26 aprile 2024

ANCHE DANILO DOLCI è ancora vivo per me

 


IL 27 APRILE DEL 1937 SI SPEGNE ANTONIO GRAMSCI. Aveva solo 46 anni... 1 e 2

 




Gramsci  continua a vivere nel cuore di milioni di uomini (fv)


Il 27 aprile 1937 Antonio Gramsci si spegne nella clinica “Quisisana” di Roma, stroncato dai duri anni del carcere fascista. Muore per le sue idee, per essersi battuto contro Mussolini e la sua cricca, dopo la marcia su Roma da operetta. La “marcia su Roma e dintorni”, così lucidamente descritta da Emilio Lussu, in un mirabile impasto di tragedia storica e ironia, anzi di sarcasmo teatrale.

Disse Enrico Berlinguer a Cagliari il 27 aprirle de 77 - per i 40 anni dalla morte di Gramsci -:

”Tutta la elaborazione gramsciana è un filo che si dipana dalla sua terra natale, dalla vita sarda, dallo spirito sardo. Qui, a contatto con la miseria della sua gente - che anche egli patì - Gramsci divenne prima ribelle, ma un ribelle che ben presto seppe prendere contatto con il movimento operaio e socialista. Il rivoluzionario nasce dal ribelle, come egli stesso scrive.”


"Mi sono convinto che anche quando tutto è o pare perduto, bisogna rimettersi tranquillamente all'opera, ricominciando dall'inizio. Mi sono convinto che bisogna sempre contare solo su se stessi e sulle proprie forze; non attendersi niente da nessuno e quindi non procurarsi delusioni. Che occorre proporsi di fare solo ciò che si sa e si può fare e andare per la propria via. La mia posizione morale è ottima: chi mi crede un satanasso, chi mi crede quasi un santo. Io non voglio fare né il martire né l'eroe. Credo di essere semplicemente un uomo medio, che ha le sue convinzioni profonde, e che non le baratta per niente al mondo. Ti potrei raccontare qualche aneddoto divertente. Nei primi mesi che ero qui a Milano, un agente di custodia mi domandò ingenuamente se era vero che io, se avessi cambiato bandiera, sarei stato ministro. Gli risposi sorridendo che ministro era un po' troppo, ma che sottosegretario alle Poste o ai Lavori Pubblici avrei potuto esserlo, dato che tali erano gli incarichi che nei governi si davano ai deputati sardi. Scosse le spalle e mi domandò perché dunque non avevo cambiato bandiera, toccandosi la fronte col dito. Aveva preso sul serio la mia risposta e mi credeva matto da legare."
Antonio Gramsci, lettera a Carlo, 12 settembre 1927


"EREDITA' DISSIPATE" A PALERMO NELLA LIBRERIA MILLE MONDI

 



Libreria Mille Mondi di Palermo: si presenta "Eredità dissipate" di Francesco Virga

  • Libreria Mille Mondi, via Mariano Stabile 233 - Palermo
  • 30 aprile 2024
  • 18.00
  • Gratuito (fino a esaurimento posti)
Martedì 30 aprile alle 18.00, la libreria Mille Mondi di via Mariano Stabile a Palermo, propone la presentazione del libro "Eredità dissipate" di Francesco Virga.

Il volume studia l'eredità di Gramsci nella vita culturale della seconda metà del Novecento e viene presentato dall'autore insieme ad Aldo Gerbino e Rino Marotta.

Ingresso libero fino a esaurimento posti.

E' PERICOLOSO CHIAMARE LE COSE CON IL LORO NOME

 

Gramsci è stato definito LEOPARDIANO da Pasolini


“Sogliono essere odiatissimi i buoni e i generosi perché ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi loro nomi. Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tanto chi fa male, né il male stesso, quanto chi lo nomina.”

Giacomo Leopardi, “Pensieri” 

EINSTEIN SUL POTERE DELLA STAMPA

 


« I giornali di un Paese possono, in due settimane, portare la folla cieca e ignorante a un tale stato di esasperazione e di eccitazione da indurre gli uomini ad indossare l'abito militare per uccidere e farsi uccidere allo scopo di permettere a ignoti affaristi di realizzare i loro ignobili piani. »
Albert Einstein, “Come io vedo il mondo”

PASOLINI PROFETA INASCOLTATO

 



"So che sto dicendo delle cose gravissime. D’altra parte era inevitabile. Se no cosa sarei venuto a fare qui? Io vi prospetto – in un momento di giusta euforia delle sinistre – quello che per me è il maggiore e peggiore pericolo che attende specialmente noi intellettuali nel prossimo futuro. Una nuova “trahison des clercs”: una nuova accettazione; una nuova adesione; un nuovo cedimento al fatto compiuto; un nuovo regime sia pure ancora soltanto come nuova cultura e nuova qualità di vita. Vi richiamo a quanto dicevo alla fine del paragrafo quinto: il consumismo può rendere immodificabili i nuovi rapporti sociali espressi dal nuovo modo di produzione “creando come contesto alla propria ideologia edonistica un contesto di falsa tolleranza e di falso laicismo: di falsa realizzazione, cioè, dei diritti civili”.

