30 aprile 2015

1 maggio 1947 - 1 maggio 2015

Portella della Ginestra

Lo stanno uccidendo il lavoro. Lo hanno trasformato in privilegio. Come fosse concessione e non diritto, come fosse ricompensa e non conquista. Non si festeggia, si commemora. Non può esserci gioia senza lavoro per tutti.

Antonella Carulli

L' AURORA DI E. DICKINSON



 
Accadde con semplicità -
Mi chiese se ero sua -
Non gli risposi con le Labbra
Ma con gli Occhi -
Allora lui mi sollevò in alto
Al di sopra del rumore del mondo
Come fossero Cocchi e Ruote
Che rapidi portavano lontano.
Sotto di noi si allontanò la Terra
Come i Campi sotto i piedi
Di chi affacci da una Mongolfiera
Su una strada di Etere.
Alle nostre spalle - nessun Abisso,
E nuovi Continenti -
Fu l'eternità prima che
Dell'eternità fosse il momento.
Per noi non c'erano Stagioni -
Non c'era Notte, non c'era Mezzogiorno -
Soltanto l'Alba che si fermò in quel punto
E lo ancorò all'Aurora.


E.Dickinson c.1865

C. PAVESE, Paesi tuoi



Pasquale Briscolini

Paesi tuoi”. Ovvero: cosa c’entra l’amore in un romanzo? 

Quando lesse il mio vecchio libro, - a quei tempi era un pericolo vederci, ma in compenso eravamo più giovani – Masino ci pensò sopra un pezzo, evitò di parlarne in presenza di compagni, e ogni tanto se la rideva da solo.

E’ l’incipit dell’articolo di Pavese su L’Unità di luglio di quell’anno, il 1946, e il quarto del gruppo “Dialoghi col compagno” in cui si riconoscono alcune “costanti” che sono sottese ad ogni articolo.
La prima costante è riconoscibile nel clima particolarmente comunicativo: Pavese ha proprio voglia di “comunicare” con gli interlocutori che di volta in volta propone e di essere empaticamente vicino a loro. Si scherza e si dicono cose serie, ma sempre con leggerezza: si è tra “compagni”, certo in senso politico (non a caso gli articoli sono pubblicati su L’Unità) ma non solo, anche in senso profondamente umano.

La seconda “costante” è “l’intento formativo” - non certo pedantemente didattico ma di tono leggero e accattivante - volto a sostenere temi che a lui stanno particolarmente a cuore, nella sua visione del mondo.

Una terza è la latente “polemica” con il Partito sulla libertà dello scrittore. Che secondo alcuni dovrebbe finalizzare la sua produzione alle esigenze “politiche”; ma questa non è certo l’idea di Pavese, che rivendica invece la libertà completa dello scrittore che andrà – semmai – “verso l’uomo”.

Proviamo ad ascoltare e far emergere, in questo quarto articolo del gruppo, i fili e i messaggi che navigano sott’acqua, in immersione. Così procede Pavese dopo l’incipit facendo parlare Masino:
  • Però , - disse, - accidenti. Anche tu ci hai messo l’amore. Uno e una che si piacciono.
  • Non va?
  • Io dico una cosa. Quando sai che qualcuno, anche un amico, fa l’amore davvero, ti diverti? Fa rabbia, fa invidia, fa malinconia: non si può neanche pensarci. Invece, in un romanzo non trovi che coppie e te le guardi, le conosci, le segui. Parola che mi vergogno di essermi divertito.
  • E che cos’altro vuoi trovare in un romanzo?
  • Prendi il tuo. Non c’è solo l’amore. C’è un padrone e dei salariati. C’è un caso di lotta di classe. Si capisce leggendo come la campagna sia arretrata e il lavoro sfruttato. Anche il delitto di Talino è conseguenza di queste condizioni storiche. L’amore invece cosa c’entra?
Insomma, “ci sono cose serie” - dice Masino, - “e l’amore cosa c’entra?”. Si sente quasi in colpa per essersi divertito leggendo, quando le cose di cui “ci si dovrebbe occupare” sono altre: il lavoro e il padrone, la lotta di classe. E Pavese risponde (per adesso prendendolo un po’ in giro, come poi lui stesso dirà):
  • C’entra sì. Se non ci fosse lo sfruttamento, Gisella non s’innamorerebbe del meccanico. Perciò tutti e due, essendo vittime, s’innamorano e fanno fronte ai padroni. Difatti è innamorato di Gisella anche Ernesto del Prato. Perché? Ma perché è un meccanico, un salariato anche lui. Masino capisce quando lo piglio in giro. Sa che lo faccio per spiegarmi e non s’offende.
Nella risposta scherzosa, Pavese finge di seguire Masino sulla strada del “dover essere”, e quindi di spiegare tutto in termini di “sociale” e di “lotta di classe”. Poi chiarisce lo scherzo e Masino insiste:
  • Ma allora quella storia d’amore che cosa vuol dire, che cosa ci fa?
Pavese risponde, questa volta seriamente, e gli spiega che ogni lettore deve poter trovare nella storia un proprio aggancio: gli conferma quello che noi sappiamo, che in realtà è il lettore che “scrive”, leggendo, il proprio libro perché lo riporta (in qualche modo, lo interpreta) nel proprio vissuto:

