29 febbraio 2016

UNA MOSTRA DI S. SALGADO DA VEDERE A GENOVA



 Genesi è l’ultimo grande lavoro di Sebastião Salgado, il più importante fotografo documentarista del nostro tempo.

Uno sguardo appassionato, teso a sottolineare la necessità di salvaguardare il nostro pianeta, di cambiare il nostro stile di vita, di assumere nuovi comportamenti più rispettosi della natura e di quanto ci circonda, di conquistare una nuova armonia.

Il mondo come era, il mondo come è. La terra come risorsa magnifica da contemplare, conoscere, amare. Questo è lo scopo e il valore dell’ultimo straordinario progetto di Sebastião Salgado.

In mostra oltre duecento fotografie eccezionali: dalle foreste tropicali dell’Amazzonia, del Congo, dell’Indonesia e della Nuova Guinea ai ghiacciai dell’Antartide, dalla taiga dell’Alaska ai deserti dell’America e dell’Africa fino ad arrivare alle montagne dell’America, del Cile e della Siberia.

Genesi è un viaggio fotografico nei cinque continenti per documentare, con immagini in un bianco e nero di grande incanto, la rara bellezza del nostro principale patrimonio, unico e prezioso: il nostro pianeta.


SEBASTIÃO SALGADO
GENESI
Palazzo Ducale – Sottoporticato
piazza Matteotti 9 – Genova
 
Progetto di Contrasto e Amazonas, organizzazione Civita. 

BENEDETTO CROCE E ALBERT EINSTEIN



150 anni fa nasceva Benedetto Croce, un filosofo forse un po' frettolosamente messo da parte dopo le scorpacciate che ce ne hanno fatto fare fino agli anni '60. Un personaggio interessante per molti aspetti, come il rapporto intessuto con Einstein. Per non parlare dell'influenza decisiva che ha avuto nella formazione del pensiero di Antonio Gramsci.

Vincenzo Barone
Croce e il suo amico Einstein


«La gente si lamenta che la nostra generazione non abbia filosofi. Non è assolutamente vero: solo che i filosofi, oggi, stanno in un’altra Facoltà, e si chiamano Planck e Einstein». Così si esprimeva nel 1911 un illustre intellettuale tedesco, il teologo e storico Adolf von Harnack, nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Società Kaiser Wilhelm.

Il dominus del pensiero nostrano, Benedetto Croce, era di parere opposto: riteneva che gli scienziati dovessero fare il loro mestiere – cioè «maneggiare e classificare» –, senza intromettersi in faccende riguardanti la filosofia e il «vero». In quello stesso 1911, il matematico Federigo Enriques organizzò a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Chiamò a parteciparvi i più importanti filosofi dell’epoca, ma anche grandi scienziati come Peano, Poincaré, Langevin (quest’ultimo, dovendo parlare di relatività a una platea di umanisti, introdusse proprio in quell’occasione il cosiddetto «paradosso dei gemelli»).

Croce presenziò con un certo fastidio alle sessioni del congresso. Durante il viaggio di ritorno, rilasciò una famosa intervista in cui, senza mezzi termini, accusava Enriques di incompetenza e di dilettantismo filosofico. «Si addossa le fatiche dei congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici», disse. Enriques, però, era uno storico e filosofo della scienza di prim’ordine, mentre la matematica di Croce non andava oltre le quattro operazioni. Né il pensatore napoletano riteneva opportuno approfondire le scienze astratte ed empiriche, alle quali non attribuiva valore conoscitivo.
    Einstein con Enriques a Bologna nel 1921
Ancora nel 1951 (quando ormai la rilevanza concettuale delle scoperte scientifiche del Novecento era incontestabile), parlava di una «tranquilla rivoluzione filosofica» compiutasi nella prima metà del secolo, che sarebbe consistita nel fatto che «le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente a che vedere con la meditazione del vero».

