11 ottobre 2024

IL CASANOVA DI FELLINI

 



"Vado a trovare Federico Fellini, al teatro di Cinecittà dove sta girando il suo Casanova. Mi fa incontrare Donald Sutherland. tutto vestito di seta verde scura e nera. con il volto addirittura modificato nel senso della lunghezza e verticalità. elegantissimo e vampiresco; mi mostra una grande tavola imbandita per un banchetto veneziano, con trofei di frutta di plastica e affreschi popolati di gobbi femmine e maschi, quindi mi fa vedere una sequenza con una gigantessa alta due metri e cinquanta: si apparta finalmente con me e facciamo una lunga chiacchierata su Casanova. Secondo Fellini dunque, Casanova è una "mazzancolla". cioè un crostaceo corazzato di scaglie sociali, fuori, e molliccio come un cencio, dentro; è un "mostruoso neonato mai stato bambino nè adulto": è il "vuoto fatto di persona"; è "un archivista della propria vita"; è "un figlio della controriforma che crede di essere un ribelle e non lo è"; è "un insetto degno di essere studiato da Fabre". Sempre secondo Fellini, lui fa il Casanova soltanto perchè ha firmato il contratto prim'ancora di leggere le Memorie e avendole poi lette con noia infinita, si è trovato nella triste necessità di dover fare onore alla propria firma. A questo punto ci domandiamo: la firma del contratto è il solo motivo per cui Fellini affronta il personaggio di Casanova o ce ne sono altri che lui stesso, magari, ignora ? In altri termini, quali sono i motivi per cui Fellini, come un artista del nostro più "tecnico" Rinascimento, ha deciso di risolvere il problema, appunto, tecnico di un personaggio che non ama e, dunque, non c'è'? Noi crediamo che Fellini sia sincero; ma pensiamo che ci sono almeno quattro validi motivi, per lui, di fare il Casanova. Eccoli. In primo luogo, Casanova è un personaggio eminentemente sociale, per giunta appartenuto alla società più numerosa. più articolata, più estesa che ci sia mai stata al mondo. Ora Fellini è il nostro registra che ha maggiore sensibilità per il fatto sociale, come è dimostrato dal film La doce vita e Amarcord nei quali sono rappresentati coralmente due momenti storici del nostro paese, come Satyricon nel quale è tentata la sintesi figurativa di un'intera civiltà, come Roma in cui è affrontato il tema di una grande città e della suo ideologia. Sì, Casanova, come dice Fellini, forse non esiste ma non esiste proprio perchè è un personaggio così rappresentativo: non è un vitellone di provincia, è "il" vitellone di provincia; non è un uomo del Settecento, è "il" Settecento: non è un seduttore, è "il" seduttore ... Il secondo motivo è che Casanova, per Fellini è un mostro, anzi è perfino un mostro tra i mostri, in quanto non soltanto è mostruoso ma si dimostra capace di vivere da mostro, con successo, tutta la sua lung,, vita, come non avviene mai a nessun mostro. Per Fellini, uomo d'ordine curioso dì ogni disordine, Casanova. mostro tra i mostri, è, insomma un'affascinante eccezioni a tutte le regole. E' un mostro di fisicità totale, privo non soltanto di coscienza ma anche di una qualsiasi intimità esistenziale; l, cui mostruosità, peraltro consiste soprattutto nell'essersela cavata lo stesso benissimo Terzo motivo: Casanova, per Fellini, è que rebus che per gli intellettuali italiani è l'italiano tipico o che tale è reputato. L'Italia È la sola nazione al mondo nella quale sia ca. povolta la solita proporzione tra spettatori e attori. Di solito, in tutti i paesi, poche centi naia di intellettuali recitano sul palcoscenico nazionale per un pubblico di milioni d loro concittadini non intellettuali. In Italia invece, poche centinaia di intellettuali assistono alla recita continua e imperterrita di milioni di loro concittadini non intellettuali. Casanova per Fellini, è un tipico esemplare di questo popolo di attori.
Cosa recitano, da sempre. i milioni di Casanova per la platea dei pochi intellettuali? Essi fingono con se stessi, via via. di essere liberali, fascisti, democristiani. di essere religiosi, patriottici, ideologici, di essere sportivi, colti, bellicosi, di essere bambini, giovani, vecchi, e così via. Mentre, in realtà non sono nulla di tutto questo: lo sa soltanto il diavolo quello che sono. E il diavolo, maliziosamente se interrogato, confermerebbe: "Lo vedete cosa sono, sono attori". Fellini è dunque l'intellettuale italiano insieme affascinato e spaventato della perpetua recita dei suoi compatrioti. Quarto motivo: Casanova affascina Fellini perché è sessualmente privo di problemi. Si sa o almeno si sente che Fellini, tra i due grandi sistemi conoscitivi che ci ha regalato l'Ottocento, il marxismo e la psicanalisi, preferisce di gran lunga quest'ultima. Si sa infatti, o meglio si sente che Fellini, individualista e personalistico, ritiene che la psicanalisi, in qualche modo. ha ricuperato l'individuo attraverso la vita interiore. Casanova così vitale nonostante la sua mancanza completa di vita interiore (come dire qualcuno che sia privo dello stomaco e dell'intestino) smentisce la psicanalisi. E non serve dire che, come la lotta di classe comincia ad esistere soltanto quando le classi prendono coscienza di lottare così l' inconscio, comincia ad esistere soltanto quando si prende coscienza della sua esistenza. Non serve dire insomma, che Casanova non ha colpa di essere nato tanto prima di Freud. Egualmente Fellini sente che nella sessualità di Casanova c'è qualche cosa "che non va". "

Alberto Moravia, L'Espresso, 7 dicembre 1975



𝐈𝐥 𝐂𝐚𝐬𝐚𝐧𝐨𝐯𝐚 𝐝𝐢 𝐅𝐞𝐥𝐥𝐢𝐧𝐢, 1976, diretto da #FedericoFellini con Donald Sutherland, vincitore dell'Oscar ai migliori costumi.