Dissi a Masino che tutti i modi di leggere una storia sono buoni, hanno il loro bello. Le storie si scrivono appunto per questo: ogni ceto di lettori deve trovarci un richiamo, un interesse. Si comincia dalle cose di tutti i giorni, mangiare, dormire, far l’amore; se non c’è questo, tutto il resto sono chiacchiere; poi queste cose si congegnano in modo che si capisca perché succedono – e chi lo sa perché succedono le cose? Ci sono motivi infiniti, e dev’essere chiaro che sono successe ma ciascuno vederci il motivo, l’esperienza sua - l’ignorante e quello in gamba - altrimenti tanto valeva lasciar stare.
La spiegazione non soddisfa Masino perché ha fatto un largo giro di parole ma ha evitato il problema; e lui insiste:
  • “Sì, ma perché sempre l’amore? - ripeté Masino – Che cosa importa a me che leggo che un altro si sia trovata la ragazza?
Questa volta Pavese affronta il punto dell’amore in un romanzo, e non come l’accenno di prima in cui sembrava essere un’esigenza verso il lettore, ma piuttosto come un’esigenza profonda dello scrittore, che ha proprio bisogno di “innamorarsi” – almeno nella fantasia – per aver più voglia di parlare e di raccontare:

  • E’ una grossa questione, Masino. Devi sapere che una storia è sempre fatta di simpatia verso la gente. Chi la racconta – che di solito per sua disgrazia o per le arie e strafottenze che si dà è un tipo in rotta con tutti – non riesce a scriverla se, almeno in quelle ore che lavora, qualcosa non gli tocca il cuore e lo scalda e gli fa voler bene alla gente, ai personaggi, alla giornata che passa. Ma c’è un sistema per scaldarsi, per cambiar la giornata, per godere le cose e la gente come sono, meglio che interessarsi a una ragazza, sia pure in fantasia? Per la stessa ragione che, quando vuoi bene a una ragazza, hai voglia di scriverle lettere, e tutto ti piace e fa godere, anche il cane e la pioggia – per la stessa ragione chi inventa una storia d’amore, se non è proprio uno zuccone o un pervertito, si mette in grado di voler del bene a tutti quanti i personaggi, e li capisce più a fondo e si diverte a raccontarli. Ci sono sì dei libri senza storie d’amore, e bellissimi anche, ma sono libri d’altri tempi.
Masino-Pavese capisce che quest’ultimo è un altro punto importante, e infatti lo rinvia di un attimo perché adesso vuole insistere su un aspetto. Di fatto è Pavese che vuol parlare di se’, della sua difficoltà a stabilire rapporti profondi con gli altri. In sostanza, vuol parlare della sua solitudine, e si fa chiedere da Masino:

  • Poi ne parliamo, - fa Masino al volo, - ma ti dai delle arie anche tu. Possibile che chi scrive sia in rotta con tutti? Come fa?
  • Lo sapessi, Masino. Ma giorno per giorno mi convinco di questo. Bada bene: tutti lo cercano uno che scrive, tutti gli vogliono parlare, tutti vogliono poter dire domani “so come sei fatto” e servirsene, ma nessuno gli fa credito di un giorno di simpatia totale, da uomo a uomo. Si direbbe che han sempre paura di trattare con chi è stato o sarà, non con chi è.
Si sente che Pavese parla di se’, e in modo sottilmente accorato; Masino tenta di fare un’ipotesi del perché accade questo:

  • Forse sentono l’intellettuale borghese che parla invece di agire.
  • Può darsi. Ma conosco intellettuali borghesi a iosa e nessuno è trattato come chi senza trucchi fa il mestiere di scrivere.
Masino dà un’altra spiegazione e questa volta sembra colpire nel segno:

  • Sai com’è? – disse Masino. – Se tu vai d’accordo,  anche gli altri ti vanno d’accordo. Si vede che chi scrive è il primo a non dar confidenza a nessuno. Come vuoi dunque che la diano a lui?
  • Allora tacqui. Per un poco tacemmo.
Pavese tace, come se volesse far ricadere su di se’ la colpa della propria solitudine, per essere lui il primo a non avere interesse per gli altri. E’ un tema che riprenderà nel Diario il 17 agosto del ’50, a pochi giorni alla fine tragica: “Ti stupisci che gli altri ti passino accanto e non sappiano, quando tu passi accanto a tanti e non sai, non t’interessa, qual è la loro pena, il loro cancro segreto?”

Ma come a interrompere bruscamente quell’attimo di straniamento, Masino riprende:

  • Com’è che dicevi? – disse a un tratto Masino. – ci sono romanzi senza storie d’amore?
  • Non proprio romanzi, ma ce n’è. Tutte le volte che chi scrive è abbastanza robusto da interessarsi agli altri e trovar bello il mondo e aver voglia di dirlo, senza bisogno di eccitarsi come un cane a quell’odore, viene fuori una storia stupenda. Ma ben pochi ci riescono. Ci riuscivano di più in passato, in società organizzate in modo che la questione sessuale non era ancora diventata ideologia come adesso. Avevan altro da pensare, quella gente.
Dobbiamo ricordare che siamo nel 1946, e Pavese è nel pieno della sua attrazione verso il mito, verso il periodo lontanissimo della notte dei tempi prima del logos. E’ stato affascinato dalla lettura de “La fisiologia del mito” di Untersteiner, che ha peraltro avuto parole di grande apprezzamento per i “Dialoghi con Leucò”. Ed è quindi convinto - e qui lo sostiene - di quanto oggi Massimo Recalcati dice con riferimento a Freud: “Tra le due guerre mondiali Freud dà alle stampe , con il titolo Il disagio della civiltà, una riflessione lucida sulle ragioni profonde del malessere a lui contemporaneo ma più in generale sul binomio civiltà e disagio. Freud pone con forza la sua tesi: l’iscrizione dell’uomo nel campo della civiltà esige una rinuncia pulsionale. Questa rinuncia trova nella legge dell’interdizione del godimento sostenuta dal Super-io sociale dell’epoca il suo agente fondamentale. Per essere civili, afferma Freud, è necessario assumere la rinuncia ai propri soddisfacimenti pulsionali come condizione per l’appartenenza a una comunità umana.”