Com’era scontato, Croce non avvertì il bisogno di esprimere un’opinione sulla teoria della relatività, neanche quando, nei primi anni Venti, in occasione della venuta in Italia di Einstein (su invito proprio di Enriques), molti altri filosofi italiani (per esempio, Antonio Aliotta, Annibale Pastore, Francesco Orestano) ritennero di pronunciarsi. Ruppe parzialmente il silenzio solo nel 1929, in un breve scritto di commento a un libro dello studioso tedesco Alexander Maria Fraenkel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce (tradotto per Laterza solo nel 1952).
Convinto dell’impossibilità di principio di una filosofia della natura, Croce si diceva scettico riguardo al tentativo, attuato da Fraenkel, «di dimostrare che il progresso della scienza, che sarebbe rappresentato soprattutto dalla dottrina della Relatività, ha importanza filosofica e trasforma profondamente la vecchia scienza fisica e naturale, rendendo possibile per la prima volta in questo campo, non il semplice ordinamento classificatorio dell’esperienza, ma il giudizio dell’individuale, affatto analogo al giudizio storico a cui mette capo la Filosofia dello spirito». «Non oso decidere - aggiungeva retoricamente - se abbia ragione esso [Fraenkel] o l’Einstein con gli altri matematici e fisici della nuova scuola; esso che chiama filosofiche le loro scoperte e filosofi quegli scienziati; quelli che protestano contro l’interpretazione filosofica delle loro escogitazioni».
Croce era nel giusto quando respingeva come priva di senso l’interpretazione soggettivistica della relatività, ma lo faceva solo per difendere la purezza dell’idealismo, visto che considerava i concetti della teoria einsteiniana, come tutti i concetti scientifici, nient’altro che «pseudogiudizi riferiti a una fictio». Del tutto infondato, poi, era l’agnosticismo filosofico che pretendeva di attribuire al padre della relatività: con buona pace di tutti gli idealisti, era stato Einstein – assieme ad altri fisici come Schrödinger, Heisenberg, Dirac - a compiere la vera (e non così tranquilla) rivoluzione filosofica del Novecento. 

Croce e Einstein non potevano evidentemente incontrarsi sul terreno della scienza e della filosofia, ma trovarono elementi di intesa e di stima reciproca nel campo della politica e degli ideali civili. I due si conobbero a Berlino nel 1931, scoprendo di condividere lo stesso sentimento di preoccupazione per le sorti dell’Europa. Anni dopo, nel 1940, quando la tragedia della guerra si stava già consumando, contribuirono entrambi a un volume sulla libertà (Freedom: its meaning), edito a New York, che raccoglieva gli interventi di molti altri grandi intellettuali dell’epoca.

Nel 1944, all’indomani della liberazione di Roma, Einstein inviò a Croce una lettera di stima e di incoraggiamento per l’importante ruolo che il filosofo stava svolgendo nella ricostruzione della democrazia italiana (la lettera, assieme alla risposta di Croce, fu pubblicata dapprima in opuscolo e poi nella raccolta crociana Pagine Politiche, Laterza, 1945). «Mi consolo – scriveva il grande fisico – nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro».
E proseguiva: «La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza».

Croce rispose cordialmente, dicendo di aver dovuto prendere temporaneo commiato da quel mondo spirituale di cui parlava Einstein, per partecipare direttamente alla vita politica e allo sforzo collettivo per la rinascita del paese. La filosofia, osservava, «è un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare». Alla fine della lettera, si scusava con l’illustre amico per essersi dilungato in ragionamenti: «Naturam expelles furca, tamen usque recurret» («Potrai scacciare la natura con la forca, ma essa ritornerà sempre»), scriveva, citando Orazio e riferendosi alla natura del filosofo, «che distingue e teorizza». La stessa massima, ironicamente, potrebbe applicarsi al suo spiritualismo: scacciata dalla forca del Filosofo, la Natura finisce sempre per tornare.

Il Sole 24 Ore – 28 febbraio 2016

NAPOLI E BENEDETTO CROCE


Esposti a Napoli gli autografi che compongono «Storie e leggende napoletane» di Benedetto Croce: una serie di splendidi documenti che costituiscono una guida sentimentale (e filosofica) della città