Pier Paolo #Pasolini
📰 "Lo scandalo radicale." "Numero unico" per il 35º Congresso del Partito Radicale

📷 Pasolini a Firenze, settembre 1975, Giovannetti © Olycom/Riproduzione riservata


Il brano citato l'ho ripreso dal sito CITTA' PASOLINI

LA DESTRA CHE SI DICHIARA FASCISTA

 


La destra che si dichiara fascista


Ascanio Celestini
26 Aprile 2024
Roma, 25 Aprile. Foto di 100celle

Ho partecipato a un dibattito televisivo per dire tre cose sul pessimo rapporto che la destra italiana ha con la Storia. Volevo dire solo queste tre cose e le avevo comunicate prima di andare in onda.

La prima. Se il fascismo è nato in Italia significa che da noi c’è un terreno fertile.

La seconda. Il fascismo che non è finito il 25 aprile ’45 è: le stragi dal 12 dicembre del ’69 al 2 agosto dell’80, i tentati colpi di Stato del ’64 e del ’70, la P2.

La terza. Alla fine della guerra i fascisti non furono processati. Né i fascisti e fascistelli graziati dalle amnistie, né soprattutto gli oltre mille criminali di guerra che hanno fatto stragi nelle colonie africane e nei territori occupati con particolare scandalo per la Jugoslavia. Celebriamo quattromila morti nelle foibe per dimenticare centinaia di migliaia di morti ammazzati dall’esercito dell’Italia fascista?

Ho partecipato a DiMartedì (programma settimanale di La7) per dire precisamente quello che ho dichiarato prima di entrare in studio. Appena ho ricordato il numero di 1milione 706mila jugoslavi ammazzati dai nazifascisti Massimo Magliaro mi ha interrotto. Visto che due minuti prima Bocchino si era lamentato dicendomi che se lo interrompevo… ero fascista, ho chiesto a Bocchino di definire fascista anche Magliaro. Dal video si vede che stavo scherzando, ma Magliaro mi ha preso sul serio. “La risposta è arrivata subito ed è stata forte”, scrive il Tempo, e lui si è dichiarato fascista.

Anche i giornali di destra hanno detto tutti la stessa cosa. Non hanno smentito. Si sono lamentati, hanno ironizzato, l’hanno buttata in caciara, ma tutti hanno preso atto che un esponente della destra italiana ha la faccia tosta di andare in tv e dichiararsi fascista “senza alcun tentennamento” come scrive il Giornale.

Su LIBERO la raccontano così: «L’attore Celestini prende di mira Magliaro e afferma durante un diverbio: “Allora lei è fascista…”. La risposta è fulminante: “Lo sono, chiama i carabinieri?”»

Sul TEMPO: «L’attore Celestini ha messo nel mirino Massimo Magliaro: “Allora lei è fascista”, ha chiesto in diretta tv al suo interlocutore. La risposta è arrivata subito ed è stata forte: “Lo sono, chiama i carabinieri”»

Il migliore è IL GIORNALE che scrive nel titolo: «A DiMartedì scatta l’interrogatorio sull’antifascismo”». E argomenta con: «Sono passati pochissimi attimi e Magliaro, senza alcun tentennamento, ha rivendicato le proprie posizioni e ha lanciato una domanda provocatoria verso lo scrittore: “Io sì, lo sono. E allora?”».

F. FORTINI, C' era una donna che sola ho amato...

 




SAGGEZZA

C'era una donna che sola ho amata
Come nei sogni si ama se stessi
E di bene e di male l'ho colmata
Come gli uomini fanno con se stessi.

Essa era quella che avevo voluta
Per essere chiamato col mio nome:
E lo diceva, quando l'ho perduta.
Ma forse quello non era il mio nome.

E vo per altre stagioni e pensieri
Altro cercando al di là del suo viso;
Ma più mi stanco per nuovi sentieri
Sempre più chiaro conosco il suo viso.

Forse è vero, e i più savi l'hanno scritto:
Oltre l'amore c'è ancora l'amore.
Si sperde il fiore e poi si vede il frutto:
Noi ci perdiamo e si vede l'amore.

Franco Fortini (1917-1994)

25 aprile 2024

LA SEDUZIONE EROTICA NELLA LETTERATURA DEL 900

 


[E’ uscito da poco per Carocci Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo del Novecento, di Valentina Sturli. Pubblichiamo un estratto del primo capitolo].

SEDUZIONE E ROVINA NEL ROMANZO DEL 900

 Valentina Sturli

Ai primi del Duecento si diffonde in Europa una leggenda, quella di Aristotele cavalcato da Fillide, che avrà fortuna per tutto il Medioevo. Chi sia Aristotele è ben noto, ed era noto a maggior ragione nel Medioevo: non è un caso che Dante, senza neanche doverlo nominare, lo chiami «il maestro di color che sanno» (Inferno iv, 131) e lo metta a guida degli Spiriti Magni. Aristotele è per antonomasia il più sapiente di tutti. E Fillide chi è? Qui le versioni divergono: amante, cortigiana, moglie – è una donna legata a un principe, che in molta parte della tradizione viene identificato con Alessandro Magno, di cui Aristotele è il maestro. Secondo la storia, Alessandro trascura i doveri del regno perché innamorato di lei; Aristotele cerca allora di convincere il discepolo a temperare i suoi ardori, che lo allontanano dalle incombenze di governante. Alessandro cede, e accetta di diradare gli incontri con la donna, che architetta una vendetta esemplare: seduce Aristotele, per mostrare che anche l’anziano sapiente non è immune dalla forza dell’amore.

