30 settembre 2014

LA RIVISTA ULISSE ON LINE


L’Ulisse, rivista monografica di poesia, arti e scritture diretta da Alessandro Broggi, Stefano Salvi e Italo Testa

NUMERO 16: Nuove metriche. Ritmi, versi e vincoli nella poesia contemporanea

INDICE
Editoriale di Stefano Salvi

IL DIBATTITO
PERCORSI ITALIANI
 
Pier Paolo Pasolini
di Caterina Verbaro
Franco Fortini e Giuliano Mesa
di Bernardo De Luca
Corrado Costa
di Gian Luca Picconi
Franco Buffoni
di Lorenzo Marchese
Mario Benedetti
di Fabio Magro
Marco Ceriani
di Anna Bellato
Camillo Capolongo
di Rino Ferrante
Giovanna Frene e Italo Testa
di Elisa Vignali
Massimo Bonifazio e Maxime Cella di Rodolfo Zucco


IN DIALOGO
Giuliano Scabia
con Luca Lenzini

INCURSIONI
Biagio Cepollaro
Adriano Padua
Laura Pugno
Andrea Raos

FUOCHI TEORICI
Daniele Barbieri
Stefano Dal Bianco

DOCUMENTI
Giuliano Mesa
Amelia Rosselli

MUSICA E POESIA
Vincenzo Bagnoli
Paolo Giovannetti
Stefano La Via
Ivan Schiavone
Luca Zuliani

IL SONETTO OLTRECONFINE
Germania
di Paolo Scotini
Stati Uniti
di Antonella Francini

METRICA E TRADUZIONE
Daniele Ventre

LETTURE
Carlo Bordini
Maria Borio
Andrea Gibellini
Mariangela Guàtteri
Federico Federici
Renata Morresi
Lidia Riviello
Gianluca Rizzo
Valentino Ronchi
Giuliano Scabia
Francesco Scarabicchi

I TRADOTTI
Archie Randolph Ammons
tradotto da Paola Loreto
Mary Jo Bang
tradotta da Luigi Ballerini
Maria Bennett
tradotta da Annelisa Addolorato
Anna Barkova
tradotta da Anna Maria Carpi
Rachel Blau DuPlessis
tradotta da Renata Morresi
Paul Hoover
tradotto da Gianluca Rizzo
Devin Johnston
tradotto da Federica Santini
Pablo López Carballo
tradotto da Lorenzo Mari
Bill Wolak
tradotto da Annelisa Addolorato


La rivista è leggibile e scaricabile a questo indirizzo.

P. SALINAS: NON POSSO DARTI DI PIU'





IO NON POSSO DARTI  DI PIU'

Io di più non posso darti.
Non sono che quello che sono.
Ah, come vorrei essere
sabbia, sole, in estate!
Che tu ti distendessi
riposata a riposare.
Che andando via tu mi lasciassi
il tuo corpo, impronta tenera,
tiepida, indimenticabile.
E che con te se ne andasse
sopra di te, il mio bacio lento:
colore,
dalla nuca al tallone,
bruno.
Ah, come vorrei essere
vetro, tessuto, legno,
che conserva il suo colore
qui, il suo profumo qui,
ed è nato tremila chilometri lontano!
Essere
La materia che ti piace,
che tocchi tutti i giorni,
che vedi ormai senza guardare
intorno a te, le cose
- collana, profumi, seta antica -
di cui se senti la mancanza
domandi: Ah, ma dov'è?.
Ah, come vorrei essere
un'allegria fra tutte,
una sola,
l'allegria della tua allegria!
Un amore, un solo amore:
l'amore di cui tu ti innamorassi.
Ma
non sono che quello che sono. 


 PEDRO SALINAS




(Traduzione di Emma Scoles)
da “Pedro Salinas, La voce a te dovuta”, Einaudi Editore, 1979

***
«Yo no puedo darte más »

Yo no puedo darte más.
No soy más que lo que soy.
¡Ay, cómo quisiera ser
arena, sol, en estío!
Que te tendieses
descansada a dascansar.
Que me dejaras
tu cuerpo al marcharte, huella
tierna, tibia, inolvidable.
Y que contigo se fuese
sobre ti, mi beso lento:
color,
desde la nuca al talón,
moreno.
¡Ay, cómo quisiera ser
vidrio, o estofa o madera
que conserva su color
aquí, su perfume aquí,
y nació a tres mil kilómetros!
Ser
la materia que te gusta,
que tocas todos los días
y que ves ya sin mirara
tu alrededor, las cosas
-collar, frasco, seda antigua
que cuando tú echas de menos
preguntas: “¡Ay!, ¿dónde está?”
¡Y, ay, cómo quisiera ser
una alegría entre todas,
una sola, la alegría
con que te alegraras tú!
Un amor, un amor solo
el amor del que tú te enamorases.
Pero
no soy más que lo que soy.


de “Pedro Salinas, La voz a ti debida”, Madrid, Signo,  1933
 


AMANUENSI A PALO ALTO


A scuola ci hanno insegnato che nonostante le invasioni barbariche la cultura occidentale si mantenne grazie al lavoro di generazioni di monaci amanuensi che chiusi nei loro conventi pazientemente ricopiarono ciò che restava delle grandi opere dell'antichità. In realtà gli amanuensi esistono ancora e proprio nel luogo simbolo della tecnologia informatica.