Napoli secondo Croce

di Erminia Pellecchia

«Quando levandomi dal tavolino, mi affaccio al balcone della mia stanza da studio, l’occhio scorre sulle vetuste fabbriche che l’una incontro all’altra sorgono all’incrocio della via della Trinità Maggiore con quelle di San Sebastiano e Santa Chiara… A me giova, all’ombra degli alti tetti e tra le angustie delle vecchie vie, riparare nella più vasta ombra delle memorie…». Così si apre Storie e leggende napoletane di Benedetto Croce, il volume pubblicato per la prima volta nel 1919 con Laterza e in cui raccoglie, con la dedica all’archivista e studioso Bartolomeo Capasso, una serie di scritti, soprattutto giovanili, su Napoli, sulla sua anima colta e popolare, sui suoi palazzi e le sue chiese, sulle strade dove si respira ancora la storia di un’antica civiltà. «Perché – spiega il filosofo nell’avvertenza – il legame sentimentale con il passato prepara e aiuta l’intelligenza storica, condizione di ogni vero avanzamento civile e soprattutto assai ingentilisce gli animi». Gli “autografi” di quello che Giuseppe Galasso, curatore dell’edizione del 1999 per Adelphi, definisce un «incantevole libro, che ci aiuta come pochi a capire Napoli e le sue disparate vicende», sono conservati alla Biblioteca nazionale.
Ed è dalla loro esposizione che parte il progetto, sicuramente tra i più interessanti dell’ampio pacchetto del Forum delle Culture, della scoperta di Napoli vista con gli occhi di Croce: una mostra, appunto, questa alla Nazionale, dove, tra l’altro, si possono ammirare anche rare carte geografiche, splendidi disegni acquerellati, antichi testi a stampa, pregiate xilografie, incisioni e litografie; e una serie di itinerari che condurranno il visitatore in una sorta di viaggio nel tempo e nello spazio alla ricerca di volti, parole, suggestioni e luoghi della città che l’intellettuale abruzzese, «il pensatore che cammina», amava intensamente. Lo ricorda la nipote, Marta Herling, segretario generale dell’Istituto italiano di studi storici, fondato da Croce nel 1946, che con l’Accademia Pontiana, la Società di scienze, lettere e arti, l’Istituto italiano per gli studi storici, la Società napoletana di Storia patria e la Fondazione Premio Napoli, ha dato vita a questo singolare Maggio dei monumenti: conferenze, letture, incontri, visite guidate teatralizzate: un nutrito programma che, già dal suo via il 1 maggio, ha richiamato un folto pubblico e che punta tutto su di un’identità culturale spesso messa in discussione da cronache di degrado e di violenza.

benedetto croce2

Spenti i riflettori sulla kermesse, il «diario di Croce» può diventare lo spunto per un tour fai da te sulle tracce sbiadite della “Napoli nobilissima”. Come punto di partenza l’osservatorio privilegiato di palazzo Filomarino, che il senatore aveva acquistato per abitare la casa dove aveva trascorso la vita Giambattista Vico. Siamo a Spaccanapoli, il cuore antico della Neapolis greca e dei decumani. «Mi pare quasi di toccare il campanile di Santa Chiara», scrive il senatore-letterato che, da subito, innesta, nella descrizione dell’area segnata dalla devozione degli angioini per il Poverello d’Assisi, le storie dell’amore non corrisposto della dolce regina Sancia di Maiorca, che trovò conforto tra le mura claustrali del monastero fondato col marito Roberto d’Angiò, e quella di Giulia Gonzaga, che dimorò nel vicino e più modesto San Francesco delle Monache, facendone un centro spirituale, considerato eretico dall’Inquisizione.
Le figure femminili sono al centro dell’indagine crociana. Sembra quasi ispirata agli amori di Paolo e Francesca, il dramma che si svolge nel sedile Capuana: Caterina-Tirinella Capece, sposa quindicenne di un vecchio vedovo, si innamora, ricambiata, del veneziano Alvise Dandolo; i figliastri li scoprono e li trucidano.  Ci spostiamo tra il duomo e il porto. Nel fondaco del Malpertugio svolge i suoi affari madonna Flora, la Fiordaliso di Boccaccio che menò per il naso Andreuccio da Perugia. Procediamo verso il Maschio Angioino. Tutt’altro tipo di “cortigiana” è Lucrezia D’Alagno, favorita di Alfonso d’Aragona, con il quale, secondo le testimonianze dell’epoca, ci sarebbe stata solo una liaison platonica, giacché la patrizia di origini amalfitane, puntava soprattutto alla corona e usò tutte le sue arti – perfino con papa Callisto III Borgia – per far ottenere, inutilmente, l’annullamento delle nozze del reale amante con Maria di Castiglia. La sua bellezza è scolpita bell’arco trionfale di Castel Nuovo, novella Partenope a guida di un re che, con quell’opera, voleva testimoniare l’avvento della sua dinastia.
Restando in Casa d’Aragona, siamo sul finire del Quattrocento, ecco la sventurata Isabella del Balzo, coivolta con il marito Federico tra ribellioni e guerre. Perderà il marito e due figli, l’erede al trono Ferrando condotto prigioniero in Spagna. Il ricordo di «quelli re nostri poveri» è affidato a Iacopo Sannazzaro. Nella villa sul declivio di Posillipo, la sua poesia «era un perpetuo spettacolo di campagna e mare». Qui volle edificare una doppia chiesa, dedicata alla Madonna del Parto, a san Nazario. Qui c’è la sua tomba e, tra gli arredi, il dipinto di San Michele Arcangelo, battezzato dal popolino «Il diavolo di Mergellina». Già, perché il dragone ha il volto bellissimo di Vittoria d’Avalos che tentò di sedurre il cardinale Diomede Carafa. Dall’altro capo di spiaggia c’è Chiaia, di cui Croce ricorda lo scoglio di “messer Leonardo” dove ragazzi e ragazze mangiavano frutti di mare e facevano l’amore. Una “piaggia” sparita per la grandeur di Ferdinando IV di Borbone che affidò l’incarico a Carlo Vanvitelli di costruire un “real passeggio”, la “Tuglieria” napoletana, con la Villa delle delizie, dove, sulla fontana maggiore troneggiava il gruppo originale del Toro Farnese (oggi al Museo archeologico nazionale).
Passato e presente, luoghi cancellati da trasformazioni urbane, come l’isolotto di Nisida, che prende il nome dalla ninfa amata da Giove e Posillipo. È per Croce il simbolo della Napoli perduta, lo stimolo a recuperare «con amorosa sollecitudine i più piccoli rimasugli di leggende popolari». Ecco Niccolò Pesce capace di intrattenersi per giorni immerso nelle acque, scolpito in un bassorilievo di fronte a Mezzocannone. Ecco la lussuriosa Giovanna, che ammazzava mariti e amanti di una notte. Ma quale delle due regine di casa d’Angiò: la nipote di re Roberto o la sorella di re Ladislao? Confuse nella storiografia e nei racconti popolari. La sua dimora, su uno scoglio di Posillipo, è abitata da spettri. Si vuole che si tratti di palazzo Donn’Anna, residenza della duchessa Anna Carafa che, folle di gelosia, avrebbe fatto avvelenare la nipote Mercedes. Ancora una sovrapposizione di donne sanguinarie, ancora una storia di amori maledetti che sollecita la curiosità di noi erranti nella Napoli dei misteri.