Soggetto Federico Fellini, tratto da Histoire de ma vie di Giacomo Casanova
Sceneggiatura Federico Fellini, Bernardino Zapponi
Produttore Alberto Grimaldi
Casa di produzione PEA
Distribuzione in italiano Titanus
Fotografia Giuseppe Rotunno
Montaggio Ruggero Mastroianni
Effetti speciali Adriano Pischiutta
Musiche Nino Rota
Scenografia Danilo Donati, Giorgio Giovannini, Rinaldo Geleng, Giuliano Geleng, Mario Fallani, Roland Topor, Federico Fellini, Giovanni Gianese
Costumi Danilo Donati
Trucco Rino Carboni

Interpreti e personaggi
Donald Sutherland: Giacomo Casanova
Tina Aumont: Henriette
Cicely Browne: marchesa Durfé
Carmen Scarpitta: signora Charpillon
Clara Algranti: Marcolina
Daniela Gatti: Giselda
Margareth Clémenti: suor Maddalena
Olimpia Carlisi: Isabella
Silvana Fusacchia: sorella di Isabella
Chesty Morgan: Barberina
Leda Lojodice: bambola meccanica
Sandy Allen: Angelina, la gigantessa
Clarissa Mary Roll: Annamaria
Daniel Emilfork-Berenstein: marchese Du Bois
Luigi Zerbinati: papa
Hans van de Hoek: principe Del Brando
Dudley Sutton: duca di Wuertemberg
John Karlsen: lord Talou
Reggie Nalder: Faulkircher
Mario Cencelli: dottor Moebius
Mary Marquet: madre di Casanova

GALVANO DELLA VOLPE: un altro marxista eretico

 


      Non mi sembra casuale il fatto che i più grandi marxisti del 900 siano stati tutti eretici  rispetto al marxismo-leninismo canonizzato negli anni trenta da Stalin. (fv)

OCCIDENTE IN CRISI

 


LA DISFATTA DELL’OCCIDENTE SECONDO EMMANUEL TODD


“Le nostre democrazie liberali stanno diventando oligarchie, sistemi governati da élite irresponsabili che, a riflesso delle società individualistiche funzionano come aggregati atomizzati, autoreferenziali contrassegnati da un pericoloso vuoto di pensiero di idee, di prospettive che non siano quelle della semplice riproduzione del potere personale”.

(Emmanuele Todd in Marco Cicala “A Ovest niente di buono”, intervista a Emmanuele Todd, (“Il Venerdì”, 28 settembre 2024, p.22).

10 ottobre 2024

LA POESIA SECONDO VALERIO MAGRELLI

 



Il Questionario poetico di Gisella Blanco per Il Talento di Roma 

In questa rubrica, poniamo ai poeti romani o che risiedono o transitano spesso nella Capitale, due tra le domande più emblematiche tratte dallo storico saggio Il pubblico della poesia di Alfonso Berardinelli e Franco Cordelli che, dal 1975, per ben tre edizioni, pone ai poeti i doverosi interrogativi sul linguaggio letterario, nonché sul presente e sul futuro della poesia italiana. Dal confronto e dall’intersezione delle risposte potrà emergere la possibilità di fare un quadro, seppur non esaustivo ma almeno verosimile, dello stato dell’arte poetica contemporanea e dell’annosa questione dell’industria della cultura di oggi.


  • Hai idee generali organizzate in ipotesi (e tesi) teoriche intorno allo scrivere poesia in generale e allo scriverla oggi?

 

Valerio Magrelli: Mettere un chiodo nella presa elettrica: questo, per me, significa affrontare la questione della “poetica”. Tanto vale prenderne atto: scrivere di poetica per me non è possibile, poiché non posso sapere in anticipo dove va la mia scrittura – ne scrivo appunto per scoprirlo, come provai a spiegare nella voce Gnarus dell’abbecedario Che cos’è la poesia? (libro e cd, Sossella 2005, Giunti 2013): [Gnarus] è una parola latina che, confesso, non avevo mai sentito, prima di scrivere questo abecedario. Ne utilizziamo spesso la negazione, ovvero l’aggettivo “ignaro”. Ma proviamo a vederla da vicino. Il termine significa “ben informato”, “esperto”, “pratico di”, e deriva dalla radice indoeuropea gna, che sta per “conoscere”. Ad essa è correlato un vocabolo come “gnoseologia”, ma anche termini quali “narratore” e “narrazione”. Dunque, secondo il suo etimo, il narratore è colui che sa, cioè che conosce la storia da narrare. Ora, se questo è vero per chi guida il racconto, sarà lo stesso anche per chi compone versi? Altrimenti detto: che cosa sa il poeta della sua poesia? Insomma, conosce davvero ciò che scrive? Dobbiamo considerarlo gnarus o ignarus? E ancora: siamo poi veramente sicuri che oggi il narratore sia ancora così informato come un tempo sui fatti da narrare?

Mi piacerebbe affidare la risposta a un romanziere, Giuseppe Pontiggia: “Io non metto il messaggio nel testo, ma glielo chiedo. È da lui che lo aspetto, per scoprire ciò che non sapevo di sapere”. I nostri dubbi trovano conferma. Se il narratore stesso è diventato, almeno in parte, ignaro, figuriamoci il poeta…

Come uscire da un tale labirinto? Forse il modo più semplice consiste nel capire che l’opera non va considerata come un oggetto dominato dall’autore, bensì come un processo che trasforma l’autore medesimo. Chi scrive versi, infatti, non lo fa per trasmettere un dispaccio, bensì per cercare qualcosa che non potrebbe mai trovare altrove.