Un monaco amanuense a Palo Alto

Intervista di Simonetta Fiori
«SONO contento che il mio libro esca in Italia, paese cruciale nella storia della scrittura». Ewan Clayton è uno dei più famosi calligrafi del mondo, una figura senza tempo, capace di viaggiare con disinvoltura tra epoche remote e futuro tecnologico. Forse perché per cinque anni è rimasto chiuso in un monastero, «monaco amanuense del XX secolo» dice lui, per poi trovarsi catapultato nello Xerox Parc a Palo Alto, la famosa divisione di ricerca dove erano stati inventati i computer connessi in rete e le finestre di windows. «Entrambe sono state esperienze religiose», racconta dal suo studio nell’Università del Sunderland, in Gran Bretagna. La sua biografia ci aiuta a capire un’opera affascinante e ambiziosa come The Golden Thread ( ora tradotto con il titolo Il filo d’oro).

È una storia della scrittura che comincia sulle pareti rocciose nell’Alto Egitto e si ferma — al momento — nei laboratori della Silicon Valley. Tremila anni di parole scritte attraverso rotoli di papiro, tavolette di cera, marmi, pergamene, penne d’oca, pennini, penne a sfera, penne a biro, macchine da scrivere e schermi pixelati. La scrittura secondo Clayton è un atto fisico, non solo intellettuale. È il frutto di un movimento, che coinvolge dita, braccio e spalla. Possiede una dimensione artigianale e iconografica, a cui hanno lavorato moltissimi uomini per favorire la trasmissione di conoscenza. E le lettere dell’alfabeto veicolano sì suoni e significati, ma sono anche corpi sensuali, provvisti di “odore”, “consistenza”, “luminosità”, “colore”. Quello del calligrafo inglese è un inno al saper scrivere che oggi si trova davanti a una nuova sfida, forse la più difficile: scriviamo sempre di più, ma in che modo? «Le nuove tecnologie ci permettono di reinventare il nostro rapporto con la parola scritta, ma non sappiamo ancora a quali elementi affidarci. Ho pensato che la prima cosa da fare fosse raccontare in che modo la scrittura è arrivata a essere ciò che è».

Che cosa ha capito dopo aver scritto il libro?

«Oggi abbiamo bisogno di tutte le tecniche, quelle antichissime e le più innovative. Passato e futuro non sono in guerra. Al contrario, dobbiamo coltivare la ricchezza della scrittura nelle sue varie modalità, cartacee e digitali, evitando ogni fondamentalismo. E coloro che ora sono chiamati a intessere il filo d’oro della comunicazione scritta dovranno fare in modo che non si perda il senso di un’orditura secolare».

Sul futuro della scrittura lei appare molto ottimista.

«Sì, perché penso al suo ruolo che è irrinunciabile. Le tecniche vanno e vengono: ciò che oggi ci sembra all’avanguardia domani sarà superato. Ma ciò che non si esaurisce mai è la capacità inventiva dell’essere umano. Le generazioni future non smetteranno mai di provare piacere nello scrivere. E negli artefatti scritti cercheranno sempre la bellezza. In fondo è solo negli ultimi decenni che i giovani hanno sviluppato una loro cultura grafica autonoma».

Questo è vero, però non sappiamo più scrivere a mano. E non riconosciamo la nostra calligrafia.

«È anche questa la ragione per cui ho voluto scrivere questo libro. Credo che oggi la fascinazione digitale produca falsi dilemmi. Tendiamo a enfatizzare i benefici di una tecnica di scrittura a scapito di un’altra, ma se vogliamo insegnare ai ragazzi l’uso del computer non dobbiamo certo smettere di insegnare il corsivo. Chi sa scrivere a mano sarà sempre in vantaggio su chi sa premere dei tasti, sia sul piano della memoria che su quello dell’organizzazione del testo. Lo dicono anche le neuroscienze. Se durante una conferenza lei prende appunti sul taccuino, le sue note mostreranno una costruzione più strutturata rispetto a quelle del “suonatore di pianola”, che richiama i fatti più che i concetti. E chi scrive a mano tende a trattenere di più le informazioni».

Lei perché si è appassionato alla scrittura?

«Da bambino fui ipnotizzato dalla calligrafia di un dottore: pensavo che fosse la cosa più bella che avessi mai visto. Però a 12 anni cominciai a fare confusione tra le lettere. Mi avevano insegnato tre stili diversi in pochi anni e la mia grafia divenne illeggibile. Così fui rimandato in classe con i bambini di otto anni, davvero mortificante. Ma la mia fortuna è stata quella di crescere in un piccolo paese dove aveva vissuto il grande calligrafo Edward Johnson. Mia nonna andava a ballare con la signora Johnson, così mi diedero da leggere la sua biografia, e mia madre mi fece avere una tavola di prove calligrafiche. Rimasi incantato».



Imparò il mestiere di calligrafo, ma poi decise di chiudersi in un convento benedettino.

«A 28 anni mi ammalai di cancro, così pensai a tutte le cose che dovevo fare prima che fosse troppo tardi. La più folle fu senza dubbio quella di farmi monaco, una scelta ostinatamente contraria a quei tempi, l’Inghilterra di Mrs Thatcher. Restai al Worth Abbey per cinque anni. “Brother Ewan”, mi disse una volta il priore, “penso che la vita qui dentro ti stia stretta come una scarpa di un numero più piccolo”. Il giorno dopo fui investito da una macchina e pensai: “Ok, forse hai ragione”. Lasciai il convento. Per fortuna dopo pochi mesi fui chiamato in California come consulente del Palo Alto Research Centre, alla Xerox».