Da  http://www.succedeoggi.it/2014/05/napoli-secondo-croce/

28 febbraio 2016

IL MISTERO IRRISOLTO DI HIERONYMUS BOSCH




Chi era veramente Hieronymus Bosch, l'ultimo grande artista medievale, continua a sfuggirci.
Dario Pappalardi
Bosch
Alla fine i misteri restano. Non bastano sette anni di studi, un pool internazionale di ricercatori, il coinvolgimento di decine di musei, un catalogo di opere ridiscusse e passate letteralmente allo scanner. E questa mostra, che con venti dipinti dati per certi e riuniti per la prima volta, più 19 disegni, ma anche con oggetti, sculture e quadri del tempo, celebra – a 500 anni esatti dalla morte – l'ultimo uomo che ha dipinto il Medioevo.
No, chi era veramente Hieronymus Bosch non si capisce nemmeno qui, a Den Bosch, la città olandese dove tutto è cominciato ma quasi nulla è rimasto. Hieronymus van Aken nasce a Den Bosch intorno al 1450. E qui torna mezzo millennio dopo con l'allestimento di Hieronymus Bosch. Visioni di un genio, da ieri (e fino all'8 maggio, a cura di Matthijs Ilsink e Jos Koldeweij;www. bosch500. nl) al Noordbrabants Museum, l'istituzione diretta da Charles de Mooij che ha lanciato il Bosch Research and Conservation Project a cui si deve un nuovo studio critico e il restauro di nove opere.
A Den Bosch – "il bosco" – da cui prenderà il nome, l'artista rimane tutta la vita. Non c'è testimonianza di un solo viaggio. Lavora nell'atelier sulla piazza del mercato: ancora si vede l'esterno del palazzo dove visse. Ma i documenti che lo citano si contano sulle dita di una mano. Si trovano nell'archivio dei libri di conti della Confraternita di Nostra Signora, a cui i van Aken appartengono. Tre sono esposti in mostra. Due riferiscono che Hieronymus ospita i confratelli per la cena tradizionale a base di cigno, nel 1498-99 e poi dieci anni dopo. Il terzo foglio registra il funerale del pittore, tenutosi nella cattedrale di San Giovanni il 9 agosto 1516.
Oltre a questi manoscritti, le certezze sono pochissime. Il suo mistero sembra quello di Omero o di Shakespeare. Bosch è il primo artista figurativo a costruire quasi dal nulla un immaginario nuovo, un mondo di visioni uniche, che porta solo il suo marchio. Tolkien, Disney, George Lucas si sarebbero affacciati sul pianeta Bosch per fondare il loro. Per tentare di avvicinarsi all'origine degli incubi di Hieronymus, alle sue "guerre stellari", ci si può arrampicare sui ponteggi esterni della cattedrale di San Giovanni, ora in restauro. Ma tra i gargoyle, le bestie, gli angeli e i demoni e un'unica donna che si inerpicano sulla chiesa, non si trovano quelle figure postumane, i corpi ibridi, gli anfibi e gli umanoidi delle tavole dell'artista.
La mostra prende il via da due libri: il breviario di Giovanna di Castiglia, moglie di Filippo il Bello, committente di Bosch, e La Nave dei folli del tedesco Sebastian Brant, tradotto in Olanda nel 1500. Sono due testi che suggeriscono un'iconografia di partenza e il clima di fermento morale che influenza gli artisti nei Paesi Bassi.
Il Medioevo fiammingo è agli sgoccioli. Erasmo da Rotterdam è a pochi passi. In meno di vent'anni, Martin Lutero sconvolgerà l'Europa. Hieronymus respira l'aria e attraverso di lui è come se l'età di mezzo celebrasse l'ultimo esorcismo, si liberasse fino in fondo dei suoi mostri su quelle tavole dipinte. Accade nel frammento con La Nave dei folli del Louvre, una inconsapevole zattera della Medusa, dove ognuno combatte la sua guerra, anche cantando. E poi in quel set teatrale che è la Morte dell'avaro della National Gallery di Washington.