 

Nel Lai di Aristotele di Henri d’Andeli, composto verso la metà del xiii secolo, la scena di seduzione è rappresentata icasticamente: di prima mattina il dotto è chiuso dentro al suo studio, mentre Fillide è fuori nel sole, circondata degli elementi riconducibili alla primavera e al più classico di tutti i topoi, il locus amoenus. Prima tramite la voce, e poi attraverso la vista, la ragazza riesce a farsi notare. C’è una finestra che inquadra la scena e funziona da soglia tra spazio chiuso e aperto, tra ombra e luce, tra sicurezza e ignoto […]. Nel momento in cui la vista della bella colpisce gli occhi del dotto, come topica amorosa insegna, non c’è più scampo: Aristotele si affaccia alla finestra, parla con lei. Dopo un breve e goffo corteggiamento, infiammato di desiderio, le chiede di entrare. Ma qui assistiamo a un ribaltamento, perché sarà Fillide a dettare le condizioni. Appena acquisito, mediante la seduzione erotica, il potere di dirigere i pensieri dell’amante, la donna fa infatti scattare la trappola; dice al sapiente che accetterà di essere sua solo a patto che lui si lasci bardare e cavalcare. […] Ma la ragazza ha già avvertito Alessandro di trovarsi a una certa ora proprio lì: quando Aristotele, accecato di desiderio, accetta di sottoporsi alla prova degradante per conquistare le grazie di Fillide, scopre che il suo sovrano lo guarda. Alessandro coglie sul fatto la scena e, a seconda delle diverse leggende, il tutto ha un esito più o meno comico, misogino o moralistico: ad ogni modo il maestro, sorpreso con le mani nel sacco, dichiara di aver fatto bene a mettere il discepolo in guardia contro l’amore e le donne. Se pure un vecchio sapiente come lui cede alle lusinghe e si degrada a tal punto, a quali disastri può condurre la potenza delle passioni in un giovane? Siamo davanti all’ammissione dell’avvenuto rovesciamento delle parti: chi aveva la presunzione di saper governare le proprie passioni tanto da poter ammaestrare anche gli altri è caduto miseramente nella trappola delle medesime.

 

È interessante notare come più di sette secoli dopo, tra fine Ottocento e Novecento, una serie di narrazioni riprenderà con una certa insistenza questo stesso tema, ovvero quello di un intellettuale che viene soggiogato suo malgrado dalla potenza seduttiva di un oggetto del desiderio che lo conduce su una strada pericolosa e inquietante. Il ventennio che va tra la fine del xix secolo e l’inizio della Prima guerra mondiale costituisce per la storia europea un punto di svolta cruciale: in quel giro di anni la fisionomia del mondo occidentale cambia radicalmente, e non soltanto a livello geo-politico, con il crollo degli imperi ottomano, russo e austro-ungarico, e la serie di eventi che innescheranno il primo conflitto mondiale. Tra fine dell’Ottocento e inizio del Novecento Freud inventa la psicoanalisi, Nietzsche decreta che Dio è morto, la fisica apre nuove dimensioni della materia. La crisi epistemologica che ne deriva è foriera di conseguenze epocali, soprattutto per una classe – quella degli intellettuali – tanto coinvolta in prima linea nella definizione di questa medesima crisi, quanto incapace di scongiurarne le conseguenze per gli altri e per sé stessa. E proprio nel primo ventennio del secolo si manifesta con insistenza nella letteratura europea una costellazione di narrazioni che rappresentano esponenti della ragione (o supposti tali) che subiscono l’onda d’urto di un desiderio amoroso che li spinge bruscamente fuori dai consueti binari della loro vita ordinaria. Sulle tracce di desideri inaspettati e inquietanti, questi personaggi si trovano all’improvviso, e quasi senza avvedersene, a dover fare i conti con una realtà che sfugge, si rivela imprendibile e oscura. Ma soprattutto che resiste ai loro sforzi ermeneutici, li confonde e non si fa più decifrare.

 

Il tema non sarà più trattato in modo così leggero e giocoso, non avrà sempre per protagonisti un uomo anziano e una donna, potrà variare, e soprattutto potrà avere esiti di volta in volta più o meno tragici, ma nella storia di Aristotele e Fillide c’è un nucleo semantico che potremmo riassumere così: un sapiente, incarnazione di un’autorità morale e intellettuale, investito di una funzione didattica o pedagogica riconosciuta dalla società, cede al potere attrattivo di un oggetto del desiderio posto più in basso di lui; questo cedimento innesca un processo di incontro/scontro con l’alterità che lo conduce alla rovina e al degrado. Nel finale della leggenda medievale, Aristotele si limita a dare la colpa della sua brutta figura ai guasti che può produrre l’amore, e contro l’etica stoica, che predica il dominio di sé e l’esercizio razionale della virtù, è anche troppo evidente la morale cristiana: è meglio non fidarsi mai troppo della propria presunzione di autocontrollo, perché il disastro è sempre in agguato quando si tratta dello scatenamento delle passioni. Solo una vigilanza costante può mettere al riparo da cadute vertiginose dovute ai sensi, anche quando per età, sapienza, dottrina si potrebbe avere la tentazione di ritenersi al sicuro.