Masino riparte provando, in una qualche “visione mitologica” a unire con una speranza quel passato remoto con un futuro per lui auspicabile:

  • E non credi che una nuova società possa rifare quelle antiche condizioni?
  • E’ possibile, certo.
Allora Masino aveva ragione: l’amore non serve nei romanzi, basta fare una società nuova! E lui non si fa sfuggire l’occasione per ribadirlo e vincere definitivamente la partita:

  • Ma allora avevo ragione a dire che le storie d’amore non sono essenziali e voi scrittori esagerate e ci sono delle cose più serie?
  • Tu hai sempre ragione, Masino. Tutto dipende, però.


In conclusione: ha ragione o no Masino? Certo: basterebbe fare una società nuova; ma questo è possibile o indietro non si può tornare? E poi, cosa vuol dire andare avanti o tornare indietro? Dovremmo intanto metterci d’accordo su questo, ma è lì il problema. Che, di fatto, non riusciamo a metterci d’accordo praticamente su niente. A volte ci proviamo e ci crediamo; qualche volta siamo convinti di esserci riusciti. Per scoprire, un attimo dopo, che “tutto dipende, però”.

29 aprile 2015

PIETA' PER LA NAZIONE (PITY THE NATION)

Lawrence Ferlinghetti



Circolano in rete, attribuiti ad autori diversi, questi bellissimi versi  di Lawrence Ferlinghetti, esponente di primo piano della beat generation. Li riprendiamo stamattina perchè li sentiamo particolarmente adatti al momento storico che stiamo vivendo.


Pietà per la nazione (alla maniera di Khalil Gibran)


Pietà per la nazione i cui uomini sono pecore
e i cui pastori sono guide cattive
Pietà per la nazione i cui leader sono bugiardi
i cui saggi sono messi a tacere
Pietà per la nazione che non alza la propria voce
tranne che per lodare i conquistatori
e acclamare i prepotenti come eroi
e che aspira a comandare il mondo
con la forza e la tortura
Pietà per la nazione che non conosce
nessun’altra lingua se non la propria
nessun’ altra cultura se non la propria
Pietà per la nazione il cui fiato e’ danaro
e che dorme il sonno di quelli
con la pancia troppo piena
Pietà per la nazione – oh, pietà per gli uomini
che permettono che i propri diritti vengano erosi
e le proprie libertà spazzate via
Patria mia, lacrime di te
Dolce terra di libertà!
Lawrence Ferlinghetti 


Pity the nation whose people are sheep,
and whose shepherds mislead them.
Pity the nation whose leaders are liars, whose sages are silenced,
and whose bigots haunt the airwaves.
Pity the nation that raises not its voice,
except to praise conquerors and acclaim the bully as hero
and aims to rule the world with force and by torture.
Pity the nation that knows no other language but its own
and no other culture but its own.
Pity the nation whose breath is money
and sleeps the sleep of the too well fed.
Pity the nation — oh, pity the people who allow their rights to erode
and their freedoms to be washed away.
My country, tears of thee, sweet land of liberty.


P.S. :  Chi desidera saperne di più sulla storia  di questo testo è invitato a leggere quanto ha scritto Enrico Robbiati su  http://in-ethosphera.blogspot.it/2014/03/pieta-per-la-nazione.html.Giustamente il Robbiati osserva che "La rete è una gran bella cosa, perché è una miniera di cognizioni degna di Efeso e Alessandria; ma i suoi amanuensi, abituati alla rapidità elettronica, non sempre si prendono cura di accertare la fondatezza delle informazioni. Non solo le esatte, ma anche le inesatte si propagano perciò a macchia d’olio: se scrivo in un blog che l’autore del Gattopardo è Pippo Baudo, state pur certi che qualcuno ci crederà."


LA TERRA NON E' NOSTRA.


Immagine del terremoto in Nepal


Una famosa scrittrice indiana parla in modo originale del terremoto che ha devastato il Nepal.

La vendetta della Terra 

Anita Nair




CHISSÀ cos’è stato a far tremare la Terra domenica mattina. Da un punto del fondale marino, per motivi sconosciuti e cause impreviste, si è sprigionata dell’energia. Un’energia la cui potenza è stata tale da percorrere una faglia lungo il fondale e ripercuotersi sulla terra sino a raggiungere Dacca in Bangladesh, Nuova Delhi in India e Lahore in Pakistan. Ma è stato nel regno himalayano del Nepal che l’energia ha trovato il suo massimo sfogo. Un epicentro che ha trasformato per sempre la vita di quella terra e il suo paesaggio.

In metafisica “bindu”, o “punto”, è il luogo dove ha inizio la creazione. Un accumulo di energia in grado di irradiare a sua volta energia. L’iconografia tantrica paragona il bindu a Shiva: tutta la creazione e la distruzione. Nel Buddismo, bindu è il cadere della goccia. Lo scorso 25 aprile è stato come se iconografia, filosofia e una malvagia forza distruttrice si fossero abbattute a circa 55 chilometri da Katmandu sotto forma di una goccia di magnitudo 7,9.