 

Riprendendo la mia testimonianza personale, confesso che di solito mi limito a commentare le mie poesie nelle letture, anzi, accetto di intervenire in pubblico proprio per poter esaminare quei versi “ex post”, improvvisando e prendendo appunti nel corso delle conferenze. Già su questo dettaglio, a ben vedere, ci sarebbe molto da dire. Io tendo a preparare una scaletta, un canovaccio, su cui eseguire variazioni (cadenze, modulazioni, svisate). Il risultato è che le mie note vengono stilate mentre parlo, o dopo aver parlato, quasi mai prima. Questa è la ragione per cui ho sempre detestato il sistema del power-point, ossia quel tipo di relazione che richiede una rigorosa pre-disposizione del materiale iconografico. Viceversa, la mia esperienza di docente è stata rivoluzionata dall’arrivo della rete, che consente aperture improvvise, ricerche estemporanee e spesso inattese per l’insegnante stesso.

Insomma, sono arrivato alla conclusione che il mio motore mentale, come la mia poetica, funziona “a trazione posteriore”. Per questo motivo, scrivere di poetica mi risulta inconcepibile: ritengo anzi che un atto del genere rappresenti il frutto avvelenato dell’avanguardia, e in particolare del dadaismo, un movimento di cui cominciai a occuparmi oltre trent’anni fa (Profilo del dada, Lucarini 1990, Laterza 2006). Ogni manifesto pre-scrive, mentre io posso soltanto produrre post-scritti, ovvero una sterminata serie di addenda (rinvio su questo tema alle acute pagine in cui Michel Jarrety definisce l’intera opera di Paul Valéry come un unico, lungo post-scriptum). Se proprio dovessi capitolare, preferirei allora optare per una “post-poetica”, così come nel cinema si parla di post-produzione.

Ho provato a riassumere tante diverse impressioni, in una poesia tratta da Il sangue amaro e ispirata a una splendida riflessione di Isabelle Stengers (co-autrice, insieme al premio Nobel per la Chimica Ilya Prigogine, del saggio La nuova alleanza). La storica della scienza rifletteva sul fatto che le cavie, in biologia, sono molto diverse dagli oggetti degli esperimenti in fisica. In pratica, Galileo non poteva certo “affezionarsi” alla palla di piombo che gli servì per dimostrare la rotazione della terra. Del pari, uno scienziato di oggi probabilmente non desidererà portarsi a casa il bosone che sta studiando, mentre uno zoologo si legherà alla scimmia su cui lavora, e magari vorrebbe tenerla con sé. Ebbene, ritengo che il poeta, nei riguardi delle poesie che va elaborando, sia un po’ come uno zoologo. Ogni poesia è una cavia, ma una cavia animale e animata:

 

Cave cavie!

 

O forse sono cavie,

queste poesie che scrivo,

per qualche esperimento concepite,

che tuttavia non so.

 

Non so perché si formano,

eppure mi affeziono e le chiamo per nome,

topolini vivissimi, allarmati

da che?

 

 

  • Che cosa sono per te il pubblico, il mercato culturale e l’industria editoriale (nel presente quesito vengono unite due distinte domande del questionario, nda)?

 

Valerio Magrelli: Sono tre cose che in poesia esistono a malapena, per l’irrisorio numero di vendite e per la caratteristica di questo linguaggio, che si segnala per la sua complessità. La poesia sta agli antipodi della canzone d’autore: là tutto è dopato dalla musica, qua, spoglia di ogni droga sonora, rimane la parola “in purezza”, come si dice di certi vini. Io amo le letture pubbliche, specie nelle scuole dove i docenti (veri eroi intellettuali del nostro tempo) hanno già arato il terreno della pagina.

Mercato culturale e industria editoriale possono fare cose buone, anche se spesso ne fanno di pessime.

 

In questa parte dell’intervista, approfondiamo il rapporto dei poeti con la letteratura e il territorio.

 

  • Quali sono tre titoli fondamentali, tra narrativa, poesia, saggistica o altro, per il tuo percorso da poeta?

 

Valerio Magrelli: Narrativa: tra mille titoli possibile indico l’opera di un cileno vissuto in Messico e finito a Barcellona – Roberto Bolaño, Detective selvaggi. C’è una corrente vitale irresistibile che mi ha catturato all’istante, e poi è morto appena nel 2003!

Poesia: le poesie di Osip Mandel’štam, vittima dei Gulag staliniani. Leggerle fu un incontro traumatico, un urto, uno choc.

Saggistica: il padre di questo genere letterario, il suo inventore nella Francia della seconda metà del Cinquecento, tra guerre religiose di orrenda violenza. È un cardine della cultura umana, i Saggi di Montaigne.

 

 

  • Che relazione ha la tua scrittura con Roma?

 

Valerio Magrelli: Un nome solo: Giuseppe Gioachino Belli. A metà dell’Ottocento, questo poeta è all’altezza di Foscolo, Leopardi, Porta, il che vuol dire Baudelaire, Keats, Hölderlin. Esagero? Non credo, visto che un grandissimo traduttore dell’autore tedesco fu Giorgio Vigolo, poeta in proprio e sommo commentatore di Belli. Belli è osceno e sacro, turpe e creaturale, ironico e tragico. Non per niente ha provato a tradurlo il romanziere della crudeltà assoluta, l’Anthony Burgess di Arancia meccanica.

 

Pezzo tratto da:  https://www.iltalentodiroma.com/2024/10/09/valerio-magrelli-apre-il-questionario-poetico/

 


09 ottobre 2024

UN ALTRO CONVEGNO SU DANILO DOLCI


 

GAETANO ALTOPIANO AL SALONE DEL LIBRO DI FRANCOFORTE

 


Domenica 20 ottobre ore 12.30 al Salone del libro di Francoforte. “Sulla libertà del pollo di beccare” Faust Édition.