 

A voler definire un prototipo del nostro tema, niente funziona meglio di un romanzo che si imporrà nell’immaginario soprattutto grazie a un fortunatissimo adattamento cinematografico: Il professor Unrat (1905) di Heinrich Mann, che costituirà la base per L’Angelo Azzurro (1930) di Josef von Sternberg. Il titolo del romanzo contiene un gioco di parole, che anticipa una polarità fondamentale per tutti i nostri testi: da un lato il professore, che rimanda a una valenza semantica di prestigio; dall’altro Unrat che significa “rifiuto”. Il senso è qualcosa di simile a “Professor Spazzatura”, perché il protagonista si chiama Raat, ma è talmente odiato dai suoi allievi da meritarsi questo nomignolo. Siamo nel Nord della Germania guglielmina, a fine Ottocento, in una ricca e bigotta cittadina anseatica. Il protagonista è un arcigno docente di Greco del liceo locale, invecchiato tra le sue scartoffie e inviso agli allievi per via dell’arbitraria tirannide che esercita. Ben più che come trasmissione del sapere, intende la sua missione come una lotta per cogliere in fallo i ragazzi; la sua idea di cultura è quanto di più nozionistico e ottuso si possa immaginare.

 

Un giorno Unrat scopre che tre dei suoi allievi più odiati vanno ogni sera nel camerino di una cantante da avanspettacolo, Rosa Fröhlich, che si esibisce in un locale del porto, l’Angelo Azzurro, e decide di sorprenderli in flagrante. La sera stabilita si mette in cammino per le strade della città, addentrandosi in luoghi che non conosce. Una volta messosi sulle tracce del vizio, il professore comincia un percorso di smarrimento nello spazio che prelude a uno morale, con un’associazione semantica che si rivelerà pervasiva in tutti i testi che analizzeremo. […] L’effetto di Rosa, ancora sconosciuta, è già quello di trarre Unrat fuori dal binario della sua esistenza; il cronotopo di un notturno tra vicoli stretti, male illuminati e malfamati, in questo senso parla chiarissimo. Nel suo peregrinare il professore è sospeso tra sentimenti contrastanti: si sente perduto e smarrito, ma è anche stranamente eccitato, e dopo un po’ prende gusto alla caccia. Il momento in cui entra a capofitto nella bettola, proprio là dove incontrerà Rosa e il suo destino, viene descritto come il gettarsi dentro un abisso; lo stesso avverrà nel finale del romanzo, quando la polizia lo va a catturare. Davanti all’Angelo Azzurro Unrat decide di entrare, e come nel più classico dei contrappassi, chi è andato per intrappolare sarà intrappolato. […]

 

Già in questo primo esempio sono evidenti elementi che delimiteranno la nostra serie e torneranno sistematicamente: la presenza di un intellettuale (che può essere già più o meno degradato in partenza) che alle prese con l’alterità radicale di un oggetto del desiderio posto più in basso di lui (che sia di sesso femminile o maschile poco importa) entra in crisi, dando il via ad un processo di erranza che spesso ha le caratteristiche di un vero e proprio vagabondaggio nello spazio, ma che presto si traduce in un percorso di smarrimento mentale e morale. Ciò conduce a una crisi che può tradursi in un’evoluzione o nella morte. Naturalmente non sono solo i vecchi filosofi e i professori bigotti a deragliare per colpa del desiderio amoroso, poiché l’intera letteratura occidentale si regge sulla rappresentazione dei danni cui può condurre la perdita di controllo su di sé, in particolar modo quella dettata dall’istinto amoroso con il suo corollario di possessività e gelosia. Ma ciò che indagheremo sarà l’ultima declinazione di un tema che viene da lontano, e che affonda le sue radici nella critica alla presunzione della razionalità di governare il mondo e le passioni; nei testi novecenteschi gli esiti saranno quasi sempre infausti, ma al di là del disastro potranno portare a un faticoso processo di conoscenza di sé da parte di chi credeva, erroneamente, di avere già tutte le coordinate per orientarsi nel mondo. […] Se nell’antichità a impedire la caduta erano i valori relativi al codice eroico, e per l’epoca cristiana la fede in un dio trascendente, tra la fine del Settecento e l’inizio del secolo successivo, portate a compimento le premesse della rivoluzione dei Lumi, l’eroe – diventato nel frattempo eroe della ragione – non potrà più contare che sul suo intelletto per far fronte alle tentazioni di un’alterità seduttiva e minacciosa. Affrontare il tema che possiamo definire dell’intellettuale che si degrada per amore significa, dunque, prima di tutto interessarsi a casi in cui la ragione di matrice kantiana, quella che si fonda solo su sé stessa e sulla forza morale di chi la possiede, viene messa in pericolo da tentazioni di tipo erotico-sentimentale. Se si ammette che la letteratura funzioni come sede di un ritorno del represso di tutte quelle istanze che in una certa epoca storica sono malviste, ignorate, negate, non sarà un caso che il nostro tema cominci a manifestarsi con insistenza proprio tra fine Ottocento e inizio Novecento, in quel particolare momento della storia culturale occidentale in cui l’ideologia dominante è permeata dal trionfo della ragione intellettuale, ma anche dai presupposti della sua inesorabile crisi.