Stavo finendo i miei preparativi per un lungo sabbatico che mi allontanerà da tutto, e a casa, per iniziare ad abituarmi, avevo staccato tv e Internet. Quella mattina mi trovavo in ufficio per controllare alcune cose online, quando su Facebook e Twitter è apparsa la notizia del terremoto che aveva colpito Delhi. Non le ho dato peso, pensando si trattasse della solita propensione all’iperbole tanto diffusa nel lessico dei social media. Anziché sorridere scriviamo “lol” o “rolf”, e invece di piangere digitiamo “col”. Poi però mi sono accorta che la devastazione aveva colpito anche altri luoghi.

La goccia, cadendo, ha fatto tremare la terra a Katmandu. Come una corsa sulle montagne russe che si conclude in maniera drammatica, una delle destinazioni più ricercate al mondo aveva smesso di esistere. Valanghe di neve sono precipitate lungo i pendii del monte Everest. Edifici crollati. Templi e torri ridotti a macerie. Persone seppellite dalle rovine, o spazzate via. E Katmandu e le zone circostanti, verso le quali tutto il mondo — scalatori, balordi, famiglie in vacanza, tipi solitari in cerca di salvezza, filosofi e depravati, religiosi e scalmanati, monaci e hippy — converge, hanno assistito a quel fatale cadere della goccia.

Il mondo si affretta a prestare soccorsi. E nel mezzo di tutta quella sofferenza, lo squallore di una nazione che nell’Indice globale della fame occupa la 54esima posizione su 81 appare eviden- te. Pensate che il Nepal, oltre a rifornire i bordelli dell’India e di altre regioni del Sud-Est asiatico, è anche una fabbrica di bambini. Secondo alcuni resoconti, infatti, Israele avrebbe inviato delle incubatrici per trasferire in tutta sicurezza i circa 24 neonati che negli ultimi giorni sono nati in Nepal da madri surrogate per conto di coppie di genitori israeliani.

Frugo Internet per saperne di più. Il numero delle vittime aumenta con il passare dei minuti. I racconti sui morti e sui feriti stanno facendo il giro del mondo. La lista delle devastazioni si fa sempre più lunga. Tiro un respiro profondo e mi domando: «Perché?». Saccheggiando egoisticamente la Terra e ostentando una spietata noncuranza verso l’ambiente, noi umani abbiamo contribuito a tutti i disastri naturali. Questa volta, però, la nostra colpa è probabilmente pari a quella della goccia che è caduta. E mi viene da pensare che il popolo nepalese stia pagando il prezzo dell’avidità umana. Il sovrappopolamento ha compromesso la capacità portante della catena “delle colline di mezzo”, soprattutto nella valle di Katmandu. La deforestazione, dovuta all’esigenza di raccolti, combustibile e mangimi, e l’erosione hanno causato alluvioni. La nostra ricerca del Nirvana, da conseguire attraverso la scalata di pareti di roccia, la marijuana o l’illusione, ci ha spinti a cercare destinazioni che non sono pronte a far fronte a un aumento della popolazione. Sfruttiamo un’economia povera affinché possa soddisfare le nostre futili esigenze. Abusiamo della natura perché pensiamo di averne il diritto. Il silenzio delle montagne riecheggia di un vocio incessante e del suono metallico dei registratori di cassa.

Ci impossessiamo di un regno sulle montagne e lo riduciamo in macerie come se vi avessimo conficcato in lungo e in largo dei candelotti di dinamite a un metro e mezzo di distanza l’uno dall’altro. Per certi versi, con la nostra mancanza di rispetto verso la natura e gli ecosistemi, abbiamo fatto cadere la goccia. Si tratta di una colpa collettiva di cui dobbiamo farci carico e alla quale dobbiamo cercare di porre rimedio. Dal momento che quanto è accaduto non è che un monito di quel che ci attende. Faremmo bene a ricordare che la Terra non è nostra, e non possiamo farne ciò che vogliamo. Siamo solo di passaggio. ( Traduzione di Marzia Porta)