Dal monastero alla Silicon Valley. Come fu il passaggio?

«Fu uno shock, ma neppure tanto. Ebbi un colloquio con John Seelay Brown, direttore della Xerox, e capii subito che aveva gli stessi problemi del priore. I ricercatori si misurano con l’ignoto. Ed è come vivere una vita religiosa, che richiede contemplazione. Soprattutto bisogna convivere con ciò che ancora non si conosce, nella buona e nella cattiva sorte. John mi disse una volta che il suo principale lavoro consisteva nel fare di tutto per non sedersi davanti ai problemi. È questo che porta a nuove rivelazioni e scoperte».

Ha mai conosciuto Steve Jobs?

«No, non l’ho mai incontrato però ho imparato moltissimo da lui. Era un tecnico che aveva capito l’importanza della maestria artigiana. Ha creato oggetti bellissimi e io gli sono profondamente grato perché negli anni dell’università aveva studiato calligrafia. Fin da principio ebbe molto chiaro quanto fosse importante trasferire nel nuovo medium la tradizione della grafica e delle arti tipografiche ».

Ho letto che lei ha aiutato Apple a creare nuovi caratteri.

«No, il mio ruolo alla Xerox era più ampio. L’azienda aveva inventato molta della tecnologia che ha prodotto la rivoluzione digitale: i concetti di window, di desktop e mobile computer, la filosofia del “look and feel” che c’è dietro la Apple. Ma il management non aveva capito le potenzialità di queste invenzioni, lasciando che i loro artefici prendessero il volo. Poi la Xerox decise di puntare sulla gestione dei documenti, senza però sapere cosa fossero. Così fui assunto come calligrafo: dovevo offrire il mio sguardo d’artista a un team di scienziati».

Cosa significa essere alfabetizzati nel XXI secolo?

«Credo che si tratti di un work in progress. Le società evolvono in continuazione e la scrittura è un fenomeno sociale. Ci si chiede di scrivere in modo sempre diverso e noi dobbiamo padroneggiare non solo le diverse forme di scrittura ma anche le istituzioni che ci sollecitano a diversificare l’impiego delle nostre competenze alfabetiche. Emilia Ferreiro, allieva di Piaget, sosteneva la necessità di concepire l’alfabetizzazione come un continuum, un percorso che continua da grandi. Gli ultimi vent’anni ne sono una straordinaria conferma ».

La Repubblica – 27 settembre 2014
Ewan Clayton
Il filo d'oro
Bollati Boringhieri, 2014
euro 25

PERCHE' IN ITALIA NON SCOPPIA LA RIVOLUZIONE?

    
      L' ISTAT oggi ha comunicato i dati aggiornati sulla disoccupazione giovanile: da questi dati risulta che il 44% dei giovani italiani è ancora alla ricerca della prima occupazione.  Mi domando: PERCHE' NON SCOPPIA LA RIVOLUZIONE IN ITALIA?  COSA  SI  ASPETTA?

MALEVICH ALLA RICERCA DELLA LIBERTA' ASSOLUTA


Nel 1913 rimase folgorato a Mosca dalla mostra di 147 icone antiche private delle ridipinture. Decise così di dipingere un nuovo tipo di icona, radicalmente quadrata, libera dal dovere del contenuto.

Giuseppe Frangi

Malevich
Era nato a Kiev, città appartenente all’allora impero russo, nel 1879, da genitori cattolici polacchi. Si era formato a Mosca come disegnatore tecnico e lavorando per le ferrovie. Nel 1915 si rivelava al mondo con una mostra in una galleria a San Pietroburgo. Città dove sarebbe morto nel 1935, e che nel frattempo aveva cambiato nome in Leningrado. Nel mezzo, anche un periodo di insegnamento a Vitebsk, in Bielorussia, dove aveva preso la cattedra a cui l’aveva chiamato l’ebreo Marc Chagall.

Bastano pochi cenni dalla biografia di Kasimir Malevich per intuire come la mostra che la Tate Gallery gli ha dedicato (Malevich, a cura di Achim Borchardt-Hume, sino al 26 ottobre), sia oltre che l’occasione di esplorare uno dei grandi innovatori del 900, anche un’opportunità per capire quale siano la complessità e le stratificazioni che segnano un territorio e la sua cultura. Quella di Malevich, in un certo senso, è quindi una mostra di inattesa attualità.

Allestita al terzo piano della Tate Modern, l’esposizione non si fa e non ci fa mancare niente: solo il primo dei Quadrati neri, quello del 1915, non ha potuto arrivare da Mosca per la sua fragilità. Per il resto i prestiti sono di qualità eccezionale, grazie alla rete di istituzioni che hanno fatto da promotori della mostra: dallo Stedelijk Museum di Amsterdam, alla Khardzhiev Foundation, sempre olandese, sino alla Costakis Collection di Tessalonica (quella della Tate è la seconda tappa, dopo Amsterdam e prima della conclusione alla Bundeskunsthalle di Bonn).
Black Square (1913)

«Un artista russo»: non è il sottotitolo della mostra, che ai sottotitoli accalappia-visitatori giustamente non ricorre, ma è il titolo che è stato assegnato alla seconda sala. Siamo intorno 1910 e l’identità di Malevich, per quanto sia artisticamente ancora incerta, intellettualmente e poeticamente è già ben delineata. Ha avuto modo di vedere quel che un grande collezionista come Sergei Shchukin aveva portato da Parigi, in particolare i Picasso e i Matisse della grande accelerazione di inizio secolo, ma non se ne è lasciato contaminare. Malevich da subito marca la sua differenza, a costo di pagare il dazio di qualche ingenuità di troppo e di sperimentare stili espressivi in modo che a volte sembrano un po’ random.

