Fredric Jameson, l’ultimo genio del pensiero
Slavoj Žižek
7 ottobre
2024, TESTO ripreso dalla
rivista INTERNAZIONALE
Fredric
Jameson non è stato solo un gigante intellettuale, l’ultimo vero genio del
pensiero contemporaneo. È stato il massimo esempio di marxista occidentale, uno
che ha saputo attraversare con coraggio gli opposti che definiscono il nostro
spazio ideologico: un eurocentrista la cui opera ha avuto grande risonanza in
Giappone e Cina, un comunista che amava Hollywood, soprattutto Hitchcock, e i
romanzi gialli, in modo particolare Chandler, un amante di Wagner, Bruckner e
del pop. Nei suoi lavori e nella sua vita non c’è assolutamente alcuna traccia
della cancel culture, e del suo moralismo severo e falso. Si
potrebbe dire che è stato l’ultimo esponente del rinascimento.
Jameson ha
combattuto sempre la mancanza di quella che lui definiva cognitive
mapping (mappa cognitiva), cioè l’incapacità di situare la nostra
esperienza in una totalità dotata di significato. Gli istinti che lo hanno
guidato in questa sua battaglia sono sempre stati giusti: per esempio in una
simpatica stilettata contro il rifiuto della logica binaria di tendenza nei
cultural studies, Jameson invocava “una celebrazione generalizzata
dell’opposizione binaria”. Per lui la negazione del binarismo di genere va di
pari passi con la negazione del binarismo di classe. Ancora profondamente
scosso dalla sua morte, posso solo presentare alcune osservazioni per offrire
un assaggio delle sue posizioni.
Oggi i
marxisti generalmente rifiutano ogni forma di immediatezza in quanto feticcio
che oscura la mediazione sociale. Tuttavia, nel suo capolavoro sul filosofo
Theodor W. Adorno, Tardo
marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica (Manifestolibri
1994), Jameson evidenzia come l’analisi dialettica contenga al suo interno un
suo punto di sospensione: nel mezzo di una complessa analisi sulle mediazioni,
tutto a un tratto Adorno opera un volgare atto di riduzionismo, interrompendo
la finezza dialettica con un’argomentazione semplice, quasi a dire “alla fine,
è tutta una questione di lotta di classe”. È così che la lotta di classe
funziona all’interno di una totalità sociale: non è la sua “base profonda”, il
principio fondamentale che ne media tutti i momenti, ma qualcosa di molto più
superficiale, il punto debole dell’analisi infinita e complessa, l’atto di
saltare direttamente alla conclusione quando, in un moto di disperazione,
alziamo le mani e diciamo: “Ma in fin dei conti, è tutta una questione di lotta
di classe!”.
Qui dobbiamo
tenere bene a mente che questo difetto nell’analisi è parte della realtà
stessa: è il modo in cui la società ritrova una totalità attraverso il suo
antagonismo costitutivo. In altre parole, la lotta di classe è una sbrigativa
pseudo-totalizzazione a cui ricorrere quando una totalità vera e propria è
impossibile, è un tentativo disperato di usare l’antagonismo stesso come
principio totalizzante.
Tra molte
persone di sinistra oggi è di moda anche liquidare le teorie del complotto come
soluzioni facili e false. Tuttavia, anni fa Jameson osservò in modo
intelligente che nel capitalismo globale succedono cose che non possono sempre
essere spiegate ricorrendo a una qualche anonima logica del capitale: per
esempio, oggi sappiamo che il tracollo finanziario del 2008 è stato il
risultato di un “complotto” ben ordito da alcuni circoli della finanza. Il vero
compito dell’analisi sociale è spiegare in che modo il capitalismo
contemporaneo ha aperto lo spazio a questi interventi “cospirativi”.