 

Se Kant ha scritto che l’Illuminismo è l’età dell’autonomia di uno spirito che si è emancipato da una condizione di minorità e sudditanza, di cessione all’altro della propria autonomia, possiamo ipotizzare che il tema di cui ci occuperemo racconti il rovescio di questa autonomia, che dovrebbe essere incarnata per antonomasia dalla figura dell’intellettuale. L’antitesi non sarà più quella tra fedeltà a oggetti metafisici e tentazione di adorarne altri terreni e degradati, ma piuttosto tra fedeltà alla ragione critica e alla propria disciplina di vita, e sottomissione a oggetti che richiedono, almeno in qualche grado, un’abiura di esse. In questa prospettiva si può affermare che un certo tipo di polarizzazione semantica, attiva da lunghissima data nella narrativa occidentale, si è declinata in modi diversi a seconda dei momenti e dei testi. […] Nella nostra serie di testi il rapporto con l’alterità si renderà figura di un rapporto mutato col mondo, e di nuove sfide ermeneutiche a cui gli esponenti della razionalità e della morale saranno sempre meno in grado di far fronte in un’età di profondissima crisi. Il problema non sarà costituito tanto dal fatto che l’oggetto d’amore si rifiuta di riamare chi lo ama, quanto piuttosto che chi è amato sfugge all’amante sul piano conoscitivo, è opaco, mette in crisi le facoltà interpretative di chi dovrebbe essere chiamato a esercitarle per guidare gli altri.

 

Il campione di romanzi che esamineremo in questa luce non sarà esaustivo, ma vuole essere in qualche grado emblematico; sono tutti testi molto noti del canone, e appartengono a un sottoinsieme che potremmo definire dell’intellettuale che si rovina per amore, che a sua volta fa parte dell’insieme molto più ampio di testi che parlano del degrado per amore puro e semplice. Dovendo decidere come trattarli, in un primo tempo si è pensato al semplice ordine cronologico, che rende bene l’idea dell’arco temporale – quasi un secolo esatto – in cui si iscrive la nostra indagine: il primo è Senilità di Italo Svevo, pubblicato nel 1898, l’ultimo è Il contagio di Walter Siti, del 2008. Ma via via che la stesura del volume procedeva, si è fatta avanti in chi scrive la convinzione che, pur mantenendo un certo ordine cronologico che fa sì che testi primo-novecenteschi siano trattati prima di quelli secondo-novecenteschi, bisognasse almeno in parte sparigliare le carte: pur rispondendo tutti a un impianto comune, alcuni romanzi rivelavano particolari affinità con altri. In certi casi l’affinità era scontata, sia per contiguità cronologica sia per rapporti intercorsi tra gli autori, attivi negli stessi anni (è il caso paradigmatico di André Gide e di Thomas Mann); altre volte l’accostamento è favorito dall’appartenenza a una comune tradizione letteraria, che prevede una filiazione diretta (si veda uno per tutti il rapporto che sia Un amore di Dino Buzzati sia La noia di Alberto Moravia, usciti in un brevissimo giro di anni, intrattengono con Senilità). Ma ci sono anche testi per cui un rapporto di parentela o di influenza diretta è altamente improbabile: si pensi a coppie come L’odore del sangue di Goffredo Parise e Follia di Patrick McGrath che, per quanto distanti, pure presentano delle sorprendenti affinità. Si è dunque deciso (tranne nel caso di Lolita di Vladimir Nabokov, snodo talmente centrale e paradigmatico per la nostra costellazione da meritare una trattazione a sé stante) di procedere analizzando i testi a coppie sulla base di affinità che saranno di volta in volta discusse, e che possono risultare illuminanti ben al di là degli steccati tra letterature nazionali e tradizioni letterarie diverse. Questo nella convinzione che i testi letterari possano a volte non solo essere i migliori interpreti di sé stessi, ma anche di altri cui li legano curiose e inaspettate parentele.

 

René Girard (2009, p. 43) ha scritto che «i romanzi si chiariscono gli uni per mezzo degli altri e la critica dovrebbe attingere ai romanzi stessi i propri metodi e persino il senso del suo sforzo»; nell’accostare testi scritti da autori diversi in epoche non sempre contigue, nel provare a leggerli in parallelo e in una serie che da fine Ottocento arriva fino ai giorni nostri, abbiamo provato a far parlare i testi tra di loro, sperando che ci rivelino qualcosa della trama delicata e complessa che costruiscono del mondo e nel mondo. Una trama sempre a rovescio, che va disciolta e ricomposta ogni volta cercando di non fare troppa violenza all’armonia del suo insieme.