Ma lui è russo (per quanto parli anche polacco), e non ha né l’intenzione né la tentazione di sottrarsi a questo suo destino. Si capisce presto cammin facendo, che il suo è un obiettivo, o meglio una missione, precisa: portare l’antica Russia, rispettandone sono in fondo l’anima, in prima linea sulle frontiere della modernità. Il primo aggancio tra Russia e modernità prende forma non su una tela ma su un palcoscenico nel 1913, quando Malevitch cura, nell’allora San Pietroburgo, costumi e scenografie per Vittoria sul Sole, opera cubo-futurista musicata da Mihhail Matyushin con un testo del poeta Velimir Khlebnikov.

Le scene sono in bianco e nero, e dominate dalla ripetizione di forme quadrate: cinque in fuga, per dare profondità di campo, e uno alle spalle dello spettatore, per dargli la sensazione di essere chiuso nella dimensione intima di un cubo. Il Quadrato nero arriverà due anni dopo, anche se Malevich lo data al 1913. Lo avrebbe “svelato” il 15 dicembre 1915 con un’operazione che ha tutte le caratteristiche di un passaggio storico.

La mostra “Ultima esposizione futurista di quadri 0,10“ si tiene alla Dobychina di San Pietroburgo. Lo zero sta indicare l’anno di inizio di una nuova storia, il 10 il numero di artisti che inizialmente avrebbero dovuto esporre (in realtà furono di più). Il riferimento al futurismo ha qualcosa quasi di canzonatorio: il futuro dell’arte non va nella direzione indicata dall’avanguardia che pur aveva fatto maggiormente breccia nella cultura artistica russa. A documentare quella sala ci resta un’unica, storica fotografia: dei 39 quadri esposti riconoscibili, è nota la sorte di 12. Ben nove di questi sono stati portati in mostra. Ma il cuore della sala è il Quadrato nero su fondo bianco, posizionato con una scelta che più “russa” non si sarebbe potuto, nell’angolo della stanza. Cioè rispettando la tradizione con cui venivano appese le icone nelle case.

Certamente più delle tambureggianti novità che venivano dall’Europa occidentale, Malevich fu interessato da quella mostra evento che si tenne a Mosca nel 1913, quando per la prima volta vennero presentate 147 icone, dal XIV al XVII secolo, liberate dalle ridipinture con cui nel tempo si era tentato di ovviare all’ingiallimento delle tavole. Fu una mostra evento che colpì tutta la nuova generazione di artisti, da Tatlin alla Gontcharova. Ma come ha scritto Tatjana Vlibinkova, «l’interesse più coerente mostrato per l’icona fu quello di Malevitch… Le composizione delle icone, costruite con nitore, facilmente riconducibili a forme geometriche impiegate talvolta in modo diretto, trovarono una prosecuzione nella sua aspirazione a creare una “nuova icona”».

Quando qualche anno dopo iniziò a insegnare a Vitebsk, in classe teneva spesso un’icona. Non c’era un’adesione religiosa, evidentemente. Ma c’era un’adesione a quel principio per cui l’arte si è liberata dal dovere di un’espressività e anche da un contenuto, essendo che il contenuto dell’icona è qualcosa che non appartiene a chi le realizza. «L’arte nuova ha posto in primo piano il principio secondo cui l’arte può ammettere solo se stessa come contenuto. Così in essa troviamo non l’idea di qualche cosa, ma solo l’idea dell’arte stessa», scrive nel testo fondante del Suprematismo.
Supremus N.50

È un’idea che si radicalizza sino ai quadri bianco su bianco che Malevich ribattezza come “morte della pittura” e confluisce in un percorso pedagogico, negli anni dell’insegnamento a Vitebsk e poi a Leningrado.

Alla mostra londinese questa esperienza viene illustrata in una magnifica sala dove trovano spazio le grandi tavole che spiegavano teorie e percorsi della Nuova arte (UNOVIS, il collettivo che Malevitch aveva messo insieme era l’acronimo di Utverditeli Novogo Iskusstva, cioè Campo della Nuova Arte). Sono frutto di un lavoro collettivo, con scritte a volte anche in tedesco, perché Malevich volle portarli con sé in una missione all’estero nel 1927, a Berlino e in Polonia.

Durò poco quella missione. Perché venne richiamato in Russia e Malevich dovette lasciare quelle tavole a Berlino. Il clima, con la salita al potere di Stalin era cambiato, e l’oscillazione che questa svolta aveva sulla linea dell’arte russa la si può registrare nella grande sala posta come snodo centrale della mostra, dove sono allineati un centinaio di disegni, veri e proprio “pensieri” grafici messi su carta, che coprono tutto l’arco della carriera di Malevich. L’input era quello di tornare alla figurazione. Malevich non se ne sottrae e inizia un percorso per “reinventare la pittura”.