Modernità
alternative
Un’altra
intuizione di Jameson che entra in contrasto con la tendenza postcoloniale oggi
dominante è il suo rifiuto del concetto di “modernità alternative”, cioè la
tesi secondo cui la nostra modernità occidentale liberalcapitalista sarebbe una
delle possibili traiettorie verso la modernizzazione, e ne sarebbero dunque
possibili altre in grado di evitare i punti morti e l’antagonismo. Ma una volta
capito che “modernità” non è altro che un nome in codice per “capitalismo”, è
facile vedere che questo genere di relativizzazione storicistica della nostra
modernità si fonda sul sogno ideologico di un capitalismo che sia in grado di
evitare i suoi antagonismi costitutivi.
“Come
possono dunque gli ideologi della ‘modernità’ nel senso corrente fare in modo
che si distingua il loro prodotto – la rivoluzione dell’informazione e la
modernità globalizzata del libero mercato – dalla vecchia rivoluzione,
detestabile, senza trovarsi coinvolti nei seri interrogativi politici,
economici e di sistema che il concetto di postmodernità rende inevitabili? La
risposta è semplice: si parla di modernità ‘alternative’. Ormai tutti conoscono
la formula: questo vuol dire che ci può essere una modernità per tutti che è
diversa dal modello standard o egemonico anglosassone. Qualunque elemento che
non vi piaccia di quest’ultimo, inclusa la posizione subalterna in cui vi
lascia, può essere cancellato dal concetto rassicurante e ‘culturale’ che permette
di modellare la vostra modernità in un altro modo, così che ci può essere un
tipo latinoamericano, indiano o africano, e così via. […] Ma questo significa
non vedere l’altro significato fondamentale della modernità, che in sé è quello
del capitalismo diffuso in tutto il mondo” (Una modernità singolare,
Sansoni 2003).
La rilevanza
di questa critica si estende ben oltre il caso della modernità, riguarda i
limiti fondamentali della storicizzazione nominalista. Il ricorso alla
moltitudine (“Non esiste una modernità con un’essenza data, esistono modernità
multiple, ciascuna non riconducibile alle altre”) è falso, non perché non
riconosce un’essenza data, specifica, della modernità, ma perché questa
moltiplicazione opera come una negazione dell’antagonismo che è intrinseco al
concetto stesso di modernità: la falsità della moltiplicazione risiede nel
fatto che svuota il concetto universale di modernità del suo antagonismo, che è
parte costitutiva del sistema capitalista, riducendo questo aspetto a
caratteristica di una soltanto delle sue sottospecie storiche.
Fascismo
e comunismo
Non va
dimenticato che la prima metà del ventesimo secolo è già stata segnata da due
grandi progetti che si conciliano perfettamente con questa idea di modernità
alternativa: fascismo e comunismo. L’idea di fondo del fascismo non era forse
quella di una modernità alternativa a quella anglosassone liberalcapitalista,
che salvasse il nucleo della modernità capitalista sbarazzandosi della sua
distorsione “contingente” ebraico-individualista-affarista? E non è stata forse
anche la rapida industrializzazione dell’Unione Sovietica tra la fine degli
anni venti e gli anni trenta un tentativo di realizzare una modernizzazione
diversa da quella capitalista occidentale?
Una cosa da
cui Jameson si è tenuto alla larga come un vampiro dall’aglio è stata la
forzatura di voler leggere un’unità profonda tra le diverse forme di protesta.
Negli anni ottanta offrì un’acuta descrizione dell’impasse nel dialogo tra
la new left occidentale e i dissidenti dell’Europa orientale,
dell’assenza di un qualsiasi linguaggio comune tra loro: “In breve, l’oriente
vuole parlare in termini di potere e oppressione; l’occidente in termini di
cultura e mercificazione. Non ci sono denominatori comuni in questa lotta
iniziale per le regole del discorso, e alla fine non resta altro che la
commedia inevitabile in cui ogni parte biascica repliche irrilevanti nel suo
linguaggio preferito” (The seeds of time, Columbia University Press
1994).