 

[Immagine: Edvard Munch, La separazione]. 


Pezzo  ripreso da:  https://www.leparoleelecose.it/?p=49189

UOMINI E NO

 


Sottoscrivo quanto detto oggi dal Prof. Antonio Di Grado a proposito di antifascismo (fv):


ESSERE  ANTIFASCISTI  OGGI

L’ antifascismo, dunque: un pregiudizio da liquidare o piuttosto una discriminante da mantenere? Ed è in crisi, quel patrimonio di memorie e di valori? Pare di sì, a dar retta a chi predica una sorta di pacificazione, a chi vorrebbe una memoria edulcorata e così, finalmente, “condivisa”. E invece un paese maturo può, forse deve, fare i conti con una memoria divisa.

Non c’è nazione moderna che non sia nata da un cruento rivolgimento, politico o religioso, che l’ha spaccata in due: la Riforma protestante, la guerra civile inglese, la Rivoluzione francese, la guerra di secessione americana; per noi le due grandi occasioni mancate della nostra breve storia: il Risorgimento democratico e la Resistenza antifascista. E non c’è democrazia autentica (ma ce ne sono ancora?) che non si fondi sopra nette scelte di campo, o appassionate professioni di fede. È a questo prezzo che la bandiera abolizionista di Abramo Lincoln, insanguinata da una guerra civile, passò nelle mani inermi di Martin Luther King. Disse un protagonista di quella guerra: «Non ci dev’essere chiesto di dire che non c’era alcuna differenza fra coloro che combatterono per l’Unione e coloro che combatterono contro»; e così dovremmo dire noi agli odierni affossatori della memoria, giornalisti e politici, di destra e di sinistra.

E non ha senso nemmeno una visione troppo lineare – e pacificatrice - del percorso che ha fatto dell’Italia sabauda un’Italia repubblicana. Nella storia, invece, non tutto è positivo, la storia non ha mai conosciuto “magnifiche sorti e progressive”, e tantomeno la storia di un’Italia che già sul nascere aveva visto offuscarsi la sua prima grande occasione, quell’agognata unità nella libertà. In quella storia la Resistenza fu un elemento di rottura, non di continuità: segnò, anzi, una discontinuità radicale nella storia d’Italia. Fu la seconda grande occasione di rinnovamento: disattesa, rinnegata anch’essa sul nascere; e oggi tristemente archiviata, confusa in una indistinta nebulosa assieme a Muzio Scevola e a Pietro Micca. Basta guardarsi intorno, interrogare la gente, come basta a me interrogare i miei allievi, quasi tutti salvo un’élite politicizzata indifferenti o ignari, per accorgersi che nell’ultimo scorcio del secolo scorso si è aperta una cesura, che ha allontanato e appiattito il passato e ha azzerato la memoria.

Antifascismo, dunque, come principio indispensabile. Come la memoria, dolorosamente ma necessariamente “divisa”. È la ferma risposta del commissario partigiano Kim del "Sentiero dei nidi di ragno" di Italo Calvino al compagno che insinuava: «Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa?...». C’era purezza e ferocia, c’era pietà e cieca violenza da una parte e dall’altra, è vero, ma Kim risponde: «la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato». Quel «peso di male», quel «furore antico» che i partigiani sfogano in battaglia, «è lo stesso che fa sparare i fascisti, che li porta a uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto», ma… «Ma allora c’è la storia. C’è che noi, nella storia, siamo dalla parte del riscatto, loro dall’altra». E così la discriminante è tracciata, a futura memoria. «Da noi – prosegue Kim –, niente va perduto», mentre l’altra «è la parte dei gesti perduti, degli inutili furori», che «non fanno storia».

Calvino scrive nel ’47, appartiene alla giovane generazione sbocciata col neorealismo, ma già alla fine degli anni ’30 Elio Vittorini, che apparteneva alla generazione precedente, quella del “lungo viaggio attraverso il fascismo”, un viaggio tortuoso e drammatico che da un generico e velleitario ribellismo giovanile, dall’illusione d’un fascismo rivoluzionario e anticapitalista l’aveva condotta alla scoperta della vera natura – dispotica, reazionaria, padronale, normalizzatrice, repressiva – del regime, e a un’inquieta ricerca di nuovi approdi ideologici, nella sua "Conversazione in Sicilia" scopriva che «forse non ogni uomo è uomo; e non tutto il genere umano è genere umano. (…) Un uomo ride e un altro piange. Tutti e due sono uomini; anche quello che ride è stato malato, è malato; eppure egli ride perché l’altro piange. Egli può massacrare, perseguitare, e uno che (…) lo vede che ride sui giornali, non va con lui che ride ma semmai piange, nella quiete, con l’altro che piange. Non ogni uomo è uomo, allora. Uno perseguita e uno è perseguitato; e genere umano non è tutto il genere umano, ma quello soltanto del perseguitato».

"Uomini e no" si chiamerà infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano: una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.

Semmai Cesare Pavese, nella "Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Occorre “placare” il sangue, anche quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco, «perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia, per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico, necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare, perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il lenitivo dell’indistinzione.