Ancora l’icona funziona da ancoraggio per queste sagome semplificate e rigorosamente frontali che raccontano una Russia profonda e che contrassegnano la fine degli anni 20. Sono volti svuotati di identità, che diventano quasi emblema di quella stagione di totalitarismo cieco. Ma è chiaro che quella non è strada che possa convincere Malevich, tanto più che non lo protegge dalle malversazioni del potere (nel 1930 viene anche arrestato con l’accusa di spionaggio a favore della Germania).

Gli ultimi anni sono gli anni dell’eclissi. Malevich sparisce dalla sfera pubblica e s’abbandona ad una pittura strana, affascinante, forzosamente anacronistica. A chiudere la mostra c’è quel famoso Autoritratto in cui posa con una strana solennità, con il costume di Cristoforo Colombo. È un artista evidentemente rassegnato ad essere quello che non avrebbe dovuto essere; rassegnato a dipingere secondo un’idea per lui certamente fuori tempo massimo: ma per quanto costretto ad essere straniero a se stesso, con questo Autoritratto così scopertamente ingenuo, ci dice una cosa che colpisce e anche commuove.

Che la libertà di un artista vive anche dentro i muri di una costrizione ideologica ed estetica che può sembrare intollerabile. Che la sua coscienza può restare intatta, anche se non ha più spazi per esprimersi, anche se costretta ad una sorta di mutismo. Non a caso nell’angolo, l’Autoritratto, al posto della firma, come tante altre opere di questi anni estremi, ha un piccolo quadrato nero, dipinto come lo dipingerebbe un bambino. È un segno distintivo, che non ha più l’esatta definizione di un tempo. Non ha più quella forza, quella chiarezza, quella baldanza. Ma è lì, anche nel momento dell’impotenza, a suggerire che quella comunque era la strada.

Malevich morì nel 1935. Con lui venne accuratamente sepolta anche la sua opera. Per rivedere in pubblico il Quadrato nero bisognerà addirittura aspettare gli anni 80. Nel frattempo il monocromo aveva conquistato gli artisti di mezzo occidente. Ma a dispetto dell’apparente somiglianza, era tutta un’altra storia. Perché la Russia ha tutta un’altra storia.


Il Manifesto/Alias – 21 settembre 2014

INTERVISTA A MARIO TRONTI




Tronti non ci ha mai molto convinto come teorico dell'operaismo. Tuttavia ci riconosciamo in questa lunga e bella intervista che esamina retrospettivamente un percorso che è stato quello della nostra generazione.

Antonio Gnoli

Mario Tronti 
Sotto la suola delle sue scarpe è ancora riconoscibile il fango della storia. «È tutto ciò che resta. Miscuglio di paglia e sterco con cui ci siamo illusi di erigere cattedrali al sogno operaio ». Ecco un uomo, mi dico, intriso di una coerenza che sfonda in una malinconia senza sbavature. È Mario Tronti, il più illustre tra i teorici dell’operaismo. Ha da poco finito di scrivere un libro su ciò che è stato il suo pensiero, come si è trasformato e ciò che è oggi. Non so chi lo pubblicherà (mi auguro un buon editore). Vi leggo una profonda disperazione. Come un diario di sconfitte scandito sulla lunga agonia del passato che non passa mai del tutto, che non muore definitivamente. Ma che non serve più.

«Sono gli altri che ti tengono in vita», dice ironico. Quando la vita, magari, richiede altre prove, altre scelte. Forse è per questo, si lascia sfuggire, che ha cercato un diversivo nella pratica del Tai Chi: «I gesti di quella tecnica orientale rivelano, nella loro lentezza, un’armonia segreta. Tutto si concentra nel respiro. L’ho praticato per un po’. Con curiosità e attenzione. Ma alla fine mi sentivo inadatto. Fuori posto. L’Oriente esige una mente capace di creare il vuoto. La mia vive di tutto il pieno che ho accumulato nel tempo».

Come è nata la curiosità per il Tai Chi?
«Grazie a mia figlia che ama e pratica la cultura orientale. Avrebbe voluto farsi monaca, poi ha scelto con la stessa profonda coerenza quel mondo che io ho solo sfiorato».

E come ha vissuto quella decisione familiare?
«Con il rispetto che occorre in tutte le cose che ci riguardano e ci toccano da vicino».

C’è un elemento di imprevedibilità nei figli?
«C’è sempre: negli individui, come nella storia».

Si aspettava che la storia — la sua intendo — sarebbe finita così?
«Ci si aspetta sempre il meglio. Poi giungono le verifiche. Sbattere contro i fatti senza l’airbag può far male. Sono stato comunista, marxista, operaista. Qualcosa è caduto. Qualcosa è rimasto. Ho capito e applicato la lezione del realismo politico: non si può prescindere dai fatti».


E i fatti parlano oggi di una grande crisi.
«Grande e lunga. Ci riguarda, a livelli diversi, un po’ tutti. Dura da almeno sette anni e non c’è nessuno in grado di dire come se ne uscirà. Viviamo un tempo senza epoca».

Cosa vuol dire?
«C’è il nostro tempo, manca però l’epoca: quella fase che si solleva e rimane per il futuro. La storia è diventata piccola, prevale la cronaca quotidiana: il chiacchiericcio, il lamento, le banalità».

L’epoca è il tempo accelerato con il pensiero.
«Non solo. È il tempo che fa passi da gigante. Si verifica quando accadono cose che trasformano visibilmente i nostri mondi vitali».

