31 agosto 2012

LUNGA VITA A FRANCESCO ROSI


Segnalo la bellissima intervista di Roberto Andò a Francesco Rosi pubblicata oggi sul venerdì di Repubblica. Rosi, oltre ad essere stato uno dei più grandi registi del cinema italiano, si è sempre distinto per la coerenza del suo impegno civile. 

Francesco Rosi una civile proposta per farla finita con i misteri d'Italia

Il regista di Salvatore Giuliano e del Caso Mattei (appena restaurato), compie 90 anni e riceve oggi a Venezia il leone alla carriera. Una vita nel cinema, ma raccontando la realtà. "perché un film è un atto poetico che rivela le verità nascoste" 

di ROBERTO ANDÒ

ROMA. Lo studio è in penombra. Trovo Francesco Rosi  -  la nostra è una di quelle amicizie imprescindibili e rare, capaci di rendere la vita migliore  -  impegnato in una lunga serie di telefonate in cui parla solo e soltanto del suo imminente viaggio a Venezia, dove lo attende una premiazione che rischia di divenire anche una celebrazione.

Che effetto fa ricevere un Leone d'oro alla carriera?
"Per un giovane regista un premio può rappresentare una sorta di salvacondotto utile per mantenere la propria libertà, per proseguire con coerenza e coraggio il proprio cammino d'autore. Alla mia età, con quello che ho alle spalle, rischia di essere solo un riconoscimento tardivo o, nel migliore dei casi, superfluo.

Ma in verità, questo Leone d'oro mi fa molto piacere, è un segno d'attenzione per nulla scontato, in un momento come quello in cui viviamo. Sono molto grato ad Alberto Barbera che ha voluto inaugurare così la sua direzione della Mostra del Cinema".

Se dovessi indicare la qualità che conta di più nel mestiere di regista, quale sceglieresti?


"La coerenza. Corrispondere con i propri film agli appelli, alle ribellioni della coscienza. Avere la forza di scegliere e perseguire un proprio percorso ideale, direi morale. Anche se è una coerenza che si paga, che può avere un costo molto alto".

A cosa ti riferisci?
"La classe dirigente italiana non ha mai tollerato di vedersi rappresentata in termini critici. E, di conseguenza, i grandi scrittori, gli uomini di pensiero, le professionalità che meglio hanno espresso l'anima civile di questo Paese sono rimaste isolate. A volte in modo innocuo, altre volte in modo violento. È una legge non scritta, che ha a che fare con vicende storiche ataviche, che nel tempo si sono sempre più incancrenite".

Vuoi fare dei nomi?
"Tra i miei contemporanei? Sciascia, Pasolini, Falcone, Borsellino. Alcuni di loro sono persino stati accusati di cedimenti, ma, alla lunga, la limpidezza del loro percorso è risultata chiara a tutti. Come vedi la coerenza paga, ma ha un prezzo. Vale per i posteri".

Non c'è un eccesso di pessimismo in questa tua visione?
"Tutt'altro. Voglio semplicemente dire che il seme che queste persone hanno piantato, prima o poi, è germogliato. Il che, tutto sommato, rappresenta una speranza, sia pure stemperata dalla lucida considerazione del passato. L'importante è il futuro, credere nei giovani. Negli ultimi tempi, molto spesso, mi sono sorpreso a usare una sorta di refrain: "andiamo avanti". Anche se mi è dispiaciuto ritrovarlo identico, con altro significato, sulla bocca di Berlusconi. Mi ha tolto il piacere di dirlo".

Che cosa ti ha attratto sin dai primi film nelle storie di camorra e di mafia?
"La possibilità di rivelare la vera trama del potere italiano. Il meccanismo di sopraffazione e intimidazione eletto a sistema. L'oscura concatenazione politica che se ne avvale. Girando in tempi diversi film come La sfida, Salvatore Giuliano, Le mani sulle città, Lucky Luciano, Il caso Mattei, Cadaveri eccellenti, ho solo aggiornato una stessa idea, una stessa ossessione.

E non mi pare che le ragioni per fare quei film siano venute meno. In ogni caso, oggi quei film sono lì, a disposizione delle nuove generazioni. È questa la cosa più importante del cinema, il dialogo a distanza tra un fatto, l'interpretazione critica che un film ne ha dato e gli eventuali mutamenti epocali che ne hanno rimosso le cause, in parole povere il confronto tra una visione poetica e il suo nocciolo civile".