"Uomini e no" si chiamerà infatti il suo successivo romanzo, quello del ’45 sulla Resistenza a Milano: una antitesi che oggi può apparire manichea, oggi ragioneremmo in maniera più complessa, meno astratta, cercheremmo di capire piuttosto che cosa fa dell’umanità – per dirla con Eco – dell’Ur-fascismo, del fascismo eterno, di quella nebulosa di odio e ignoranza che oggi ci sommerge, quello che è, che è diventata o che forse già era, ma allora quella drastica antinomia, quella discriminante così nettamente divisiva, si imponeva, e non furono certo gli scrittori, gli intellettuali a edulcorarla, a conciliare, a ricomporre.

Semmai Cesare Pavese, nella "Casa in collina", così scriveva: «ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblicani. […] Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. […] Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta, e gliene chiede ragione. […] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è la guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: “E dei caduti che facciamo? perché sono morti?”. Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero».

Occorre “placare” il sangue, anche quello nemico; occorre “perdonare”. Ma attenzione, lo scrive anche Eco, «perdonare non significa dimenticare». La pietas, cristiana o laica che sia, per chi è caduto, per chi ha creduto, per chi si è scommesso in buona fede in una causa sbagliata, non esclude affatto il giudizio, etico e politico, necessariamente inflessibile, non autorizza affatto l’impulso di dimenticare, perché la guerra non è finita, dice anzi Pavese: «Io non credo che possa finire», né la ferita può sanarsi con il balsamo dell’indifferenza, con il lenitivo dell’indistinzione.

 

ANTONIO  DI  GRADO


DISCORSO DI PIERO CALAMANDREI ALL' ASSEMBLEA COSTITUENTE

 




ATTENZIONE A NON TRADIRE CHI HA COMBATTUTO CONTRO IL FASCISMO 

di Piero Calamandrei

 

[Pubblichiamo un estratto del discorso che Piero Calamandrei tenne all’Assemblea Costituente il 4 marzo 1947. Buon 25 aprile].

 

C’è nelle disposizioni transitorie, del progetto, un articolo che proibisce «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del partito fascista».

Non so perché questa disposizione sia stata messa fra le transitorie: evidentemente può essere transitorio il nome «fascismo», ma voi capite che non si troveranno certamente partiti che siano così ingenui da adottare di nuovo pubblicamente il nome fascista per farsi sciogliere dalla polizia. Se questa disposizione deve avere un significato, essa deve esser collocata non tra le disposizioni transitorie, e non deve limitarsi a proibire un nome, ma deve definire che cosa c’è sotto quel nome, quali sono i caratteri che un partito deve avere per non cadere sotto quella denominazione e per corrispondere invece ai requisiti che i partiti devono avere in una Costituzione democratica. Sarà la organizzazione militare o paramilitare; sarà il programma di violenze contrario ai diritti di libertà; sarà il totalitarismo e la negazione dei diritti delle minoranze: questi od altri saranno i caratteri che la nostra Costituzione deve bandire dai partiti, se veramente vuol bandire il fascismo. 

 

[…]

 

Ho finito così, onorevoli colleghi, le mie osservazioni di carattere generale sulla nuova Costituzione. Vi ringrazio di avermi ascoltato con tanta benevolenza e così a lungo.

Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio. Qui c’è l’impegno di tutto un popolo. Questo è veramente un momento solenne. Sento un certo ritegno, un certo pudore a pronunziare queste grandi parole: si fa presto a scivolare nella retorica. Eppure qui veramente c’è nelle cose questa solennità, e non si può non sentirla; questa solennità che non è fatta di frasi adorne, ma di semplicità, di serietà e di lealtà: sopratutto di lealtà.

Questo che noi facciamo è il lavoro che un popolo di lavoratori ci ha affidato, e bisogna sforzarci di portarlo a compimento meglio che si può, lealmente e seriamente. Non bisogna dire, come da qualcuno ho udito anche qui, che questa è una Costituzione provvisoria che durerà poco e che, di qui a poco, si dovrà rifare. No: questa dev’essere una Costituzione destinata a durare.

Dobbiamo volere che duri; metterci dentro la nostra volontà. In questa democrazia nascente dobbiamo crederci, e salvarla così con la nostra fede e non disperderla in schermaglie di politica spicciola e avvelenata.

 

Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula, in cui una sciagurata voce irrise e vilipese venticinque anni fa le istituzioni parlamentari, è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte.

Io mi domando, onorevoli colleghi, come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente: se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì: credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia: e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti, da Matteotti a Rosselli, da Amendola a Gramsci, fino ai giovinetti partigiani, fino al sacrificio di Anna-Maria Enriquez e di Tina Lorenzoni, nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità.

Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore.

Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti.

Non dobbiamo tradirli.

PIERO CALAMANDREI 



POESIE DI LOTTA E DI RESISTENZA SCELTE DA ERRI DE LUCA

 



Grido, non serenata. Poesie di lotta e di resistenza


Insistendo sull’urgenza di questo 25 aprile, ospito qui alcune poesie (Ángel González, Fayad Jamís,Bertolt Brecht), di lotta e di resistenza, scelte da Erri De Luca per la raccolta Grido, non serenata, pubblicata da Crocetti. Ospito anche la sua nota introduttiva.