In modo
simile, lo scrittore di gialli svedese Henning Mankell è uno straordinario
artista di quella che io chiamo “visione di parallasse”. Le prospettive della
ricca Ystad in Svezia, dove sono ambientati molti suoi romanzi, e quella di
Maputo in Mozambico, dove lo scrittore ha vissuto a lungo, sono
irrimediabilmente fuori sincrono, al punto che non c’è alcun linguaggio
neutrale che permetta di tradurre l’una nell’altra, e ancor meno di postulare
una come la verità dell’altra.
Tutto ciò
che si può fare è restare fedeli a questa scissione in quanto tale, prenderne
atto. Ogni attenzione esclusiva per i temi del mondo ricco, come l’alienazione
capitalista e la mercificazione, la crisi ecologica o i nuovi razzismi e
intolleranze, non può che apparire cinica di fronte alla povertà brutale di
certi paesi, alla fame e alla violenza; d’altra parte i tentativi di liquidare
come banali i problemi del mondo ricco in confronto alle vere catastrofi dei
paesi poveri non sono meno falsi: concentrarsi sui cosiddetti problemi reali è
l’estrema forma di fuga dalla realtà, un modo di sottrarsi alla necessità di
affrontare gli antagonismi della propria società. Il divario che separa le due
prospettive è la verità della situazione.
Marx e
Chandler
Come tutti i
bravi marxisti, nella sua analisi dell’arte Jameson è stato un rigoroso
formalista. Una volta a proposito dello scrittore Ernest Hemingway disse che il
suo stile scarno (frasi brevi, quasi totale assenza di avverbi, eccetera) non
serviva a rappresentare un certo tipo di soggettività (narrativa), l’individuo
duro cinico e solitario; al contrario, Hemingway aveva inventato un certo tipo
di contenuti narrativi (storie di personaggi inaspriti dalla vita) proprio per
poter scrivere un certo tipo di frasi (che era il suo obiettivo primario). Allo
stesso modo, nel suo fondamentale saggio Raymond Chandler. L’indagine
della totalità (Cronopio 2018), Jameson ha descritto la tipica
procedura di Chandler: la formula del racconto poliziesco (l’indagine di un
detective che lo porta in contatto con ogni genere di persone) era una cornice
che permetteva di inserire nella trama intuizioni sociali e psicologiche,
ritratti plastici e osservazioni sulle tragedie della vita. Il paradosso
propriamente dialettico da non farsi sfuggire qui è che sarebbe sbagliato dire:
“Ma allora perché lo scrittore non ha abbandonato questa forma per darci arte
pura?”. Questa critica è vittima di una sorta di illusione prospettica: ignora
infatti che, se abbandonassimo la cornice formulare, perderemmo proprio quel
contenuto “artistico” che la cornice apparentemente distorce.
Un’altra
peculiare impresa di Jameson è stata la sua lettura di Marx attraverso il
pensiero dello psichiatra Jacques Lacan: per lui gli antagonismi sociali erano
il reale di una società. Ricordo ancora lo shock di quando a una conferenza su
Lenin che organizzai a Essen nel 2001, Jameson ci colpì tutti tirando in ballo
Lacan per interpretare il sogno di Lev Trockij. Nella notte del 25 giugno 1935
Trockij in esilio sognò Lenin, morto dieci anni prima, che lo interrogava con
ansia a proposito della sua malattia: “Rispondevo che avevo già chiesto a
diversi medici, e cominciavo a dirgli del mio viaggio a Berlino; ma guardando
Lenin mi ricordavo all’improvviso che era morto. Immediatamente cercai di
allontanare questo pensiero, in modo da finire la conversazione. Quando ebbi
finito di dirgli del mio viaggio di cura a Berlino, nel 1926, volevo aggiungere
‘Fu dopo la vostra morte’; ma mi trattenni e dissi, ‘Dopo che vi siete
ammalato…’.
Nella sua
interpretazione di questo sogno Lacan si concentra sull’evidente legame con il
sogno di Sigmund Freud in cui gli appare il padre, che non sa di essere morto.