F. JAMESON secondo S. ZIZEK

 




Fredric Jameson, l’ultimo genio del pensiero

Slavoj Žižek

7 ottobre 2024,  TESTO ripreso dalla rivista INTERNAZIONALE

 

Fredric Jameson non è stato solo un gigante intellettuale, l’ultimo vero genio del pensiero contemporaneo. È stato il massimo esempio di marxista occidentale, uno che ha saputo attraversare con coraggio gli opposti che definiscono il nostro spazio ideologico: un eurocentrista la cui opera ha avuto grande risonanza in Giappone e Cina, un comunista che amava Hollywood, soprattutto Hitchcock, e i romanzi gialli, in modo particolare Chandler, un amante di Wagner, Bruckner e del pop. Nei suoi lavori e nella sua vita non c’è assolutamente alcuna traccia della cancel culture, e del suo moralismo severo e falso. Si potrebbe dire che è stato l’ultimo esponente del rinascimento.

Jameson ha combattuto sempre la mancanza di quella che lui definiva cognitive mapping (mappa cognitiva), cioè l’incapacità di situare la nostra esperienza in una totalità dotata di significato. Gli istinti che lo hanno guidato in questa sua battaglia sono sempre stati giusti: per esempio in una simpatica stilettata contro il rifiuto della logica binaria di tendenza nei cultural studies, Jameson invocava “una celebrazione generalizzata dell’opposizione binaria”. Per lui la negazione del binarismo di genere va di pari passi con la negazione del binarismo di classe. Ancora profondamente scosso dalla sua morte, posso solo presentare alcune osservazioni per offrire un assaggio delle sue posizioni.

Oggi i marxisti generalmente rifiutano ogni forma di immediatezza in quanto feticcio che oscura la mediazione sociale. Tuttavia, nel suo capolavoro sul filosofo Theodor W. Adorno, Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica (Manifestolibri 1994), Jameson evidenzia come l’analisi dialettica contenga al suo interno un suo punto di sospensione: nel mezzo di una complessa analisi sulle mediazioni, tutto a un tratto Adorno opera un volgare atto di riduzionismo, interrompendo la finezza dialettica con un’argomentazione semplice, quasi a dire “alla fine, è tutta una questione di lotta di classe”. È così che la lotta di classe funziona all’interno di una totalità sociale: non è la sua “base profonda”, il principio fondamentale che ne media tutti i momenti, ma qualcosa di molto più superficiale, il punto debole dell’analisi infinita e complessa, l’atto di saltare direttamente alla conclusione quando, in un moto di disperazione, alziamo le mani e diciamo: “Ma in fin dei conti, è tutta una questione di lotta di classe!”.

Qui dobbiamo tenere bene a mente che questo difetto nell’analisi è parte della realtà stessa: è il modo in cui la società ritrova una totalità attraverso il suo antagonismo costitutivo. In altre parole, la lotta di classe è una sbrigativa pseudo-totalizzazione a cui ricorrere quando una totalità vera e propria è impossibile, è un tentativo disperato di usare l’antagonismo stesso come principio totalizzante.

Tra molte persone di sinistra oggi è di moda anche liquidare le teorie del complotto come soluzioni facili e false. Tuttavia, anni fa Jameson osservò in modo intelligente che nel capitalismo globale succedono cose che non possono sempre essere spiegate ricorrendo a una qualche anonima logica del capitale: per esempio, oggi sappiamo che il tracollo finanziario del 2008 è stato il risultato di un “complotto” ben ordito da alcuni circoli della finanza. Il vero compito dell’analisi sociale è spiegare in che modo il capitalismo contemporaneo ha aperto lo spazio a questi interventi “cospirativi”.

Modernità alternative

Un’altra intuizione di Jameson che entra in contrasto con la tendenza postcoloniale oggi dominante è il suo rifiuto del concetto di “modernità alternative”, cioè la tesi secondo cui la nostra modernità occidentale liberalcapitalista sarebbe una delle possibili traiettorie verso la modernizzazione, e ne sarebbero dunque possibili altre in grado di evitare i punti morti e l’antagonismo. Ma una volta capito che “modernità” non è altro che un nome in codice per “capitalismo”, è facile vedere che questo genere di relativizzazione storicistica della nostra modernità si fonda sul sogno ideologico di un capitalismo che sia in grado di evitare i suoi antagonismi costitutivi.

“Come possono dunque gli ideologi della ‘modernità’ nel senso corrente fare in modo che si distingua il loro prodotto – la rivoluzione dell’informazione e la modernità globalizzata del libero mercato – dalla vecchia rivoluzione, detestabile, senza trovarsi coinvolti nei seri interrogativi politici, economici e di sistema che il concetto di postmodernità rende inevitabili? La risposta è semplice: si parla di modernità ‘alternative’. Ormai tutti conoscono la formula: questo vuol dire che ci può essere una modernità per tutti che è diversa dal modello standard o egemonico anglosassone. Qualunque elemento che non vi piaccia di quest’ultimo, inclusa la posizione subalterna in cui vi lascia, può essere cancellato dal concetto rassicurante e ‘culturale’ che permette di modellare la vostra modernità in un altro modo, così che ci può essere un tipo latinoamericano, indiano o africano, e così via. […] Ma questo significa non vedere l’altro significato fondamentale della modernità, che in sé è quello del capitalismo diffuso in tutto il mondo” (Una modernità singolare, Sansoni 2003).

La rilevanza di questa critica si estende ben oltre il caso della modernità, riguarda i limiti fondamentali della storicizzazione nominalista. Il ricorso alla moltitudine (“Non esiste una modernità con un’essenza data, esistono modernità multiple, ciascuna non riconducibile alle altre”) è falso, non perché non riconosce un’essenza data, specifica, della modernità, ma perché questa moltiplicazione opera come una negazione dell’antagonismo che è intrinseco al concetto stesso di modernità: la falsità della moltiplicazione risiede nel fatto che svuota il concetto universale di modernità del suo antagonismo, che è parte costitutiva del sistema capitalista, riducendo questo aspetto a caratteristica di una soltanto delle sue sottospecie storiche.