***

Questa raccolta risponde all’insindacabile opera del caso che qui si è manifestato in forma di scaffali affastellati di libri di poeti accumulati da mio padre, poi da me. Li ho sfogliati in cerca delle pagine da offrire, non più di qualche poesia per ogni poeta. La parola per me comprende femminile e maschile. L’ho imparato da Anna Achmatova che si dichiarava poeta e non poetessa. In russo le due parole sono uguali alle nostre. Sono pagine da condividere leggendole alla tavola di una sera che si prolunga e che lubrifica col vino le corde vocali. Sono poesie da dire, pronunciare aggiungendo il proprio fiato. Evito il verbo recitare che in parte le falsifica. Tra i dischi di mio padre alcuni erano incisioni di versi letti da attori. Calcavano coi toni della voce impostata, appunto: recitavano. Chi dice un verso muove anche le labbra di chi lo ha scritto. La poesia permette questa coincidenza e quella di ispirazione politica accomuna i sentimenti di giustizia di chi ha scritto e di chi legge. Qualche poeta è stato un incontro e mi ha ribadito nelle convinzioni. Qui ne cito uno soltanto, a nome dell’insieme. Ante Zemljar partigiano jugoslavo, prigioniero prima dei fascisti italiani poi dei suoi stessi compagni dopo la guerra, a causa di divergenze. Questa prigionia fu la peggiore, a spaccare pietre sopra l’Isola Nuda, a subire percosse di guardiani. Anche lì di nascosto, su carta da imballaggio di cemento e con un carboncino, scriveva dei versi veloci che nascondeva sottoterra.  Ne sono stato amico. In questa raccolta manca per difficoltà varie, ma non manca a me. Con questa nota lo segnalo a chi vorrà cercarlo.

Ne sono stato amico. In questa raccolta manca per difficoltà varie, ma non manca a me. Con questa nota lo segnalo a chi vorrà cercarlo. Ho fatto parte di una gioventù politica che aveva dalla sua la quantità numerica e l’istruzione superiore, miscela che fu allora detonante. Ho fatto parte di una massa critica intransigente e perciò avversata con l’antico sistema delle prigioni. Cerco nei poeti il grido, non la serenata. Qui ci sono quelli che mi è capitato di raccogliere durante la mia già lunga durata. Mancano arbitrariamente tutti gli altri che chi legge potrebbe aspettarsi di trovare. La scelta è tanto occasionale quanto personale, lacunosa come si addice a chi, leggendo spesso, si è fatto un’idea di quanto ha tralasciato. Non mi sono permesso di includere alla collezione una mia poesia. Resto nelle retrovie di questo libro, da addetto al suo rifornimento.

Erri De Luca

*** 

Ángel González
(Oviedo 1925 – Madrid 2008)

Lo sconfitto

Dietro sono rimaste le macerie:
fumanti brandelli della tua casa,
estati incendiate, sangue disseccato,
su cui s’ingrassa – ultimo avvoltoio –
il vento.

Tu ti metti in viaggio, e vai avanti
verso il tempo detto a ragione futuro.
Perché nessuna terra
possiedi,
perché nessuna patria
è né sarà mai tua,
perché in nessun paese
può radicare il tuo cuore disabitato.

Mai – ed è così semplice –
potrai aprire un cancello
e dire solo questo: “Buongiorno,
mamma”.
Anche se effettivamente il giorno è buono,
c’è grano nelle aie,
e gli alberi
stendono verso di te i loro stanchi
rami, offrendoti
frutti e ombra per farti riposare.

Traduzione di Dario Puccini 

Fayad Jamís
(Zacatecas, Messico 1930 – L’Avana 1988)
Per questa libertà

Per questa libertà di canto sotto la pioggia
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di essere strettamente legati
alle salde e dolci viscere del popolo
bisognerà dar tutto
Per questa libertà di girasole aperto nell’alba di fabbriche
accese e di scuole illuminate
e di terra che scricchiola e di bambino che si sveglia
bisognerà dar tutto
Non c’è alternativa se non la libertà
Non c’è cammino che la libertà
Non c’è altra patria che la libertà
Non ci sarà poema senza la violenta musica della libertà
Per questa libertà che è il terrore
di quelli che sempre la violarono
in nome di fastose miserie
Per questa libertà che è la notte degli oppressori
e l’alba definitiva di tutto il popolo ormai invincibile
Per questa libertà che illumina le pupille infossate
i piedi scalzi
i tetti sforacchiati
e gli occhi dei bambini che vagavano nella polvere
Per questa libertà che è l’impero della gioventù
Per questa libertà

bella come la vita
bisognerà dar tutto
se fosse necessario
perfino l’ombra
e non sarà mai abbastanza.

Traduzione di Marcelo Ravoni e Antonio Porta

Bertolt Brecht
(Augusta, Germania 1898 – Berlino Est 1956)


Mio fratello aviatore

Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che s’è conquistato
è sui monti del Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.

Traduzione di Ruth Leiser e Franco Fortini