra, fame di tutto ciò che poteva portare fuori dalla miseria la nostra gente. L'ho avuto come vicino di casa e amico di famiglia oltre alla frequenza di mio fratello e il suo volerlo sempre al fianco tanto che Libera (sua figlia) una volta mi disse QUANDO VEDO GIUSEPPE VEDO MIO PADRE.
Per quanto riguarda Fofi, resto sempre molto perplessa.


26 aprile 2017

LA RESISTENZA TRADITA DI BEPPE MARIANO




I poeti hanno visto sempre meglio di tutti. Per questo oggi ripropongo due poesie di Beppe Mariano, conosciute grazie all'amica Maria Silvia Caffari, dedicate al 25 aprile tradito:

PARTIGIANO RAGAZZO

Predato negli affetti, non ti bastava voce
per nominare i caduti, partigiano ragazzo,
mio più adulto compagno di giochi.

Ricordo l’alba in cui ti tradussero per
Savigliano, spensieratamente discutendo
se fucilarti all’aperto o in una stalla.

Comparve nei tuoi ultimi istanti
la ragazzina degli aquiloni. Era una tua,
una nostra compagna di giochi,

che forse sbandata da una corsa
s’era ritrovata là ad interrogare
la tua apparizione senza comprenderla.

Sarà viva ancora, ancora ricorderà?

Reusa neira ancreusa,
torment dla controra, stissava
ant la ment, come da ‘n mal sarà
rubinèt el maleur d’esse naà.

(Rosa nera sprofondata,
tormento della controra, gocciolava
nella mente, come da un mal chiuso
rubinetto la malora d’esser nato.)

Le tue palpebre, ali di rondini sgomente,
sbatterono sotto un cielo capovolto.

Poi ti esibirono per spregio sul carro
del letame, arrovesciato nel tuo sangue,
come un vitello. Nulla vi era di solenne

nell’erba, né cielo che ti aureolasse;
nulla di tutto ciò che oggi
si grida spavaldamente ai cortei
con parole che diventano pietre.

Ma è sufficiente oggi ricordare?

El casermon dle torture a la fin
mon dòp non a l’è stait spianà. Bin.
Mach na muraja a l’è restà, d’amoniment.
quand i pass davsin, la ment as gela
al crijs-clin dij cornajass.

(Il casermone delle torture alla fine
mattone dopo mattone è stato spianato.
Solo un muro è rimasto, d’ammonimento
quando vi passo vicino, la mente si gela
al grido stridente dei corvi.)

Lungo ghirigori rondineschi, ero rimasto
poi il ragazzo con gli stessi giochi
di prima, ma diminuito di te.

Crebbero gli anni in misura d’urgenze
sempre nuove, implacabili:
recinzioni della mente, questa volta.

Perché ti sono sopravvissuto?
Ciò che adesso vivo t’apparteneva.
e ancora t’appartiene.
Che senso ha tutto questo?

A volte mi sembra di amare la stessa
donna che tu avresti amato. Ogni giorno
temo oroscopi nucleari.

Ogni giorno mi domando se convenga
vivere entro morbida recinzione,
o non già rincorrendo l’oltre.

Difficile eredità la vita che mi lasciasti.

Beppe Mariano, 1975


I superstiti si sono riuniti
Aspettano di ripartire.

Con gli scarponi ammuffiti,
i fucili d'antiquariato.

Si apposteranno ancora una volta
sulle stesse colline di allora.

Ad aspettare il nemico
si apposteranno, pazienti.

Ma più non sanno chi sia il nemico.
Molti, troppi hanno tradito.

Beppe Mariano, 1977

GRAMSCI E' ANCORA VIVO A TORINO


(ANSA) - TORINO, 26 APR - Moriva ottant'anni fa Antonio Gramsci e la sua città d'adozione, Torino, lo ricorda domani, 27 aprile, nel giorno esatto della sua morte , con una no-stop al Polo del '900. A un dibattito su "Gramsci e la crisi della politica", seguiranno un aperitivo sardo e uno spettacolo teatrale. Al dibattito parteciperanno Mauro Calise, docente all'Università di Napoli oltre che presidente della Società italiana di scienza politica e Fabio Bordignon, docente all'Università di Urbino. "Tutto tranne Gramsci", ispirato a "Le donne di casa Gramsci" di Mimma Paulesi Quercioli, per la regia di Susanna Mameli, è un omaggio alla madre di Gramsci, ma anche agli affetti familiari del grande politico e intellettuale italiano. Le iniziative proseguiranno con il concorso per giovani artisti under 35 che saranno premiati a dicembre assieme ai vincitori del Premio Giuseppe Sormani.Infine il 10 ottobre il Polo del '900 ospiterà la mostra su "Antonio Gramsci e la Grande Guerra",allestita per la prima volta a Roma nel febbraio scorso.(ANSA).
   
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