Fascismo e comunismo

Non va dimenticato che la prima metà del ventesimo secolo è già stata segnata da due grandi progetti che si conciliano perfettamente con questa idea di modernità alternativa: fascismo e comunismo. L’idea di fondo del fascismo non era forse quella di una modernità alternativa a quella anglosassone liberalcapitalista, che salvasse il nucleo della modernità capitalista sbarazzandosi della sua distorsione “contingente” ebraico-individualista-affarista? E non è stata forse anche la rapida industrializzazione dell’Unione Sovietica tra la fine degli anni venti e gli anni trenta un tentativo di realizzare una modernizzazione diversa da quella capitalista occidentale?

Una cosa da cui Jameson si è tenuto alla larga come un vampiro dall’aglio è stata la forzatura di voler leggere un’unità profonda tra le diverse forme di protesta. Negli anni ottanta offrì un’acuta descrizione dell’impasse nel dialogo tra la new left occidentale e i dissidenti dell’Europa orientale, dell’assenza di un qualsiasi linguaggio comune tra loro: “In breve, l’oriente vuole parlare in termini di potere e oppressione; l’occidente in termini di cultura e mercificazione. Non ci sono denominatori comuni in questa lotta iniziale per le regole del discorso, e alla fine non resta altro che la commedia inevitabile in cui ogni parte biascica repliche irrilevanti nel suo linguaggio preferito” (The seeds of time, Columbia University Press 1994).

In modo simile, lo scrittore di gialli svedese Henning Mankell è uno straordinario artista di quella che io chiamo “visione di parallasse”. Le prospettive della ricca Ystad in Svezia, dove sono ambientati molti suoi romanzi, e quella di Maputo in Mozambico, dove lo scrittore ha vissuto a lungo, sono irrimediabilmente fuori sincrono, al punto che non c’è alcun linguaggio neutrale che permetta di tradurre l’una nell’altra, e ancor meno di postulare una come la verità dell’altra.

Tutto ciò che si può fare è restare fedeli a questa scissione in quanto tale, prenderne atto. Ogni attenzione esclusiva per i temi del mondo ricco, come l’alienazione capitalista e la mercificazione, la crisi ecologica o i nuovi razzismi e intolleranze, non può che apparire cinica di fronte alla povertà brutale di certi paesi, alla fame e alla violenza; d’altra parte i tentativi di liquidare come banali i problemi del mondo ricco in confronto alle vere catastrofi dei paesi poveri non sono meno falsi: concentrarsi sui cosiddetti problemi reali è l’estrema forma di fuga dalla realtà, un modo di sottrarsi alla necessità di affrontare gli antagonismi della propria società. Il divario che separa le due prospettive è la verità della situazione.

Marx e Chandler

Come tutti i bravi marxisti, nella sua analisi dell’arte Jameson è stato un rigoroso formalista. Una volta a proposito dello scrittore Ernest Hemingway disse che il suo stile scarno (frasi brevi, quasi totale assenza di avverbi, eccetera) non serviva a rappresentare un certo tipo di soggettività (narrativa), l’individuo duro cinico e solitario; al contrario, Hemingway aveva inventato un certo tipo di contenuti narrativi (storie di personaggi inaspriti dalla vita) proprio per poter scrivere un certo tipo di frasi (che era il suo obiettivo primario). Allo stesso modo, nel suo fondamentale saggio Raymond Chandler. L’indagine della totalità (Cronopio 2018), Jameson ha descritto la tipica procedura di Chandler: la formula del racconto poliziesco (l’indagine di un detective che lo porta in contatto con ogni genere di persone) era una cornice che permetteva di inserire nella trama intuizioni sociali e psicologiche, ritratti plastici e osservazioni sulle tragedie della vita. Il paradosso propriamente dialettico da non farsi sfuggire qui è che sarebbe sbagliato dire: “Ma allora perché lo scrittore non ha abbandonato questa forma per darci arte pura?”. Questa critica è vittima di una sorta di illusione prospettica: ignora infatti che, se abbandonassimo la cornice formulare, perderemmo proprio quel contenuto “artistico” che la cornice apparentemente distorce.

Un’altra peculiare impresa di Jameson è stata la sua lettura di Marx attraverso il pensiero dello psichiatra Jacques Lacan: per lui gli antagonismi sociali erano il reale di una società. Ricordo ancora lo shock di quando a una conferenza su Lenin che organizzai a Essen nel 2001, Jameson ci colpì tutti tirando in ballo Lacan per interpretare il sogno di Lev Trockij. Nella notte del 25 giugno 1935 Trockij in esilio sognò Lenin, morto dieci anni prima, che lo interrogava con ansia a proposito della sua malattia: “Rispondevo che avevo già chiesto a diversi medici, e cominciavo a dirgli del mio viaggio a Berlino; ma guardando Lenin mi ricordavo all’improvviso che era morto. Immediatamente cercai di allontanare questo pensiero, in modo da finire la conversazione. Quando ebbi finito di dirgli del mio viaggio di cura a Berlino, nel 1926, volevo aggiungere ‘Fu dopo la vostra morte’; ma mi trattenni e dissi, ‘Dopo che vi siete ammalato…’.

Nella sua interpretazione di questo sogno Lacan si concentra sull’evidente legame con il sogno di Sigmund Freud in cui gli appare il padre, che non sa di essere morto. Cosa vuol dire che Lenin non sa di essere morto? Secondo Jameson ci sono due modi radicalmente opposti di leggere il sogno di Trockij. Secondo una prima lettura, la figura terribilmente ridicola del Lenin non morto “non sa che l’immenso esperimento sociale a cui lui, da solo, ha dato vita (e che noi chiamiamo comunismo sovietico) si è concluso. È ancora pieno di energia, anche se morto, e nemmeno tutti i rimproveri dei vivi – di essere stato l’origine del terrore staliniano, una personalità aggressiva piena di odio, un amante del potere e del totalitarismo, e (quel che è peggio) perfino un promotore della riscoperta del mercato con la nuova politica economica adottata nell’Unione Sovietica degli anni venti –, nemmeno tutti questi insulti riescono a dargli la morte, neppure una seconda morte. Come è possibile che pensi di essere ancora vivo? E qual è la nostra posizione qui – che sarebbe poi, senza dubbio, quella di Trockij nel sogno – qual è la nostra non conoscenza, qual è la morte da cui Lenin ci difende?” (Lenin and revisionism, Duke University Press 2007) . Ma c’è un altro senso in cui Lenin è ancora vivo: è vivo in quanto incarna quella che il filosofo Alain Badiou chiama “l’Idea eterna” dell’emancipazione universale, l’immortale aspirazione alla giustizia che né insulti né catastrofi possono uccidere.