Nostalgia delle rivoluzioni?
«No, semmai del Novecento che fu anche il secolo delle rivoluzioni. Ma non solo. Dove sono il grande pensiero, la grande letteratura, la grande politica, la grande arte? Non vedo più nulla di ciò che la prima parte del Novecento ha prodotto».

Quando termina l’esplosione di creatività?
«Negli anni Sessanta».

I suoi anni d’oro.
«Ironie della storia. C’è stato un grande Novecento e un piccolo Novecento fatto di una coscienza che non è più in grado di riflettere su di sé».

È un addio all’idea di progresso?
«Il progressismo è oggi la cosa più lontana da me. Respingo l’idea che quanto avviene di nuovo è sempre meglio e più avanzato di ciò che c’era prima».

Fu una delle fedi incrollabili del marxismo.
«Fu la falsa sicurezza di pensare che la sconfitta fosse solo un episodio. Perché intanto, si pensava, la storia è dalla nostra parte».

E invece?
«Si è visto come è andata, no?».

Si sente sconfitto o fallito?
«Sono uno sconfitto, non un vinto. Le vittorie non sono mai definitive. Però abbiamo perso non una battaglia ma la guerra del ‘900».

E chi ha prevalso?
«Il capitalismo. Ma senza più lotta di classe, senza avversario, ha smarrito la vitalità. È diventato qualcosa di mostruoso».

Si riconosce una certa dose di superbia intellettuale?
«La riconosco, ma non è poi una così brutta cosa. La superbia offre lucidità, distacco, forza di intervento sulle cose. Meglio comunque della rinuncia a capire. In tutto questo gran casino vorrei salvare il punto di vista ».


Il punto di vista?
«Sì, non riesco a mettermi sul piano dell’interesse generale. Sono stato e resto un pensatore di parte».

Quando ha scoperto la sua parte?
«Ero giovanissimo. Alcuni l’attribuiscono al mio operaismo degli anni Sessanta. Vedo in giro anche degli studi che descrivono il mio percorso».

In un libro di Franco Milanesi su di lei — non a caso intitolato Nel Novecento ( ed. Mimesis) — si descrive il suo pensiero. Quando nasce?
«Ancor prima dell’operaismo sono stato comunista. Un padre stalinista, una famiglia allargata, il mondo della buona periferia urbana. Sono le mie radici».

In quale quartiere di Roma è nato?
«Ostiense che era un po’ Testaccio. Ricordo i mercati generali. I cassisti che vi lavoravano. Non era classe operaia, ma popolo. Sono dentro quella storia lì. Poi è arrivata la riflessione intellettuale».

Chi sono stati i referenti? Chi le ha aperto, come si dice, gli occhi?
«Dico spesso: noi siamo una generazione senza maestri ».

Lei è stato, a suo modo, un maestro.
«Trova?».

Operai e capitale , il suo libro più noto, ha avuto un’influenza molto grande. Lo pubblicò Einaudi. Cosa ricorda?
«Fu un caso fortunoso. Non avevo rapporti con la casa editrice torinese. Mi venne in mente di inviare il manoscritto senza immaginare nessuna accoglienza positiva. So che ci fu una grossa discussione e molti dissensi tra cui, fortissimo, quello di Bobbio».

Era prevedibile.
«Assolutamente, viste le posizioni. A quel punto scrissi direttamente a Giulio Einaudi spiegando quale fosse il senso del mio libro».

E lui?
«Lo comprese pienamente. Contro il parere di quasi tutta la redazione si impuntò e il libro venne pubblicato. L’edizione andò rapidamente esaurita. Era il 1966. Avevo 35 anni. Quel testo, poi rivisto con l’aggiunta di un poscritto, ancora oggi gira per il mondo». Ne è soddisfatto?
«È un libro nel quale sono tutt’ora rimasto intrappolato. Per la gente rimango ancora quella roba lì. È difficile far capire che, nel frattempo, sono cambiato. Pensano che sia restato l’operaista di una volta».



Non è così?
«L’operaismo per me ricoprì una stagione brevissima. Poi è iniziata quella, maledetta da tutti, dell’autonomia del politico».

Maledetta perché?
«Mi resi ostile anche alle generazioni post-operaiste ».

Allude al Sessantotto?
«Lì ha inizio il piccolo Novecento. Dove è cominciata la deriva».

Fu un grande equivoco?
«Ammettiamolo: fu un fatto generazionale, antipatriarcale e libertario. Non sono mai stato un libertario».

Dove ha fallito il ‘68?
«C’è stata una doppia strada, entrambe sbagliate. Da un lato si è radicalizzato in modo inutile e perdente giungendo al terrorismo. Per me che sono appassionato del tragico nella storia lì ho visto l’inutilità e l’insensatezza della tragedia».

E dall’altro?
«Alla fine il ‘68 fu il grande ricambio della classe dirigente. La corsa a imbucarsi nell’establishment».

Niente male come ironia della storia.
«Sono i suoi paradossi e le sue imprevedibilità».

E il mito della classe operaia? La “rude razza pagana” come disse e scrisse.
«Non era certo quella che noi pensavamo. Gli operai volevano l’aumento salariale, mica la rivoluzione. Fu una delle ragioni che mi spinsero a scoprire le virtù del realismo politico».

Fu un addio alle illusioni?
«Vedevamo rosso. Ma non era il rosso dell’alba, bensì quello del tramonto».