Da  La Repubblica, 29 aprile 2015

F. G. LORCA E W. WHITMAN





Ode a Walt Whitman



di Federico García Lorca


Sull’Est River e sul Bronx
I ragazzi cantavano mostrando le proprie cinture
Con la ruota, l’olio, il cuoio e il martello.
Novantamila minatori estraevano l’argento dalle rocce
E i bambini disegnavano scale e prospettive.
Ma nessuno dormiva,
nessuno voleva essere il fiume,
nessuno amava le grandi foglie,
nessuno l’azzurra lingua della spiaggia.
Sull’East River e sul Queensborough
I ragazzi lottavano con l’industria
E gli ebrei vendevano al fauno del fiume
La rosa della circoncisione
E il cielo scaricava sui ponti e sui tetti
Mandrie di bisonti sospinte dal vento.
Ma nessuno si fermava,
nessuno voleva essere nube,
nessuno cercava le felci
né la gialla ruota del tamburo.
Quando la luna spunterà
Le pulegge nuoteranno per far cadere il cielo;
un limite di aghi assedierà la memoria
e i feretri porteranno via quelli che non lavorano.
New York di melma,
New York di fil di ferro e morte.
Che angelo nascondi nella guancia?
Che voce perfetta dirà le verità del grano?
Chi il sogno terribile dei tuoi anemoni macchiati?
Neanche un solo momento, bel vecchio Walt Whitman,
ho smesso di vedere la tua barba piena di farfalle,
né le tue spalle di velluto consumate dalla luna,
né le tue cosce di Apollo verginale,
né la tua voce come una colonna di cenere;
anziano bello come la nebbia
che gemevi al pari di un uccello
con il sesso attraversato da un ago,
nemico del satiro,
nemico della vite
e amante dei corpi sotto la stoffa grezza.
Neanche un solo momento, bellezza virile
Che su monti di carbone, annunci e ferrovie
Sognavi di essere un fiume e dormire come un fiume
Con quel compagno che avrebbe lasciato nel tuo cuore
Un piccolo dolore da ignaro leopardo.
Neanche un solo momento, Adamo di sangue, maschio,
uomo solo sul mare, bel vecchio Walt Whitman,
perché sulle terrazze,
riuniti nei bar,
uscendo a grappoli dalle chiaviche,
tremando tra le gambe degli chauffers
o ruotando sulle piattaforme dell’assenzio,
i pederasti, Walt Whitman, ti sognavo.
Anche lui! Anche! Si slanciano
Sulla tua barba luminosa e pura,
biondi del nord, negri dell’arena,
masse di grida e gesti,
come gatti e come serpenti,
i pederasti, Walt Whitman, i pederasti
foschi di lacrime, carne da frusta,
stivale o morso dei domatori.
Anche lui! Anche! Dita tinti
Puntano la riva del tuo sogno
Quando l’amico mangia la tua mela
Dal lieve sapore di benzina
E il sole canta sugli ombelichi
Dei ragazzi che giocano sotto i ponti.
Ma tu non cercavi gli occhi graffiati,
né la buia palude dove si tuffano i bambini,
né la saliva gelata,
né le curve ferite come ventre di rospo
che portano i pederasti su vetture e terrazze
mentre la luna li flagella agli angoli del terrore.
Tu cercavi un nudo che fosse come un fiume,
toro e sogno che unisse la ruota con l’alga,
padre della tua agonia, camelia della tua morte,
e piangesse nelle fiamme del tuo equatore occulto.
Perché è bene che l’uomo non cerchi il piacere
Nella selva di sangue del prossimo domani.
Il cielo ha spiagge dove evitare la vita
E ci sono corpi che non devono ripetersi nell’aurora.
Agonia, agonia, sogno, fermento e sogno.
Questo è il mondo, amico, agonia, agonia.
I morti si scompongono sotto l’orologio delle città,
la guerra passa piangendo con un milione di ratti grigi,
i ricci danno alle loro amanti
piccoli moribondi illuminati,
e la vita non è nobile, né buona, né sacra.
L’uomo può portare avanti il proprio desiderio, se vuole,
per una vena di coralli e nudo celeste.
Domani gli amori saranno rocce e il Tempo
Una brezza che si addormenta sui rami.
Per questo non alzo la voce, vecchio Walt Whitman,
contro il bambino che scrive
un nome di bambina sul cuscino,
né contro il ragazzo che si veste da sposa
nel buio del guardaroba,
né contro i solitari dei casini
che devono con schifo l’acqua della prostituzione,
né contro gli uomini dal verde sguardo
che amano l’uomo e bruciano le proprie labbra in silenzio.
Ma contro di voi, sì, pederasti delle città,
dalla carne tumefatta e dai pensieri immondi,
madri di fango, arpie, insonni nemici
dell’Amore che distribuisce corone di gioia.
Contro di voi sempre, voi che date ai ragazzi
Gocce di lorda morte con amaro veleno.
Contro di voi sempre
Faeries del Nord America,
Pájaros dell’Avana,
Jotos del Messico,
Sarasas d Cádiz,
Apios di Sevilla,
Cancos di Madrid,
Floras di Alicante,
Adelaidas del Portogallo.
Pederasti di tutto il mondo, assassini di colombe!
Schiavi della donna, cagne dei gabinetti,
aperti sulle piazze con febbre di ventaglio
o imboscati in secchi paesaggi di cicuta.
Senza tregua! La morte
Sgorga dai vostri occhi
E ammassa fiori grigi sulla sponda del fango.
Senza tregua! Sveglia!
I confusi, i puri,
i classici, i segnalati, i supplicanti
vi chiudano in faccia le porte dell’orgia!
E tu, bello Walt Whitman, dormi sulle rive dell’Hudson,
la barba al polo e le mani aperte.
Tenera argilla o neve, la tua lingua sta chiamando
Compagni che veglino la tua gazzella senza corpo.
Dormi, nulla resta.
Una danza di muri agita le praterie
E l’America affoga tra macchine e pianto.
Voglio che il forte vento della notte più profonda
Porti via fiori e lettere dall’arco dove dormi
E un bambino negro annunci ai bianchi dell’oro
L’avvento del regno della spiga.

 (da Poeta a New York, 1929 – 1930)

(traduzione dallo spagnolo di Claudio Rendina)

L' EXPO E L'AGRICOLTURA ITALIANA



L'Expo, il cibo e l'agricoltura del Belpaese

Piero Bevilacqua


C'è un fondamento storico evidente e apprezzabile nella scelta di dedicare l'Expo italiano del 2015 all'alimentazione e all'agricoltura. La varietà, ricchezza, genialità della nostra cucina sono ormai un'ovvietà da senso comune. E tale fondamento si ritrova anche nella scelta di Milano, che oltre a vantare un prestigio di grande città e la modernità dei suoi servizi, custodisce un passato agricolo di rilievo mondiale. Almeno dal XVIII secolo Milano e la bassa Lombardia hanno visto fiorire una delle più prospere agricolture d' Europa e del mondo. Come sappiamo, questa grande opportunità, la ricchezza potenziale, culturale e politica di tale scelta, è andata in buona parte compromessa, se non è del tutto fallita. Certo, in tutte le Esposizioni universali del passato, sia che si tenessero a Londra o a Parigi, lo spettacolo ha avuto sempre una parte preponderante. D'altra parte, si trattava per l'appunto di Esposizioni, cioè delle esibizioni di un capitalismo orgoglioso di mostrarsi a un pubblico internazionale con le sue mirabilia tecnologiche, ma anche nei suoi virtuosismi estetici, incastonati entro mondi urbani in febbrile espansione. L'affanno e il ritardo con cui ci arriva Milano sono lo specchio impietoso di un capitalismo nazionale gravemente usurato nella sua capacità progettuale, corroso all'interno dalla prolungata corruttela che governa da decenni la vita pubblica italiana.