Il caso Mattei compie cinquant'anni, segnati dal contrassegno di capolavoro per il tuo film, ma anche dalle vicende giudiziarie irrisolte che riguardano la sparizione del giornalista Mauro De Mauro e i mandanti dell'attentato a Mattei. In questo caso, cosa suggerisce il dialogo a distanza tra il tuo film e questa specie d'impasse giudiziaria.
"Un film è un atto poetico oltre che civile, senza questo dato non potrebbe durare nel tempo, tantomeno potrebbe avere un valore politico. Era inevitabile che, dedicandomi alla ricostruzione dei passaggi cruciali della storia italiana, mi trovassi coinvolto in vicende oscure come quelle che riguardano Mattei.

Penso che il mio film dia le sole risposte che si potevano dare nel momento in cui è stato girato, risposte scaturite dall'immaginazione, che illuminano la solitudine di un personaggio inviso al potere come Mattei. Un film non cerca i riscontri che attengono alla giustizia, cerca delle verità poetiche, e lo fa con i mezzi specifici che sono a disposizione di un regista.

Mi si continua a chiedere di commentare il corso della giustizia a proposito di De Mauro, delle nuove ipotesi che collegherebbero la sua scomparsa ad altri fatti più recenti. Sono ipotesi suggestive, ma, per quanto ne so, al momento, sono solo ipotesi.

Non amo chi alza polveroni o chi parla con approssimazione di fatti di questa importanza. Posso solo testimoniare la mia vicinanza ai magistrati che con ostinazione si occupano di questi casi, e la mia indignazione perché non si è ancora riusciti ad assicurare alla giustizia i responsabili di questi crimini.

E invitare a vedere il mio film per riflettere sulla continuità di un certo meccanismo di potere. Che gioca proprio sul fatto che in Italia il corso della giustizia è accidentato, e che gli assassini e chi li copre possono contare sul fatto che le tracce si dissolveranno, che i reperti scompariranno. È dai tempi di Salvatore Giuliano che ripeto queste cose e avverto gli italiani che la mistificazione e la manipolazione sono sempre in agguato".

Che intendi per mistificazione: la procedura attraverso cui un crimine diventa illeggibile, non più ricostruibile?
"Esattamente. I vari passaggi che conducono, attraverso l'accreditamento ufficiale di una falsa versione, a una manipolazione dei dati reali. È quello che accadde con il cadavere di Giuliano, e mi sembra che la tecnica sia rimasta quella anche oggi.

Adesso è una verità quasi ovvia, allora, quando feci quel film, non lo era per niente. Sciascia scrisse che il senso della verità dello Stato italiano si era infranto per sempre nel cortile di Castelvetrano, davanti al cadavere del bandito. Ecco, il senso della verità dello Stato, questo è un concetto da salvaguardare".

Come sai, la generazione di registi cui appartengo ti considera un punto di riferimento essenziale. Nel documentario- ritratto che qualche anno fa ti ho dedicato c'è una dichiarazione di Martin Scorsese che non solo conferma questa filiazione, ma aggiunge una considerazione inedita. Sottolineando la forza innovativa dei tuoi film, Scorsese ti accosta, oltre che ai padri del neorealismo, a Robert Bresson, e parla della tua capacità di smontare i fatti sociali, politici, ricomponendoli in un ordine che ha un riflesso morale. Da dove viene questo sguardo?
"Credo di avertelo già detto, la ragione segreta per cui ho scelto di fare il regista ha origine dal mio desiderio di riscattare la voglia che aveva mio padre di fare cinema.

Era un fotografo dilettante, secondo me molto bravo nel dosaggio dell'inquadratura. Purtroppo non potè esaudire quell'aspirazione e dovette intraprendere un lavoro del tutto diverso.

Forse qualcosa devo a lui, ma certe ossessioni, noi uomini del Sud, nati e cresciuti in un universo morale ambiguo, le contraiamo nei primi anni di vita e in seguito le affiniamo a contatto con un certo caos, come reazione al caos. E poi, ovvio, conta molto la passione intellettuale e politica di quegli anni, le amicizie con Raffaele La Capria e gli altri amici del Liceo Umberto I di Napoli.