L'uomo di Bosch – come nel tondo del museo di Rotterdam – è un vagabondo con una scarpa e una pantofola sullo sfondo di un mondo in dissoluzione. «Ogni carne è fieno» dice il profeta Isaia. E il pittore segue questa traccia per costruire il Trittico del Carro del fieno in arrivo dal Prado. È una processione divisa in tre, dal Paradiso all'Inferno. In mezzo, la cieca avidità che porta re, monaci e mendicanti ad accaparrarsi una inutile porzione di fieno. Non lo sanno, ma si stanno dirigendo tutti verso il fuoco eterno e torture inedite: il terzo pannello è un fantasioso campionario di sadismo.
Anche nei soggetti religiosi apparentemente più semplici, Bosch inserisce dettagli "lunari". Il Battista di Madrid medita perso in una vegetazione antropomorfa, sullo sfondo un orso divora un cervo e una scimmia si arrampica sull'albero. Gli uccelli beccano i semi di un frutto sproporzionato e l'agnello, attributo iconografico del santo, sembra quasi fuori posto. Il San Girolamo di Gand prega davanti a uno stagno, tra zucche rotte e psichedeliche, mentre il suo leone è ridotto a un piccolo animale domestico.
Il Bosch Research and Conservation Project ha censito 24 dipinti "certi". Uno è attribuito per la prima volta: La tentazione di Sant'Antonio del Nelson-Atkins Museum of Arts di Kansas City. A vederlo sembra fratello dello stesso santo del Trittico degli eremiti prestato dall'Accademia di Venezia. Per un Bosch nuovo che arriva almeno tre eccellenti sono stati "espulsi" dal catalogo ufficiale. Sono: i Sette peccati capitali, La pietra della follia e Le tentazioni di Sant'Antonio: tutti dal Prado. Madrid, che non ha prestato il capolavoro totale – Il giardino delle delizie – si prepara alla battaglia con la mostra che celebra il "suo" El Bosco al Prado dal 31 maggio, ribadendo la paternità delle opere.
Smorza i toni il direttore olandese De Mooij: «Nessuna polemica. Loro presenteranno la loro ricerca. Il dibattito sarà interessante». C'è un disegno di Bosch che raffigura una civetta in un albero cavo e occhi e orecchie distribuiti sul prato e tra i tronchi. Una scritta recita "Il campo ha occhi, la foresta ha orecchie". È un invito a custodire i propri segreti. Bosch, 500 anni dopo, ci riesce ancora.
La repubblica – 14 febbraio 2016

COPERNICO E LA MUSICA SEGRETA DELL'UNIVERSO



Pietro Citati

Copernico , visione e fallimento

Di John Banville, nato in Irlanda nel 1945, il pubblico italiano conosce soprattutto L’intoccabile , pubblicato nel 1997 (Guanda): un romanzo straordinario, forse il più bel romanzo europeo degli ultimi cinquant’anni; ricco, vasto, terribilmente comico, dominato da una fantasia fiammeggiante e grottesca. All’inizio della propria carriera Banville aveva scritto La notte di Keplero , La lettera di Newton e La musica segreta , un bellissimo libro uscito in questi giorni dall’editore Guanda (traduzione di Irene Abigail Piccinini).

Tutti e tre questi libri sono dedicati ai protagonisti della rivoluzione cosmologica moderna: quando l’Europa fu presa da una ispirata malattia, che aveva come sintomi la cupidigia, una curiosità colossale, e una specie di irresistibile allegria. L’eroe della Musica segreta è Nicolaus Koppernigk.