Di sicuro circoleranno nelle giornate milanesi dei prossimi mesi discussioni importanti e serie, contributi alla comprensione della complessa realtà del mondo agricolo e della produzione e distribuzione del cibo. Ma intanto tutti i mesi di preparazione sono già passati sprecando una grande occasione: almeno un ampio dibattito nazionale sulle condizioni della nostra agricoltura, oltre che del nostro cibo, gettando uno sguardo sugli squilibri intollerabili che governano l'architettura mondiale della produzione alimentare. Un Expo che si occupa del tema di “nutrire il pianeta” non dovrebbe dimenticare che il cibo si ottiene dalla terra e che è la sua mancanza alla base della fame di milioni di famiglie. Quella terra sottratta ai contadini dai possessi latifondistici, come accade in America Latina, dagli scavi minerari e dalle dighe, come accade in India e in Cina, dagli inquinamenti petroliferi, dall'agricoltura industriale, dalla desertificazione, e ora dalle guerre in Africa e in Medio Oriente. 
Ma il cuore della discussione avrebbe dovuto essere e dovrebbe ancora essere la ragione storica del primato alimentare italiano. Perché il nostro cibo è cos' straordinariamente ricco, sapido, inventivo, vario, amato e imitato dappertutto? La risposta è all'apparenza facile e nota. Ma perché esso rispecchia la ricchezza unica e irriproducibile della nostra biodiversità agricola, frutto della varietà straordinaria di habitat naturali della Penisola e di una storia senza possibilità di confronti delle numerosissime comunità agricole che vi hanno operato per millenni. E la manipolazione alimentare delle infinite varietà di piante, di ortaggi, legumi, frutta è anch'essa opera storica del mondo contadino, della creatività popolare. In Italia come in Europa – lo ha ricordato più volte Massimo Montanari – anche l'elaborazione “alta” della cucina da parte dei cuochi professionali, faceva base sui piatti inventati dai contadini. E dunque l 'Expo di Milano avrebbe dovuto e dovrebbe ancora porsi il problema fondamentale: quale sorte è riservata oggi ai contadini e ai lavoratori della terra del nostro Paese? Perché dovrebbe essere evidente il paradosso a cui l'Italia certo non sfugge: i contadini, i piccoli agricoltori, i produttori di cibo, quelle figure che alla fine consentono a tutti noi di vivere, che sono ancora oggi la base primaria e imprescindibile delle nostre società, sono i peggio remunerati fra tutti i ceti produttivi esistenti. Spesso sono in condizione di schiavitù sostanziale, come accade ai braccianti agricoli extra-comunitari di Rosarno, di Nardò e di altre campagne italiane. Un lato oscuro e vergognoso del made in Italy, denunciato da pochi coraggiosi, tra cui Carlo Petrini.

Tale discussione è drammaticamente urgente non solo per ragioni di giustizia sociale, ma perché è in pericolo anche il nostro patrimonio, quel cibo su cui si regge ancora tanta parte della nostra ricchezza e della nostra identità nazionale. E qui occorre esser chiari. Se noi non assicuriamo ai nostri produttori agricoli una remunerazione dignitosa, se non conserveremo la terra fertile per produrre cibo, noi perderemo in breve tempo la base di biodiversità agricola su cui si è fondata la nostra eccellenza in cucina. Il made in Italy diventerà una finzione commerciale, un trucco all'Italiana di cui i consumatori internazionali si accorgeranno ben presto. Il processo è già in atto da tempo. Tra il 1982 e il 2010 sono scomparse 1 milione mezzo di aziende dalle nostre campagne. Abbandonano i campi i piccoli produttori e resistono le grandi aziende. E allora occorre chiedersi: e' questo il modello di agricoltura che vogliamo? Vogliamo puntare sulle grandi imprese per “produrre di più” riducendo i costi? Dobbiamo addirittura inserire il mais e la soia Ogm nelle nostre campagne, come pretendono taluni scienziati italiani, che hanno tanto a cuore le sorti della loro ricerca, e si curano così poco della storia e delle ragioni della nostra agricoltura? 
La sparizione delle piccole aziende tradizionali comporta di necessità una crescente uniformità bioagricola dei prodotti. Su questo abbiamo prove allarmanti. Oggi siamo in grado di misurare gli esiti statistici ed epidemiologici di tale processo omologante dell'agricoltura e dell'alimentazione industriale. Nel rapporto Nuove evidenze nell'evoluzione della mortalità per tumore in Italia, pubblicata nel 2005 dall'Istat e dall'Istituto Superiore di Sanità, si legge: «L'uniformità alimentare ha prodotto un danno alle popolazioni del Sud, che in questi 30 anni hanno perso un vantaggio di salute che avevano» sul resto della popolazione italiana. L'alimentazione contadina che a lungo aveva protetto i meridionali dall'incidenza del cancro è stata dunque travolta. Un mutamento di paradigma alimentare che li espone alla virulenza cancerogena propria degli stili di vita delle società industriali.