Infine, il mio incontro con Luchino Visconti: al mio apprendistato con lui devo la padronanza del mestiere e la ricerca dal vero. Per fare invenzione a partire dal vero ci vuole un certo tipo di rigore, quasi religioso, quindi capisco bene cosa vuole dire Scorsese nel suo raffronto con Bresson, siamo evidentemente due registi molto diversi, ma in comune c'è l'interrogazione ossessiva del reale, un rispetto della realtà da cui scaturisce l'anima del film".

Il prossimo novembre compi novant'anni, hai attraversato da testimone la temperie del secolo scorso e ora assisti a questa crisi indecifrabile, dove mercati e politica si contendono vanamente lo scettro del potere.
"Vanamente, sì. C'è un senso d'impotenza generale. Ma i novant'anni me li prendo senza lamentarmi, ho la fortuna di avere una figlia amorevole e intelligente come Carolina, e degli amici cari che non hanno smesso di manifestarmi il loro affetto.

E, se guardo indietro, al corso della mia carriera, mi sembra di essere riuscito a fare i film che volevo fare. Certo, mi trovo in una stagione in cui ritornano i fantasmi del passato, i dolori terribili che la vita infligge e che, in certi momenti, diventano insopportabili. Mi manca Giancarla, mi manca molto mia moglie. Ma non ho paura della morte. Semplicemente, la morte non mi piace. (Si accende un mezzo toscano, lo aspira socchiudendo gli occhi). Non mi piace. (Mi guarda sornione, sorride). Andiamo avanti".

Fonte: Il  venerdì de La Repubblica 31 agosto 2012

 
 

CHI PESCA NEL TORBIDO





Mi sembra particolarmente significativo il breve articolo del Sostituto Procuratore della Repubblica di Palermo, Antonio Ingroia, pubblicato stamattina sulla prima pagina de L’Unità (http://www.unita.it/italia/chi-pesca-nel-torbido), che ripropongo di seguito:






ANTONIO INGROIA, Chi pesca nel torbido

Il Procuratore Capo di Palermo ha già chiaramente smentito la corrispondenza fra il contenuto del presunto scoop di Panorama sulle «telefonate del Quirinale» e il tenore delle telefonate intercettate dal nostro ufficio. E quindi non c’è nulla da aggiungere a questo. C’è invece molto da aggiungere su altro. E cioè il salto di qualità di un certo modo di fare informazione nel nostro Paese. Un salto di qualità all’indietro. Personalmente, non ho mai visto un articolo come questo, che su una vicenda così delicata, con potenziali effetti destabilizzanti per le istituzioni, non contiene né fatti né notizie, ma solo una discutibile e fantasiosa ricostruzione.

Una ricostruzione affidata alla lettura comparata di alcuni commenti di testate giornalistiche diverse usciti in questi giorni. Sulla base, per di più, dell’illazione, sottintesa quanto infondata, che le tre testate giornalistiche fossero venute a conoscenza del contenuto delle telefonate intercettate in questione.

In un comunicato il Quirinale parla, giustamente, di una «torbida manovra destabilizzante». Sono pienamente d’accordo. Ho l’impressione che ancora una volta ci sia chi vuole pescare nel torbido per mettere un’istituzione contro l’altra.

A chi giova tutto questo? Non certo alle istituzioni democratiche o ai cittadini che ne risultano, ancora una volta, intenzionalmente disorientati. Giova invece a chi cerca di sollevare cortine fumogene perché la verità sui veri misteri italiani non emerga mai. Bisogna uscire da questo cupo tunnel. E va recuperata un’etica della responsabilità per il ruolo che ciascuno riveste, dentro e fuori le istituzioni. Anche nell’informazione, che sembra, in questo caso come in casi simili, avere smarrito un minimo senso etico. Occorre evitare il disastro e il caos. Per fare un buon servizio alla giustizia e all’accertamento della verità. Per difendere la nostra democrazia.


30 agosto 2012

VIZI E VIRTU' DI INTERNET


L’ultimo libro di Raffaele Simone, Presi nella rete, Garzanti 2012,  esamina lucidamente, e con fitti riferimenti al passato, la mente ai tempi del web, cioè i cambiamenti che la mediasfera produce nella mente, una rivoluzione inavvertita che è ancora più vasta e penetrante di quella che Platone paventava nel Fedro a proposito dell'avvento della scrittura.
 Raffaele  Simone si sofferma particolarmante ad evidenziare alcune ricadute negative prodotte da internet. Ma se è vero che la rete ha creato consumatori compulsivi  di tecnologia, interlocutori distratti, comunicatori inquieti e invadenti, è pure vero che c’è ancora spazio per un uso critico di essa.
Di seguito ripropongo la recensione  di Federico Faloppi pubblicata da   L'Indice dei libri del mese.