Come è sua abitudine, John Banville ricostruisce l’ambiente nel quale egli crebbe: il porto di Torún, sulla Vistola, uno splendido caos assordante, con lo stridore degli argani, le cantilene e le imprecazioni degli scaricatori; la Polonia e la Germania del sedicesimo secolo, sovrani, vescovi e studiosi di astronomia. Nel 1496 Copernico lasciò la Polonia: raggiunse Bologna, con quella piatta aria immobile che gli gravava pesantemente sui polmoni. Infine Roma, madida di paura: dove si parlava di portenti e di prodigi; sangue pioveva dal cielo a mezzogiorno, fragori di zoccoli soprannaturali scuotevano la notte, misteriosi gridi riempivano l’aria.

Molti dicevano che era il regno dell’Anticristo, e che la fine era vicina. Il figlio del papa, Cesare Borgia, tornò vittorioso dalla Romagna, cavalcando in trionfo con il suo esercito per le strade di Roma in festa. Sembrava che il Signore delle Tenebre fosse venuto a farsi acclamare dalle folle in delirio. Dio era stato deposto: Rodolfo Borgia governava in sua vece. Copernico detestava Roma: gli ricordava un vecchio leone morente al sole, con la pelliccia fulva graffiata e puzzolente, sulla quale si moltiplicavano i pidocchi, in un ultimo carnevale convulso. Egli non si chiedeva se quella fosse la fine, o se un’ultima, terribile benedizione sarebbe stata impartita alla città e al mondo.

A Roma Copernico incontrò la filosofia ermetica, derivata dai misteriosi testi di Ermete Trismegisto, secondo i quali l’universo è un’ampia rete di azioni interdipendenti e simpatetiche. Apprese che, dopo la morte, gli uomini si sarebbero riuniti al Tutto: l’uomo spirituale, l’anima libera e splendente sarebbe ascesa attraverso le sette sfere di cristallo del firmamento, liberandosi a ogni sfera di una parte della sua natura mortale, fino a trovare piena redenzione nell’Empireo. Quando Copernico immaginava quell’anima fiammeggiante levitare verso l’alto, un’esultanza indicibile si impadroniva di lui.

Copernico ritornò in Polonia. Sulla torre di Heilsberg aveva un osservatorio. La sua stanza assomigliava più al covo di un alchimista che allo studio di uno scienziato moderno: come la trovò al suo ritorno, la scienza era ancora l’antica confusione di incantesimi e talismani e segni segreti. Lo studio era provvisto di ogni apparecchio che fosse di ausilio all’arte dell’astronomia: globi di rame e di bronzo, astrolabi, quadranti, il triquetrum più intricato, una rappresentazione dell’universo di squisita fattura, con sfere e bacchette d’oro.

In passato Copernico si era spesso rifugiato nella scienza per difendersi dall’orrore della vita, facendo di lei una specie di trastullo. Ora comprese che doveva essere una disciplina fredda e straziante da accettare consapevolmente, obbedendo alle sue regole. Inseguiva la cosa più profonda: il nocciolo, l’essenza, la verità. Obbediva alla faticosissima necessità di trovarsi a distanza ravvicinata dal mondo, di cui aveva bisogno: ma questo mondo non doveva contaminare le sue visioni, inquinando con la propria volgarità la purezza trascendente delle teorie celesti. Una volta si chiese se al fondo di tutto non ci fosse una forza selvaggia ribollente, la quale, torcendosi in oscure passioni, tutto produce, sia ciò che è grande sia ciò che è insignificante. Forse sotto ogni cosa si nascondeva un vuoto senza fondo, mai colmo. Allora, la vita non sarebbe stata altro che disperazione.

Copernico sapeva che Tolomeo, nell’ Almagesto , si era sbagliato, e che da allora la scienza dei pianeti era stata una vasta cospirazione per salvare i fenomeni. Pensava che il Sole, non la Terra, stesse al centro del mondo, e che il mondo fosse molto più vasto di quanto Tolomeo immaginasse. Il Sole era il centro di un universo immensamente espanso: la nota fondamentale della musica segreta. Dicendo, e scrivendo così, egli temeva di essere confutato, insultato, messo in ridicolo. Infatti i dotti del tempo lo insultarono: le persone comuni provavano dispiacere al fatto che la vecchia Terra fosse deposta e relegata nel buio del firmamento, saltellando e piroettando agli ordini di un muto e tirannico dio del fuoco.
Copernico venne invitato a partecipare al Concilio Lateranense sulla riforma del calendario: ma rifiutò, adducendo come scusa la convinzione che questa riforma non andasse portata avanti senza aver prima determinato con maggior precisione il moto del Sole e quello della Luna. Pensava che l’astronomo è un cieco che, con la matematica come unico sostegno, debba compiere un viaggio pericoloso e interminabile attraverso innumerevoli luoghi desolati.