Dove si colloca lo “sconfitto” Mario Tronti?
«Sono un uomo fuori da questo tempo. Ho sempre condiviso la tesi del vecchio Hegel che un uomo somiglia più al proprio tempo che al proprio padre. Il mio tempo è stato il mondo di ieri: il Novecento. Che comunque non sarà mai la casa di riposo per anime belle ».

Con quale riverbero affettivo lo ricorda?
«La mia tonalità è oggi quella di una serena disperazione. Forse per questo motivo non vado quasi mai a incontri pubblici. È troppo patetico andare in giro per parlare di quel mondo. E poi, dico la verità, la sua fine non è all’altezza della sua storia. Non c’è niente di tragico ».

Lei è passato dall’operaismo a Machiavelli e Hobbes e ora alla teologia politica, ai profeti, alla figura di Paolo.
«Se me lo avessero pronosticato trent’anni fa non ci avrei creduto. Però, vede, Paolo è stato il grande politico del cristianesimo. Nelle sue Lettere c’è il Che fare? di Lenin. Guardo molto alla dimensione cattolica, al suo aspetto istituzionale. C’è forza e lunga durata».



L’accusano di flirtare un po’ troppo con il pensiero reazionario.
«Dal punto di vista intellettuale trovo molto stimolante l’orizzonte che comprende figure come Taubes, Warburg, Benjamin, Kojève, Rosenzweig. Una costellazione anomala e irriferibile alla tradizione ortodossa. Uomini postumi».

Lo chiamerebbe eclettismo?
«Non lo è. Prendo quello che mi serve. La mia bussola mentale è molto spregiudicata. Mi chiedeva del pensiero reazionario. Ebbene, non rinuncio ai filosofi della restaurazione se mi fanno capire la rivoluzione francese molto più degli illuministi».

Si sente ancora un uomo di sinistra?
«È una bella contraddizione, me ne rendo conto. Ma come potrei essere di sinistra con il pessimismo antropologico che ricavo dal mio realismo? Dichiararsi illuministi, storicisti, positivisti — come fa in qualche modo la sinistra — è illudersi che i problemi che abbiamo di fronte siano semplici».

Dove si collocherebbe oggi?
«Dalla parte sconfitta. In un senso benjaminiano. Ha presente la figura dell’Angelo? Egli guarda indietro con le ali che si impigliano nella tempesta».

È una bella immagine. Fa pensare al Dio terribile e inclemente della Bibbia. Lei in cosa crede o ha creduto?
«A chi divide il mondo fra credenti e non, rispondo che non sono né l’una cosa né l’altra. Sto, per così dire, su di una specie di confine che ha ben descritto Simone Weil: non attraversare, ma non tornare neppure indietro. Al tempo stesso, penso che il “legno storto” dell’umano per sopravvivere abbia bisogno di qualche forma di fede».

E lei l’ha incontrata?
«In un certo senso sono stato credente anch’io. Ho creduto che si poteva abbattere il capitalismo, fare il socialismo e poi il comunismo. Niente di tutto questo aveva la benché minima parvenza scientifica».

Non è rimasto niente di quella fede?
«Sono più cauto. Avverto molto chiaramente il nesso tra realismo e passione. Il realismo da solo è opportunismo, puro adattamento alla realtà. Per correggere questa visione occorre una forma di passione».

Viviamo il tempo delle passioni tristi e spente.
«Tristi, certamente. Ma non spente del tutto. Il guaio è che oggi la storia non si controlla».

Ossia?
«La fase è molto confusa. Ogni cosa va per conto proprio. Agli inizi del ‘900 si parlava della grande crisi della modernità. Poi questa è arrivata. E ora che ci siamo dentro fino al collo non sappiamo in che direzione andare. È lo stallo. Si guarda senza vedere realmente».

Le sue preoccupazioni sembrano quelle di un uomo superato.
«In un certo senso è così. Ma non mi preoccupo. Perché dovrei? Ricordo certi vecchi che in prossimità della morte dicevano: purtroppo me ne devo andare. Mio padre credeva in un mondo migliore. Avrebbe voluto vederlo. Beato lui. Io dico ai giovani: meno male che non ho la vostra età. E sono contento che tra un po’ non vedrò più questo mondo. Questo dico».

Non si aspetta altro?
«Il futuro è tutto catturato nel presente. Non è possibile immaginare niente che non sia la continuazione del nostro oggi. Questo è l’eterno presente di cui si parla. E allora ben lieto di essere superato. Mi consola sapere che chi corre non pensa. Pensa solo chi cammina».


La Repubblica – 28 settembre 2014

29 settembre 2014

LA SALVEZZA E' FEMMINA




Riprendo da un sito interessante - http://www.antiit.com/ - la recensione di un libro che consiglio di leggere:

La Salvezza è femmina

Un libro “su” Corbin, di metodologia corretta della fenomenologia religiosa – la divinità si manifesta a chi ha fede, all’“uomo di fede” di Kierkegaard: ”L’uomo di fede non è colui che una volta per tutte si riconosce colpevole davanti a Dio, ma colui che, come Giobbe, combatte per Dio contro Dio”. È la verità al fondo del saggio, e quello che ne rimane.
“Sophia eterna” è titolo redazionale per la lunga, argomentata, l’unica non distruttiva, recensione che Corbin dedicò nel 1953 al saggio scandaloso di Jung, “Risposta a Giobbe”. Benché giovane rispettoso delle gerarchie, Corbin fu esplicito nella difesa. “Riposta a Giobbe”, scrive, “con le emozionanti pagine consacrate da Jung al dogma dell’Assunzione della Vergine (nella sua verità letterale e, come tale, non fisica)” è una rifondazione: “Esistono l’esperienza, gli avvenimenti e le verità fisiche, ed esistono l’esperienza, gli avvenimenti e le verità psichiche”. Uno. Due, Jung allarga la realtà alla Sophia. Yahweh si manifestò a Giobbe come Dio di giustizia e d’ingiustizia. Giobbe alla fine si dichiara vinto ma non è convinto. L’Antico Testamento gli darà una riposta, continua Corbin citando Jung, con “l’idea di Sophia o Sapienza di Dio (Sapientia Dei), di uno Spirito (Pneuma) di natura femminile, potremmo dire un’ipostasi coeterna, preesistente alla Creazione”. Derivata, aggiunge di suo, dalla Sophia greca e dalla Shakti indiana, cioè da “un complesso (gnosi, manicheismo, alchimia, etc.) il cui significato è stato analizzato progressivamente da suoi specifici studi, ora illuminato nella «persona» di Sophia”.
La risposta junghiana a Giobbe ”delinea una straordinaria fenomenologia della religione sofianica”. La fenomenologia di Jung è quella dell’anima: “Dalla domanda di Giobbe, rimasta senza risposta, all’annuncio del regno della Sophia eterna, che magnifica con un senso teologicamente imprevisto la recente proclamazione papale del dogma dell’Assunzione della Vergine Maria, è stata innalzata una fenomenologia senza precedenti”. Nella scia di Kierkegaard, “il Giobbe cristiano”, “che attirava giovani filosofi all’avventura della soggettività come verità”. Nel circolo di Eranos a Ascona che Corbin si pregia di avere frequentato con profitto per la presenza fisica o aleggiante d Jung. E “col p. Sergej Bulgakov, araldo della Sophia e del pensiero sofianico”, di Berdjaev, di Florenskij.
Islamologo esoterista, specialista del sufismo e lo sciismo, Corbin frequentò assiduamente Jung nelle sue conferenze a Zurigo, Ascona, Küssnacht, Bollingen, e lo vuole ascritto, anche lui, allo “spirito di Eranos”. Da psicologo, quindi da scienziato, e non da metafisico quale Corbin si professa, ma con una comune identità di vedute. Anche perché lo psicologo Jung Corbin accula a più riprese ai suoi interessi metafisici, degli “Studi sull’alchimia” e di “Psicologia e alchimia”.
Si riproponeva in quegli anni il problema del male assoluto. Di Dio e il male. Che Jung superava proponendo una necessaria Sophia, una presenza archetipica di un’alleanza ininterrompibile tra il divino e l’umano. Corbin trova a Jung un retroterra nel sofianismo – lo spirito femminile, maternale – della filosofia “ortodossa” di Florenskij e Bulgakov.
 
Astolfo

Henry Corbin, La Sophia eterna, Mimesis pp. 79 € 4,90

Sulla rivolta del 7 e mezzo un Convegno a Bolognetta






Sabato 4 ottobre 2014  dalle ore 9 alle 13.30 si svolge a Bolognetta, presso la Biblioteca comunale, il convegno di studi storici dal titolo “Oh chi m’abbinni lària/l’annu sissantasei! - Città e campagna nella rivolta del Sette e mezzo”, dedicato alla sommossa popolare che nel settembre 1866 sconvolse Palermo ed i paesi della provincia, con numerosi caduti tra gli insorti e le forze dell’ordine. Seguirono la repressione del generale Raffaele Cadorna che ordinò lo stato d’assedio ed i tribunali militari speciali. Intervengono gli studiosi Salvatore Lupo e Nino Blanda dell’Università di Palermo, Rino Messina, Antonella Folgheretti, Pippo Oddo, Domenico Tubiolo, Aldo Sparti, Mimmo Gambino, Santo Lombino, Giuseppe Spallino, Francesco Viviano. L’iniziativa è del Comune di Bolognetta, dell’associazione culturale “Nuova Busambra”, della Biblioteca “Tommaso Bordonaro”. 

P.S. : a riprova del fatto che, come sosteneva Leonardo Sciascia, c'è più verità in tante pagine di letteratura che negli archivi storici, ripropongo una pagina di Andrea Camilleri che fa riferimento alla rivolta del sette e mezzo:

''Una tinta matinata del settembre 1866, i nobili, i benestanti, i borgisi, i commercianti all'ingrosso e al minuto, i signori tanto di coppola quanto di cappello, le guarnigioni e i loro comandanti, gli impiegati di uffici... che dopo l'Unità avevano invaso la Sicilia pejo che le cavallette, vennero arrisbigliati di colpo e malamente da uno spaventoso tirribìlio di vociate, sparatine, rumorate di carri, nitriti di vestie, passi di corsa, invocazioni di aiuto.
Tre o quattromila viddrani, contadini delle campagne vicino a Palermo, armati e comandati per gran parte da ex capisquadra dell'impresa garibaldina, stavano assalendo la città. In un vìdiri e svìdiri, Palermo capitolò, quasi senza resistenza: ai viddrani si era aggiunto il popolino, scatenando una rivolta che sulle prime parse addirittura indomabile''.


- Andrea Camilleri, Biografia del figlio cambiato.