 
Come linguista, Raffaele Simone non ha certo bisogno di presentazioni: almeno due generazioni di studenti si sono formate sui suoi testi. Ma Raffaele Simone non ha certo bisogno di presentazioni neppure come osservatore attento delle trasformazioni culturali e sociali della contemporaneità, attraverso alcuni saggi a metà tra il pamphlet militante e la sintesi erudita.
A cominciare dal j’accuse celeberrimo L’università dei tre tradimenti (Laterza, 1993), per giungere ai ritratti disincantati di Il paese del pressapoco (Garzanti, 2005) e all’impietosa analisi di Il mostro mite. Perché l’Occidente non va a sinistra (Garzanti, 2008), passando per il pioneristico La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo (Laterza, 2000). 
Proprio a La terza fase si riallaccia l’ultimo suo lavoro, che non solo evoca, ma rielabora e amplia i contenuti di quel fortunato predecessore. Certo, scorrendo in parallelo l’indice dei due volumi non si può non avere una sensazione di déjà-lu. Ma si tratterebbe di un’impressione superficiale. Perché quella prima analisi sul cambiamento del nostro modo di pensare (e di acquisire il sapere) indotto dalla trasformazione tecnica e dalla rivoluzione digitale si è nel tempo arricchita e articolata: sia per un’ovvia esigenza di aggiornamento, sia soprattutto per l’urgenza di segnalare, ancor più criticamente, la profonda incidenza culturale e politica di quella trasformazione.
Presi nella rete ruota infatti intorno all’assunto che non siamo di fronte soltanto a un nuovo paradigma della conoscenza, che privilegia il “guardare” al “leggere”, ma anche, ormai, a una virale pervasività della “mediasfera” (per usare il neologismo con cui Simone indica l’insieme dei media onnipresenti nelle nostre vite), capace di attivare “un eccezionale processo di ‘esattamento’” per il quale “funzioni e bisogni prima inesistenti vengono alla luce e diventano perfino urgenti appena si rende disponibile un mezzo tecnico capace di soddisfarli”.
Basta viaggiare su un treno qualsiasi – ironizza Simone – per rendersene conto: tutti armeggiano con tutto (iPhone e smartphone, telefoni cellulari, tablet, ecc.) in preda a una sorta di bulimia da gadget e alla ricerca, costante, del “vaniloquio”, compiendo gesti e azioni nientaffatto urgenti o necessari, ma anzi appagando bisogni che – senza la presenza di quei media – non si avvertirebbero neppure.
Siamo diventati consumatori compulsivi di tecnologia, interlocutori distratti, comunicatori inquieti e invadenti: l’“ubiquità” della mediasfera ha già avuto effetti vistosi sul modo di relazionarci agli altri all’interno di spazi pubblici, e di gestire le nostre relazioni interpersonali. Tuttavia, le conseguenze più appariscenti e disturbanti non sono necessariamente le più gravose.
Le vere questioni, presentate nel libro con una riuscita progressione argomentativa e con grande chiarezza, paiono ben altre: e ben più allarmanti e consistenti. Non che l’ansia da mediasfera, e l’esposizione ipertrofica dell’io non siano, da soli, fenomeni di poco conto. Ma sono i nostri sistemi e processi culturali – avverte Simone – a essere stati messi profondamente in discussione.
Prendiamo il nostro rapporto con il “testo”. Anzi, consideriamo il testo stesso: la sua autorialità, la sua produzione, il suo consumo; le manipolazioni che può subire, il rischio di una sua “dissolvenza”. O prendiamo l’idea di scrittura e di lettura, molto diversa da quella di – poniamo – una ventina d’anni fa. Osserviamo le implicazioni che riguardano le forme del sapere (la loro acquisizione, trasmissione, conservazione), la “disarticolazione” di sistemi di produzione della conoscenza e di divulgazione fino a ieri indiscussi ma oggi ritenuti obsoleti, la “de-realizzazione” o dissoluzione del reale (a vantaggio di rappresentazioni virtuali e “fasulle”).