Per tutta la vita Copernico cercò di diventare se stesso, scoprendo il proprio io. Non sapeva per quale ragione, questo misterioso io gli era sempre sfuggito. La vita scorreva al di sopra di lui, in una corrente e, sotto la corrente, lui aspettava, senza sapere che cosa. Cominciò a soffrire di insonnia: spesso di notte si avventurava per la città, immergendo il cervello febbrile nella fredda aria notturna. Sentiva che l’intelletto lo dominava, rinchiudendolo in una sublimità asfissiante; e liberò in sé stesso l’uomo fisico, che per tutta la vita aveva atteso di essere liberato. I sensi avrebbero avuto il loro momento di gloria. Eppure, stranamente, il corpo liberato sembrò ignorare cosa fosse la libertà appena ritrovata .

Alla fine, Copernico ebbe la sensazione di svanire a poco a poco: il suo io fisico stava evaporando: diventava trasparente; era soltanto mente; una specie di grigia ameba fantasma, che vorticava silenziosamente nell’aria. C’era in lui una mancanza, che andava al di là del naturale distacco dello scienziato. Dietro le sue azioni e i suoi gesti, si estendeva una sottile corda tesa di inesprimibile angoscia, che si allungava nel nulla. A tratti, sentiva in sé una muta intensità e ferocia, che spaventava chi gli si avvicinava. Sembrava gravato da una conoscenza segreta e intollerabile, o da una sterminata innocenza, che si difendeva dal mondo degli uomini con un piccolo sogghigno grigio.

Con ferocia, violenza, istinto tragico, John Banville racconta in bellissime pagine la vita di Copernico negli ultimi anni: la sua paura di parlare, di scrivere, di pubblicare. Aveva cercato di intravedere «quella cosa, appassionata eppure calma, intensa e remota, favolosa eppure ordinaria, quella cosa che è tutto ciò che importa e il grande miracolo»: la musica segreta dell’universo. Ma non ci riuscì: tutto si perse in un grande fallimento. «Ho mancato in tutto quello che mi ero ripromesso di fare: discernere la verità, il significato delle cose», disse. Non gli restava che morire. Si ritrasse dal regno della vita: giaceva, ammasso informe di carne e sudore e muco, nel più primitivo e rudimentale stato dell’essere, come un oggetto quasi morto dal respiro impercettibile.


Il Corriere della sera – 26 febbraio 2016

FANON E LEVINAS SUI VOLTI DEGLI ALTRI


IL NEGRO E L'ALTRO SECONDO F. FANON



La sfortuna dell’uomo di colore è d’essere stato reso schiavo. La sfortuna e l’inumanità del bianco sono d’aver ucciso l’uomo. Ancora oggi la sfortuna d’entrambi consiste nell’organizzare razionalmente questa disumanizzazione. Ma io, uomo di colore, nella misura in cui mi diventa possibile esistere in assoluto, non ho il diritto di confinarmi in un mondo di riparazioni retroattive.
Io, uomo di colore, non voglio che una cosa: che mai lo strumento domini l’uomo. Che cessi per sempre l’asservimento dell’uomo da parte dell’uomo. Vale a dire di me da parte di un altro. Che mi sia permesso di scoprire e di volere l’uomo dovunque si trovi.
Il negro non esiste. Non più del bianco.
Tutti e due debbono allontanarsi dalle strade inumane che furono quelle dei loro rispettivi antenati, finchè nasca una autentica comunicazione. Prima di impegnarsi nel senso positivo, la libertà deve fare uno sforzo di disalienazione. Un uomo, al principio della vita, è sempre congestionato, affoga nel contingente. La disgrazia dell’uomo è d’essere stato bambino.
E’ attraverso uno sforzo di ripresa su se stessi e di spogliamento, attraverso una tensione permanente della loro libertà che gli uomini possono creare le condizioni d’esistenza ideali d’un mondo umano.
Superiorità? Inferiorità?
Perché non cercare semplicemente di toccare l’Altro, di sentire l’Altro, di rivelare l’Altro?
La mia libertà non mi è dunque data per edificare il mondo del Tu?
Alla fine dell’opera ci piacerebbe che si sentisse come noi l’aperta dimensione di ogni coscienza.
Mia ultima preghiera: “O mio corpo, fai sempre di me un uomo che si interroga”.

Da F. Fanon, Il negro e l’Altro, Il Saggiatore, Milano, 1965

 ***




 

Il volto dell'altro. Lévinas
Intervista di Renato Parascandolo e Sergio Benvenuto a Emmanuel Lévinas
Uno dei concetti più suggestivi del suo pensiero è quello del "volto" come espressione di un'alterità assoluta e inviolabile...
 