Appare dunque evidente che le sorti dell'eccellenza italiana, il nostro cibo e i suoi infiniti piatti, al di la delle montagne di retorica che si sono sovrapposte sul tema, sono inscindibilmente legate al modello di agricoltura che vogliamo realizzare e in parte conservare. Essa dipende dal destino dei piccoli e medi produttori biologici, dalla loro disponibilità di terra, dalla remunerazione dei loro prodotti, dal premio dato a chi tutela la salubrità delle campagne, protegge il territorio su cui vive e opera, custodisce e restaura il paesaggio del Belpaese.

Piero Bevilacqua, 28 aprile 2015  da  http://www.eddyburg.it/


28 aprile 2015

O. PAZ, Ieri sera un frassino


Ph. di Giovanni Giardina


Prossimo lontano
Ieri sera un frassino
sul punto di dirmi
qualcosa – tacque.



Octavio Paz, Il fuoco di ogni giorno, Milano, 1992.

STORIE DI RELIQUIE.




A Torino, nonostante da tempo ne sia stata dimostrata l'origine medievale, migliaia di persone si mettono in fila per andare a venerare la Sindone. Manifestazione di un culto delle reliquie, prima di tutto strumento di controllo sociale e costruzione del consenso, ancora molto vivo nonostante la modernità e la Riforma protestante.

Luigi Accattoli

Il sacro viavai della reliquia


Circonciso Gesù, la Vergine Maria custodì con ogni cura il «santo prepuzio» e non lo sperse neanche durante la fuga in Egitto. Lo donò infine alla Maddalena e possiamo immaginare che ciò sia avvenuto dopo l’Ascensione al cielo, non essendoci più sulla terra altro vestigio della carne di Cristo. Da Maria di Magdala a Carlo Magno abbiamo uno stacco di secoli e non sappiamo dove l’abbia preso l’angelo che lo consegna all’imperatore in Aquisgrana, mentre toccherà a Carlo il Calvo portarlo a Roma.
Sarà un lanzichenecco tedesco a entrarne in possesso nella magna confusione del Sacco di Roma (1527) e a portarlo a Calcata, che è un borgo a nord di Roma, verso Viterbo. Lì resta fino al 1983 quando viene rubato dalla casa del parroco don Dario Magnoni, come costui denuncia ai carabinieri. O forse don Dario lo fa sparire in obbedienza a ordini superiori? Perché il sacro ha tempi lenti ma anch’esso — come tutto — scorre e un prepuzio che prima attira rischia poi di allontanare, tant’è che il Sant’Uffizio la venerazione di quella reliquia l’aveva già proibita all’inizio del Novecento. Ma i parroci continuarono a esporla nella chiesa dei Santi Cornelio e Cipriano a ogni capodanno, nella festa che si chiamava in Circumcisione Domini , nella Circoncisione del Signore.

Nel frattempo c’era stata la riforma del calendario liturgico e il Rito Romano al primo dell’anno festeggiava Maria Santissima Madre di Dio. Se cambia la messa vuol dire che cambia il mondo, devono aver pensato a Calcata nel 1970 all’arrivo del nuovo calendario, che misteriosamente preludeva al distacco dall’incredibile prepuzio. Una delle più singolari reliquie della cristianità, tra le quali ci fu il Graal e c’è ancora la Sindone, nonché il Velo della Veronica, anch’esso finito fuori mano come il prepuzio, ed ora si trova — se è lui — a Manoppello in Abruzzo.

Che sia destino delle reliquie convergere a Roma e ripartirne? Pare anche loro destino mantenere margini di mistero, com’è ovvio per chi prende forza dall’aver toccato (appunto) il mistero. Qui infatti abbiamo ridotto a un racconto lineare la vicenda del prepuzio che è fatta di comparse e scomparse, duplicazioni, moltiplicazioni.

Sarebbero almeno 32 le località europee nelle quali il prepuzio di Cristo è stato segnalato nei secoli, racconta ora Tonino Ceravolo in Il prepuzio di Cristo. Storie di reliquie nell’Europa cristiana (Rubbettino). E c’era per un tempo sia a Roma — in San Giovanni in Laterano — sia a Calcata e si argomentava che l’uno fosse il prepuzio e l’altro l’ombelico, ovvero il cordone ombelicale, che oggi si conserva in vista dell’utilizzo delle staminali e un tempo si conservava chissà perché, ma nel caso di Gesù di sicuro con buoni motivi. Del cordone infatti parla la fonte più antica che nomina il prepuzio e si tratta di un apocrifo del Nuovo Testamento, il Vangelo arabo-siriaco (forse dell’VIII secolo): «Lo circoncisero nella grotta. Quella vecchia ebrea prese il pezzetto di pelle — ma altri dicono che si prese il cordone ombelicale — e lo mise in un’ampolla di vecchio olio di nardo».

Oggi il cordone ombelicale lo conserviamo in azoto liquido: c’è dunque una lampante continuità tra l’apocrifo e le regole del nostro sistema sanitario. Ma come si presentava il «sacrosanto prepuzio», o «bellico» che fosse? L’osservarono da vicino a metà del Cinquecento due inviati di Paolo IV. Uno dei due, a nome Pipinelli, premendo con le dita «lo spezzò in due» e le due parti furono così descritte dalla Narrazione critico-storica della Reliquia preziosissima del Santissimo Prepuzio (che è del 1802): «L’una della grossezza d’un picciolissimo Cece, l’altra d’un granellino di seme di Canapa».