Ecco, sottolinea Simone, in ballo – con l’ubiquità della mediasfera, e la nostra (spesso) acritica assuefazione a essa – c’è molto di più del nostro compulsivo desiderio di messaggiare, navigare, twittare. C’è una svolta antropologico-evolutiva. C’è il mutamento radicale di una società, e dei suoi fondamenti. C’è la messa in discussione non solo di modelli culturali, ma anche di istituti educativi come la scuola, in crisi di legittimazione come “agenzia” di formazione e diffusione del sapere. C’è il rifiuto dell’apprendimento graduale e progressivo, ritenuto lento – e faticoso – rispetto all’iper-velocità ludica garantita dalla rete. C’è il progressivo allontanamento dalla realtà.
Ci sono la perdita di concentrazione e delle facoltà mnemoniche, la frammentazione e la superficialità del ragionamento (come già denunciato anche da Nicholas Carr in Come la rete sta cambiando il nostro cervello, Raffaello Cortina, 2010). C’è lo schiacciamento dell’esperienza sull’immediato presente, vissuto in chiave di utilità e di enterteinment. C’è il culto del sapere “strumentalistico” (per citare Popper), del progresso inevitabile, e quindi non discutibile. C’è la mancanza di un discorso alternativo a quello, egemonico, dei guru della mediasfera.
Certo, rispetto a ogni trasformazione epocale la tentazione di guardare con nostalgia al passato, idealizzandolo, è forte. E neppure Simone vi sfugge, a tratti. Ma chi cercherà nel libro una visione passatista rimarrà deluso. Come rimarrà deluso chi vi cercherà un invito al neo-luddismo o alla “sconnessione” (secondo una provocazione del filosofo francese Alain Filkielkraut), o una visione apocalittica tutta all’insegna del mala tempora currunt. Perché non è agli apocalittici che l’autore si rivolge. Ma, al contrario, agli “integrati”: sia a chi sta vivendo un’ubriacatura tecnologica e un’idolatria ideologica verso i gadget e i loro (interessati) profeti, sia agli utenti meno ossequiosi, ma pur sempre intrappolati nella “rete” e nel suo indiscriminato consumo, da cui ha messo in guardia, recentemente, anche il giornalista Evgeny Morozov con The Net Delusion: The Dark Side of Internet Freedom (trad. it. L’ingenuità della rete, Codice, 2011).
Simone non si limita all’analisi e all’avvertimento, tuttavia. Offre, con curiosità e senza moralismo, spunti che vanno oltre il cahier de doléances. E che meriterebbero, da soli, importanti approfondimenti. Si chiede, ad esempio, come la mediasfera abbia cambiato, e stia cambiando, la “narrazione”, e l’arte del narrare (nel rapporto tra realtà e finzione, tra autore – singolo o collettivo – e testo, tra creazione e diffusione). O se e quanto la mediasfera abbia contribuito a rimodellare spazi di democrazia, non solo virtuale. Se e quanto la rete sia davvero quel “propagatore naturale di democrazia” (Morozov) che siamo abituati a credere, se e quanto l’informazione vi circoli liberamente. Certo, come sappiamo il web e l’hardware che ne garantisce l’accesso hanno permesso, tra l’altro, nuove forme di partecipazione diretta al dibattito politico: hanno contribuito all’esplosione della “primavera araba”, al successo di mobilitazioni di massa come quella degli “indignati”, non solo spagnoli. 
Ma è anche vero che in molti paesi il digital divide crea ancora esclusione, che il controllo sulla mediasfera è ferreo o gestito da “tecno-élite”, che forme di intrattenimento online sono studiate apposta per sviare l’attenzione dei giovani dall’impegno (è ancora Morozov a ricordarcelo). E che in Egitto i partiti che hanno vinto le elezioni del 25 maggio erano anche quelli meno attivi in rete, ma più presenti – fisicamente – sul territorio. Il “movimentismo reticolare” (l’espressione è ancora di Simone) mostra fragilità evidenti quando dalla protesta occorre passare alla proposta.
Il tema è delicato. E lo sappiamo bene anche in Italia, che con il “fenomeno” di Grillo e del Movimento 5 stelle abbiamo sì assistito a un uso vincente della rete nella promozione di nuova (iniziativa) politica, ma anche a un limite dialettico, dal momento che nella “digital democracy” (e si veda Matthew Hindon, The mith of digital democracy, 2007) i messaggi si radicalizzano, sono spesso eterodiretti, rifuggono la mediazione. Che è poi uno dei costituenti della democrazia: anche se antiquato, lento, e poco divertente.