Su questo tema è avvenuta la mia rottura con Heidegger. Era hitleriano e non ha colto il valore della dignità dell'uomo e dell' altro. Ma io sono ebreo ed essere ebrei non significa soltanto conoscere il Talmud, significa aver sofferto come un ebreo. È a questo che bisogna arrivare. Aver sofferto come un ebreo. E di questa sofferenza una piccola responsabilità è da attribuire a un certo Hitler...

Lei parla di bontà, di amore per l'altro, ma si sa che in nome della bontà sono stati commessi atroci delitti, che i buoni sentimenti hanno provocato spesso dei disastri.

Bisogna vedere come la si intende...Io faccio una differenza tra bene e bontà, tra un ideale di bene che può essere prescritto, che diventa ideologia, che diventa movimento politico e poi istituzione e questa bontà iniziale, debole, senza difesa, senza pensiero, in cui non c'è ancora una ideologia della bontà L'altro uomo non mi è indifferente, l'altro uomo mi concerne, mi riguarda nei due sensi della parola "riguardare". In francese si dice che "mi riguarda" qualcosa di cui mi occupo, ma "regarder" significa anche "guardare in faccia" qualcosa, per prenderla in considerazione. Io chiamo appunto questa "apparizione" dell'altro, il volto umano. Il volto umano è la testimonianza non del trionfo istituzionale del bene, ma della possibilità del bene, della possibilità per l'uomo di essere buono verso l'altro uomo o piuttosto della possibilità di leggere sul volto dell'altro uomo la vocazione, il richiamo alla bontà. Per me questa è la parola di Dio. Io trovo Dio nell'etica, non ho alcuna altra idea di Dio valida. È qui che trovo il senso di qualcosa che interrompe bruscamente il corso delle cose: il fatto che l'uno si occupa dell'altro è il solo momento in cui c'è un'alterità totale, un'alterità che non rientra nell'ordine che io controllo, che non diventa mia. Anche il mio schiavo, in quanto uomo, mi sfugge e perciò è assolutamente altro. Trovo che nel momento in cui sento questa alterità come ordine muto, come comandamento, non dico che sia di Dio, ma certo non c'è parola più forte.

Da  http://www.donatoromano.it/interviste/43.htm

26 febbraio 2016

LE RAGIONI DEL CUORE di PASOLINI e di G. G. BATTAGLIA


Sabato 27 febbraio 2016, alle ore 17, nella SALA PICTA di TERMINI IMERESE  cercheremo di cogliere il filo che lega l'opera di Pino Battaglia a quella di Pier Paolo Pasolini




Pasolini, da Saluto e augurio

Difendi i paletti di gelso, di ontano,
in nome degli Dei, greci o cinesi.
Muori di amore per le vigne.
Per i fichi negli orti. I ceppi, gli stecchi.
[…] Difendi i campi tra il paese  e la campagna,
con le loro pannocchie abbandonate. Difendi il prato
tra l’ultima casa del paese e la roggia.
I casali assomigliano a Chiese:
godi di questa idea, tienla nel cuore.[…].
Tu difendi, conserva, prega: ma ama i poveri: ama la loro diversità.
Ama la loro voglia di vivere soli nel loro mondo […]dove non arrivi
la parola del nostro mondo; […] ama il loro dialetto inventato ogni mattina,
per non farsi capire; per non condividere con nessuno la loro allegria.
[…]
Prenditi tu sulle spalle questo fardello. Io non posso, nessuno ne capirebbe lo scandalo.
Un vecchio ha rispetto del giudizio del mondo. Anche se non gliene importa niente […].
Prenditi tu questo peso, ragazzo che mi ascolti.

Pier Paolo Pasolini, da Saluto e augurio (1974), poi in La nuova gioventù. Poesie friulane 1941-1974, Einaudi 1975, pp.255-259.



G. G. Battaglia, L’ ira del pastore

Voi che avete distrutto i pascoli verdi
dove le epoche avevano sedimentato
il sogno, voi che avete reso minimo
l’oro delle costruzioni dei boschi,
voi che dell’infanzia del mondo
avete saputo imbastire un groviglio,
voi i destinatari del mio disprezzo.
Io, nella rocca del mondo, m’ascolto
esistere e mi rivolgo alle pietre,
alle canne, agli incantati pagliai,
e non scricchiolano le ossa dei miei centanni. [1]


[1] BATTAGLIA, Giuseppe Giovanni, La conta delle ore, 1988-1992. Ora in  Poesie 1979 - 1994, a cura di V. Ognibene. Roma: Lithos Editrice, 2015, pag.446.