Come me, Jameson era un convinto comunista, anche se al tempo stesso era d’accordo con Lacan, secondo il quale giustizia e uguaglianza si fondano sull’invidia: l’invidia per chi possiede quel che noi non possediamo e se lo gode. Sulla scia di Lacan, Jameson rifiutava completamente l’idea ottimista secondo cui nel comunismo l’invidia sarà relegata al passato, come un residuo della competizione capitalistica, per cedere il posto alla collaborazione solidale e al piacere per il piacere altrui; smontando questo mito, Jameson sottolineava che nel comunismo, proprio perché sarà una società più giusta, invidia e risentimento esploderanno. La soluzione di Jameson qui è radicale fino a rasentare la follia: l’unico modo in cui il comunismo potrà sopravvivere sarà attraverso una qualche forma di servizio sociale psicanalitico universale che permetta agli individui di eludere la trappola autodistruttiva dell’invidia.

Un’altra indicazione sul modo in cui Jameson intendeva il comunismo si trova nella sua lettura della storia di Franz Kafka su Josefine, il topo-cantante. La considerava un’utopia sociopolitica, la visione di Kafka di una società comunista radicalmente ugualitaria. Solo che Kafka, per il quale gli esseri umani erano irrimediabilmente segnati dalla colpa del super-io, riusciva a immaginare una società ugualitaria solo tra gli animali. Qui bisogna resistere alla tentazione di proiettare una qualche tragedia sulla scomparsa finale di Josefine e la sua morte: il testo chiarisce che, dopo la sua morte, Josefine “si perderà felicemente nell’incommensurabile moltitudine degli eroi del nostro popolo” (il corsivo è mio).

Nel suo ultimo saggio lungo, Risentimento sociale. Sulle alternative al capitalismo globale (Meltemi 2023), Jameson ha scandalizzato anche molti dei suoi seguaci proponendo l’esercito come modello di una società postcapitalista futura: non un esercito rivoluzionario, ma l’esercito nella sua funzione inerte e burocratica in tempi di pace. Jameson parte da una battuta risalente all’epoca del generale e presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower, quando si scherzava sul fatto che se un cittadino voleva l’assistenza sanitaria pubblica non doveva far altro che entrare nell’esercito. La tesi di Jameson è che l’esercito potrebbe svolgere questo ruolo proprio perché è organizzato in modo non-democratico e non trasparente (gli alti generali non sono eletti, e così via…).

Per la teologia vale lo stesso che per il comunismo. Pur essendo stato uno strenuo materialista, Jameson ha spesso usato nozioni di teologia per gettare nuova luce su alcuni concetti marxisti. Per esempio, sosteneva che la predestinazione è il concetto teologico più interessante per il marxismo: la predestinazione indica la causalità retroattiva che caratterizza un processo storico propriamente dialettico. Un altro nesso insospettabile con la teologia forniva a Jameson lo spunto per affermare che in un processo rivoluzionario la violenza gioca un ruolo simile a quello della ricchezza nella legittimazione protestante del capitalismo: anche se non ha un suo valore intrinseco (e perciò non bisogna farne un feticcio ed esaltarla in sé e per sé, come succede nel fascismo), la violenza è un sintomo dell’autenticità dell’iniziativa rivoluzionaria. Quando il nemico resiste e ci sfida in un conflitto violento, questo vuol dire che abbiamo efficacemente toccato un nervo scoperto.

Forse la più acuta interpretazione teologica in Jameson può trovarsi nel suo saggio semisconosciuto Saint Augustine as a social democrat (Sant’Agostino socialdemocratico). Nel saggio sosteneva che la più celebre acquisizione di Agostino, la sua invenzione della profondità psicologica della personalità del credente, con tutta la complessità dei suoi dubbi e delle sue angosce interiori, è strettamente correlata, anzi è l’altra faccia della legittimazione del cristianesimo in quanto religione di stato, pienamente compatibile con la cancellazione delle ultime tracce di politica radicale dall’edificio della cristianità. Lo stesso può dirsi, tra gli altri, per i transfughi anticomunisti della guerra fredda: solitamente alla loro svolta contro il comunismo si accompagnava anche la svolta verso una certa forma di freudismo, la scoperta della complessità psicologica della vita individuale.

Un’altra categoria introdotta da Jameson è quella del “mediatore che svanisce”, un mediatore tra il vecchio e il nuovo. Il “mediatore che svanisce” indica un elemento caratteristico nel passaggio dal vecchio ordine a uno nuovo: quando il vecchio ordine si disintegra, si manifestano cose inaspettate, non solo gli orrori di cui parlava Antonio Gramsci, ma anche luminosi progetti e pratiche utopiche. Una volta che il nuovo ordine si è assestato, una nuova narrazione emerge e, all’interno di questo nuovo spazio ideologico, il mediatore scompare alla vista. Basta guardare al passaggio dal socialismo al capitalismo in Europa dell’est. Quando negli anni ottanta le persone protestavano contro i regimi comunisti, la maggior parte di loro non pensava al capitalismo. Voleva sicurezza sociale, solidarietà, una forma approssimativa di giustizia; quelle persone aspiravano a vivere libere dal controllo statale, di riunirsi e parlare come preferivano; volevano una vita di semplice onestà e genuinità, liberata da un indottrinamento ideologico primitivo e dalla cinica ipocrisia dominante. In sostanza, i vaghi ideali che guidavano quei dissidenti erano, in larga misura, presi dalla stessa ideologia socialista. E, come abbiamo imparato da Freud, ciò che è represso prima o poi ritorna in forma distorta. In Europa il socialismo represso nell’immaginario dissidente è tornato sotto forma di populismo di destra.