Cosa vuol dire che Lenin non sa di essere morto? Secondo Jameson ci sono due
modi radicalmente opposti di leggere il sogno di Trockij. Secondo una prima
lettura, la figura terribilmente ridicola del Lenin non morto “non sa che
l’immenso esperimento sociale a cui lui, da solo, ha dato vita (e che noi
chiamiamo comunismo sovietico) si è concluso. È ancora pieno di energia, anche
se morto, e nemmeno tutti i rimproveri dei vivi – di essere stato l’origine del
terrore staliniano, una personalità aggressiva piena di odio, un amante del
potere e del totalitarismo, e (quel che è peggio) perfino un promotore della
riscoperta del mercato con la nuova politica economica adottata nell’Unione
Sovietica degli anni venti –, nemmeno tutti questi insulti riescono a dargli la
morte, neppure una seconda morte. Come è possibile che pensi di essere ancora
vivo? E qual è la nostra posizione qui – che sarebbe poi, senza dubbio, quella
di Trockij nel sogno – qual è la nostra non conoscenza, qual è la morte da cui
Lenin ci difende?” (Lenin and revisionism, Duke University Press 2007) .
Ma c’è un altro senso in cui Lenin è ancora vivo: è vivo in quanto incarna
quella che il filosofo Alain Badiou chiama “l’Idea eterna” dell’emancipazione
universale, l’immortale aspirazione alla giustizia che né insulti né catastrofi
possono uccidere.
Come me,
Jameson era un convinto comunista, anche se al tempo stesso era d’accordo con
Lacan, secondo il quale giustizia e uguaglianza si fondano sull’invidia:
l’invidia per chi possiede quel che noi non possediamo e se lo gode. Sulla scia
di Lacan, Jameson rifiutava completamente l’idea ottimista secondo cui nel
comunismo l’invidia sarà relegata al passato, come un residuo della
competizione capitalistica, per cedere il posto alla collaborazione solidale e
al piacere per il piacere altrui; smontando questo mito, Jameson sottolineava
che nel comunismo, proprio perché sarà una società più giusta, invidia e
risentimento esploderanno. La soluzione di Jameson qui è radicale fino a
rasentare la follia: l’unico modo in cui il comunismo potrà sopravvivere sarà
attraverso una qualche forma di servizio sociale psicanalitico universale che
permetta agli individui di eludere la trappola autodistruttiva dell’invidia.
Un’altra
indicazione sul modo in cui Jameson intendeva il comunismo si trova nella sua
lettura della storia di Franz Kafka su Josefine, il topo-cantante. La
considerava un’utopia sociopolitica, la visione di Kafka di una società
comunista radicalmente ugualitaria. Solo che Kafka, per il quale gli esseri
umani erano irrimediabilmente segnati dalla colpa del super-io, riusciva a
immaginare una società ugualitaria solo tra gli animali. Qui bisogna resistere
alla tentazione di proiettare una qualche tragedia sulla scomparsa finale di
Josefine e la sua morte: il testo chiarisce che, dopo la sua morte, Josefine
“si perderà felicemente nell’incommensurabile moltitudine
degli eroi del nostro popolo” (il corsivo è mio).
Nel suo
ultimo saggio lungo, Risentimento sociale. Sulle alternative al
capitalismo globale (Meltemi 2023), Jameson ha scandalizzato anche
molti dei suoi seguaci proponendo l’esercito come modello di una società
postcapitalista futura: non un esercito rivoluzionario, ma l’esercito nella sua
funzione inerte e burocratica in tempi di pace. Jameson parte da una battuta
risalente all’epoca del generale e presidente degli Stati Uniti Dwight D.
Eisenhower, quando si scherzava sul fatto che se un cittadino voleva l’assistenza
sanitaria pubblica non doveva far altro che entrare nell’esercito. La tesi di
Jameson è che l’esercito potrebbe svolgere questo ruolo proprio perché è
organizzato in modo non-democratico e non trasparente (gli alti generali non
sono eletti, e così via…).