Molte delle formulazioni di Jameson sono diventate dei memi, come l’idea che il postmodernismo sia la logica culturale del tardo capitalismo. Un altro di questi memi è una sua vecchia battuta (a volte attribuita a me), oggi più che mai attuale: ci riesce più facile immaginare una catastrofe totale sulla Terra capace di mettere fine a ogni forma vita che un reale cambiamento nei rapporti capitalisti; come se, anche dopo un cataclisma globale, il capitalismo in qualche modo potesse continuare a vivere. E se applicassimo questa stessa logica anche a Jameson? È più facile immaginare la fine del capitalismo che la morte di Jameson.

 

 


L' INCONTRO MANCATO TRA A. GRAMSCI e G. LUKACS

 


Pubblicata nel 1923, in un periodo storico di forti turbolenze sociali e animato da grandi speranze di cambiamento dell’assetto politico mondiale, Storia e coscienza di classe di György Lukács è l’opera di filosofia marxista che ha maggiormente segnato la cultura del Novecento, suscitando vivaci dibattiti e influenzando numerose generazioni di intellettuali con il suo innovativo apparato concettuale, a partire dalla categoria della reificazione (Verdinglichung).

I saggi qui raccolti per celebrarne il centenario intendono focalizzare i temi e i motivi più qualificanti dell’eredità di questo capolavoro filosofico del ventesimo secolo: la rivalutazione del pensiero di Hegel, il ritorno all’originaria prospettiva di Marx per rinnovare il marxismo al di là dei fraintendimenti della Seconda Internazionale, l’innalzamento della nozione di totalità a ratio essendi della dialettica marxista. Osservato da diverse prospettive, il volume di Lukács si rivela così un laboratorio filosofico, politico, culturale di primaria grandezza, il cui disegno programmatico di valorizzare la dialettica come chiave di comprensione della realtà storica oltrepassa l’epoca della sua genesi e raggiunge il presente dell’attuale società capitalistica.

Saggi di: Attilio Bruzzone, Gianluca Garelli, Roberto Morani, Gaetano Rametta, Salvatore Tinè

#coscienzadiclasse #dialettica #Hegel #individuo #Lukács #Marx #marxismo #oggettualità #reificazione #rivoluzionepolitica #rivoluzionesociale #RobertoMorani #storia #storiaecoscienzadiclasse

https://www.orthotes.com/prodotto/lukacs-in-questione/

 


08 ottobre 2024

CONTRO L'ABUSO DEL LINGUAGGIO

 


Ursula K. Le Guin


"Socrate diceva: "L'abuso del linguaggio induce il male nell'anima". Non si riferiva alla grammatica. Abusare del linguaggio significa usarlo come fanno i politici e gli inserzionisti, a scopo di lucro, senza assumersi la responsabilità del significato delle parole. Il linguaggio usato come strumento per acquisire potere o fare soldi è malefico: esso mente. Il linguaggio usato come fine a sé stesso, per cantare una poesia o raccontare una storia, tende alla verità. Uno scrittore è una persona che si preoccupa del significato delle parole, di ciò che esse comunicano e di come lo fanno. Gli scrittori sanno che le parole sono il loro percorso verso la verità e la libertà, e quindi le usano con cura, riflessione, timore e gioia. Usare bene le parole rafforza la loro anima. Narratori e poeti trascorrono la vita a imparare quell'abilità e l'arte di usare bene le parole. E le loro parole rendono l'animo dei loro lettori più forte, luminoso e profondo."

[Ursula K. Le Guin]

* Ursula Kroeber Le Guin, meglio conosciuta come Ursula K. Le Guin, è stata una scrittrice e glottoteta statunitense, autrice di fantascienza e di fantasy.

 


LA STORIA VISTA DA W. BENJAMIN

 




È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica.
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, 1942

07 ottobre 2024

LA POESIA SECONDO W. SZYMBORSKA

 


LA LOTTA DI CLASSE VISTA DA DOMENICO LO SURDO

 


lunedì 7 ottobre 2024

SINOSSI DELLA LOTTA DELLE CLASSI - da Domenico Losurdo

 

a cura di Ferdinando Dubla

LA LOTTA DI CLASSE DI LOSURDO. UNA STORIA POLITICA E FILOSOFICA

Domenico Losurdo, La lotta di classe. Una storia politica e filosofica, Laterza 2015

Un libro fondamentale del filosofo italiano e intellettuale comunista scomparso nel giugno 2018. Da studioso, passa ora ad essere studiato come uno degli autori più significativi in ambito marxista



Domenico Losurdo (1924-2018)

Scheda del libro

La crisi economica infuria e si discute sempre più del ritorno della lotta di classe. Ma siamo davvero sicuri che fosse scomparsa? La lotta di classe non è soltanto il conflitto tra classi proprietarie e lavoro dipendente. È anche "sfruttamento di una nazione da parte di un'altra", come denunciava Marx, e l'oppressione "del sesso femminile da parte di quello maschile", come scriveva Engels. Siamo dunque in presenza di tre diverse forme di lotta di classe, chiamate a modificare radicalmente la divisione del lavoro e i rapporti di sfruttamento e di oppressione che sussistono a livello internazionale, in un singolo paese e nell'ambito della famiglia. A fronte dei colossali sconvolgimenti che hanno contrassegnato il passaggio dal XX al XXI secolo, la teoria della lotta di classe si rivela oggi più vitale che mai a condizione che non diventi facile populismo che tutto riduce allo scontro tra umili e potenti, ignorando proprio la molteplicità delle forme del conflitto sociale. Domenico Losurdo procede a una originale rilettura della teoria di Marx ed Engels e della storia mondiale che prende le mosse dal Manifesto del partito comunista.

IL PLURALE DELLA LOTTA È NEI PROCESSI RIVOLUZIONARI

da un fondamentale libro di Domenico Losurdo

“Non c’è dubbio: per Dahrendorf, Habermas e Ferguson (ma anche, come vedremo, per autorevoli studiosi di orientamento marxista o post-marxista), la lotta di classe rinvia esclusivamente al conflitto tra proletariato e borghesia, e anzi a un conflitto tra proletariato e borghesia che è diventato acuto e di cui entrambe la parti hanno consapevolezza; ma è questa la visione di Marx ed Engels? Com’è noto, dopo aver evocato «lo spettro del comunismo» che si «aggira per l’Europa» e prima ancora di analizzare la «lotta di classe (Klassenkampf) già in atto» tra proletariato e borghesia, il Manifesto del partito comunista si apre enunciando una tesi destinata a diventare celeberrima e a svolgere un ruolo di primissimo piano nei movimenti rivoluzionari dell’Otto e Novecento: «La storia di ogni società sinora esistita è la storia delle lotte di classe» (Klassenkämpfe) (MEW, 4; 462 e 475). Il passaggio dal singolare al plurale fa chiaramente intendere che quella tra proletariato e borghesia è solo una delle lotte di classe e queste, attraversando in profondità la storia universale, non sono affatto una caratteristica esclusiva della società borghese e industriale. Se ancora ci fossero dubbi, qualche pagina dopo il Manifesto ribadisce: «La storia di tutta la società si è svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche hanno assunto forme diverse» (MEW, 4; 480). Dunque, a essere declinate al plurale non sono solo le «lotte di classe», ma anche le «forme» che esse assumono nelle diverse epoche storiche, nelle diverse società, nelle diverse situazioni concrete che via via si verificano. Ma quali sono le molteplici lotte di classe ovvero le molteplici configurazioni della lotta di classe?“



Domenico Losurdodi Sannicandro di Bari (1941-2018) uno dei più importanti storici della filosofia marxista italiani

 

Domenico Losurdo, La lotta di classe: una storia politica e filosofica, Laterza, 2015



cit. da formato digitale, tratta di nodi teorico-politici molto importanti per lo stesso marxismo, primi tra tutti lo “Stato-nazione” e la sua degenerazione negli assetti imperialistici in quanto coloniali, il nazionalismo identitario, e la transizione al socialismo nel passaggio sempre necessario dalla “rottura” al “processo” rivoluzionario.

- La lotta delle classi intrecciata alle lotte di liberazione nazionale.

È proprio questo intreccio, non il nazionalismo identitario, che rende i processi di liberazione dei popoli oppressi oggettivamente, oltre che soggettivamente, rivoluzionari contro l’imperialismo colonialista, cioè la forma acuta di dominio ed egemonia del sistema economico del capitalismo. In Marx ed Engels

“l’interesse per i «moti delle nazionalità oppresse» non è meno vivo e costante di quello riservato all’agitazione del proletariato e delle classi subalterne.”, ma nell’ambito internazionalista, tant’è che

“ovvia è la necessità di una «economia politica della classe operaia», ma ciò non basta; occorre chiarire «alle classi operaie il dovere d’iniziarsi ai misteri della politica internazionale, di vegliare sugli atti dei loro rispettivi governi, di opporsi a essi, se è necessario, con tutti i mezzi in loro potere»; occorre che esse si rendano conto che la lotta per una «politica estera» di appoggio alle nazioni oppresse è parte integrante della «lotta generale per l’emancipazione della classe operaia» (MEW, 16; 11 e 13)+

 + la sigla MEW, seguita dall’indicazione del volume e della pagina, rinvia ai Werke, Marx K., Engels F. (1955-89), Werke, Dietz, Berlin (in traduzione it. ora per La Città del sole “Opere complete”, 2011-2016)

 

  La transizione al socialismo è preminentemente una questione politica.

Per leggerla gramscianamente è il passaggio dal dominio all’egemonia, dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”. Per Losurdo parte dalla distinzione, netta in Mao Tse Tung, tra “espropriazione politica” ed “espropriazione economica”.

L’ identità fra la lotta nazionale e la lotta di classe, secondo Mao, tende a verificarsi nelle rivoluzioni anticoloniali. La lotta di classe entra nelle guerre di resistenza e di liberazione nazionale e le insurrezioni e rivoluzioni anticoloniali.

[d’altra parte è stato così anche per la Resistenza italiana, cfr. l’analisi di Pietro Secchia in Ferdinando Dubla, “La Resistenza accusa ancora- Pietro Secchia e l’antifascismo comunista come liberazione popolare e lotta di classe (1943/45)”, Nuova Editrice Oriente, 2002]

 

“quando Marx parla della storia come storia della lotta di classe intende leggere in questa chiave non solo gli scioperi e i conflitti sociali di ogni giorno ma anche e soprattutto le grandi crisi, le grandi svolte storiche che si compiono sotto gli occhi di tutti: la lotta di classe è una macrostoria essoterica, non la microstoria esoterica cui spesso viene ridotta.” Certo, rimane il problema del segno di classe degli eventi storici: c’è il processo rivoluzionario (che è sia soggettivo che oggettivo) e c’è la reazione, la conservazione o il ritorno ad assetti regressivi dei sistemi sociali fondati sulla dialettica materialistica, asse portante dell’analisi marxista. Se la dialettica diventa genericamente masse/potere la lettura sociale diventa populista-qualunquista, anarcoide non anarchica, nel senso anche individuato da Gramsci: contro le frasi di «‘ribellismo’, di ‘sovversivismo’, di ‘antistatalismo’ primitivo ed elementare», espressione in ultima analisi di sostanziale «apoliticismo», cfr. Quaderni del carcere, ed. critica a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, p. 2108-109 e 326-27.

 

prox.: LA “CATARSI” DI GRAMSCIuna nuova coscienza di classe per la transizione al socialismo dentro un processo rivoluzionario

 



Ferdinando Dubla- storico della filosofia, è condirettore della Scuola di Filosofia di Manduria "Giulio Cesare Vanini" e ricercatore di Subaltern studies Italia

 

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