Per la
teologia vale lo stesso che per il comunismo. Pur essendo stato uno strenuo
materialista, Jameson ha spesso usato nozioni di teologia per gettare nuova
luce su alcuni concetti marxisti. Per esempio, sosteneva che la predestinazione
è il concetto teologico più interessante per il marxismo: la predestinazione
indica la causalità retroattiva che caratterizza un processo storico
propriamente dialettico. Un altro nesso insospettabile con la teologia forniva
a Jameson lo spunto per affermare che in un processo rivoluzionario la violenza
gioca un ruolo simile a quello della ricchezza nella legittimazione protestante
del capitalismo: anche se non ha un suo valore intrinseco (e perciò non bisogna
farne un feticcio ed esaltarla in sé e per sé, come succede nel fascismo), la
violenza è un sintomo dell’autenticità dell’iniziativa rivoluzionaria. Quando
il nemico resiste e ci sfida in un conflitto violento, questo vuol dire che
abbiamo efficacemente toccato un nervo scoperto.
Forse la più
acuta interpretazione teologica in Jameson può trovarsi nel suo saggio
semisconosciuto Saint Augustine as a social democrat (Sant’Agostino
socialdemocratico). Nel saggio sosteneva che la più celebre acquisizione di
Agostino, la sua invenzione della profondità psicologica della personalità del
credente, con tutta la complessità dei suoi dubbi e delle sue angosce interiori,
è strettamente correlata, anzi è l’altra faccia della legittimazione del
cristianesimo in quanto religione di stato, pienamente compatibile con la
cancellazione delle ultime tracce di politica radicale dall’edificio della
cristianità. Lo stesso può dirsi, tra gli altri, per i transfughi anticomunisti
della guerra fredda: solitamente alla loro svolta contro il comunismo si accompagnava
anche la svolta verso una certa forma di freudismo, la scoperta della
complessità psicologica della vita individuale.
Un’altra
categoria introdotta da Jameson è quella del “mediatore che svanisce”, un
mediatore tra il vecchio e il nuovo. Il “mediatore che svanisce” indica un
elemento caratteristico nel passaggio dal vecchio ordine a uno nuovo: quando il
vecchio ordine si disintegra, si manifestano cose inaspettate, non solo gli
orrori di cui parlava Antonio Gramsci, ma anche luminosi progetti e pratiche
utopiche. Una volta che il nuovo ordine si è assestato, una nuova narrazione
emerge e, all’interno di questo nuovo spazio ideologico, il mediatore scompare
alla vista. Basta guardare al passaggio dal socialismo al capitalismo in Europa
dell’est. Quando negli anni ottanta le persone protestavano contro i regimi
comunisti, la maggior parte di loro non pensava al capitalismo. Voleva
sicurezza sociale, solidarietà, una forma approssimativa di giustizia; quelle
persone aspiravano a vivere libere dal controllo statale, di riunirsi e parlare
come preferivano; volevano una vita di semplice onestà e genuinità, liberata da
un indottrinamento ideologico primitivo e dalla cinica ipocrisia dominante. In
sostanza, i vaghi ideali che guidavano quei dissidenti erano, in larga misura,
presi dalla stessa ideologia socialista. E, come abbiamo imparato da Freud, ciò
che è represso prima o poi ritorna in forma distorta. In Europa il socialismo
represso nell’immaginario dissidente è tornato sotto forma di populismo di
destra.
Molte delle
formulazioni di Jameson sono diventate dei memi, come l’idea che il
postmodernismo sia la logica culturale del tardo capitalismo. Un altro di
questi memi è una sua vecchia battuta (a volte attribuita a me), oggi più che
mai attuale: ci riesce più facile immaginare una catastrofe totale sulla Terra
capace di mettere fine a ogni forma vita che un reale cambiamento nei rapporti
capitalisti; come se, anche dopo un cataclisma globale, il capitalismo in
qualche modo potesse continuare a vivere. E se applicassimo questa stessa
logica anche a Jameson? È più facile immaginare la fine del capitalismo che la
morte di Jameson.