Come c’erano tanti prepuzi così c’erano — in giro per l’Europa — tanti sangui di Cristo: e qui non s’intende più quello del cordone, ma quello della Passione, uscito dalle ferite della flagellazione, delle spine, dei chiodi, del costato. Una parte l’aveva raccolta Longino, il soldato del colpo di lancia che stava pronto lì sotto. Un’altra aveva impregnato il guanto di Nicodemo, che aveva schiodato Gesù e aveva nascosto il guanto nel becco d’un uccello. Ma anche Maria e la Maddalena avevano raccolto qualcosa là sul Calvario.
Troppo sangue e pezzi della croce e spine della corona, che presto scatenarono satire e invettive, da Boccaccio a Chaucer, a Calvino, fino a Garibaldi e Joyce. Erasmo da Rotterdam affermava non senza ironia che ai suoi tempi circolavano talmente tanti frammenti della croce da costruire una nave. San Paolino però aveva preso sul serio la proliferazione delle schegge e trovato una soluzione: la reintegrazione della croce: se ne potevano staccare tutti i frammenti che si voleva, ma la croce restava sempre integra. Boccaccio da parte sua, nella novella decima della sesta giornata, mette in scena l’ineffabile Frate Cipolla, che promette a certi contadini di mostrare «la penna dell’agnolo Gabriello», ma poi — avendo subito il furto della penna — si accomoda a mostrare i «carboni che arrostirono San Lorenzo».
    San Lorenzo in Lucina. Reliquia della graticola

A quei tempi satira e devozione si toccavano: una «santa lacrima» versata da Cristo su Lazzaro morto era conservata a Vendôme e a Roma, in San Lorenzo in Lucina, c’era e c’è uno spezzone della graticola di San Lorenzo.

Il culto delle reliquie non cessa con l’arrivo del terzo millennio. Come già i frammenti della croce così sono oggi innumerevoli i filamenti del saio di Padre Pio che girano per il mondo, o le fialette con il sangue di Wojtyla raccolto da don Stanislaw — novello Nicodemo — in occasione di un prelievo al Gemelli.
Né cessa la filiera delle reliquie da contatto, o reliquie di reliquie. Già vedemmo moltiplicati per ogni dove i berretti e le camicie di Garibaldi e oggi vediamo i pellegrini che offrono uno zucchetto di loro fattura a papa Francesco, che se lo mette in testa per un momento e subito lo restituisce all’offerente, avendolo fatto suo «per contatto». E l’entusiasmo dei napoletani per la presenza in città delle «ceneri» di Pino Daniele? E gli autografi non sono una reliquia? E la mania dei selfie? Reliquia per contatto, reliquia per imago . Le reliquie cambiano, ma non cessano perché è proprio della vita lasciare reliquie e forse il mondo è tutto un reliquiario.

Il Corriere della sera – 29 marzo 2015


27 aprile 2015

STUDI SUL POPULISMO ODIERNO



Francesco Marchianò

La metafisica del popolo sovrano
Il suc­cesso che molti par­titi di pro­te­sta hanno otte­nuto nelle ele­zioni euro­pee dello scorso mag­gio ha riac­ceso i riflet­tori sul popu­li­smo, un feno­meno in realtà pre­sente da molti anni nel con­ti­nente euro­peo che appare tut­ta­via sem­pre più con­so­li­darsi nelle demo­cra­zie avanzate.
Il ter­mine popu­li­smo, si sa, non gode di ottima fama, sia per­ché è uti­liz­zato spesso in ter­mini pole­mici e non descrit­tivi, e sia per­ché molto varia è stata la con­cet­tua­liz­za­zione che ne hanno dato gli spe­cia­li­sti i quali hanno con­tri­buito alla for­tuna della dia­gnosi che nel 1967, durante il primo ten­ta­tivo fatto per defi­nire il popu­li­smo, fece Isa­iah Ber­lin.
Secondo il filo­sofo libe­rale, il popu­li­smo sof­friva del «com­plesso di Cene­ren­tola»: esi­steva, cioè, una scarpa, ossia la defi­ni­zione del popu­li­smo, ma non un piede al quale cal­zasse a pen­nello. Per que­sta ragione, il ricer­ca­tore, con­ti­nuava a vagare come un prin­cipe azzurro in cerca della sua amata. Da allora i con­tri­buti si sono mol­ti­pli­cati così come il numero di coloro che hanno enfa­tiz­zato i con­torni troppo incerti del popu­li­smo.

Di diverso orien­ta­mento è Marco Tar­chi, ordi­na­rio di Scienza poli­tica all’università di Firenze, rite­nuto per molti anni il teo­rico per eccel­lenza della «nuova destra» che da anni spiega come sia pos­si­bile per le scienze sociale libe­rarsi di que­sto com­plesso. L’ultimo sforzo com­piuto in que­sta dire­zione è dato dalla pub­bli­ca­zione deL’Italia popu­li­sta. Dal Qua­lun­qui­smo a Beppe Grillo (Il Mulino, 2015, pp. 394, Euro 20), una ver­sione ampliata e pra­ti­ca­mente riscritta di un testo che apparve per la prima volta nel 2003.
Un pro­blema di mentalità
L’autore parte dal pre­sup­po­sto che esi­stano ormai tutti gli ele­menti per giun­gere a una defi­ni­zione gene­rale del popu­li­smo cui per­viene rifiu­tando di sta­bi­lire se esso sia un’ideologia o sem­pli­ce­mente uno stile poli­tico. Per il poli­to­logo, la for­mula migliore da uti­liz­zare è quella di «men­ta­lità carat­te­ri­stica», un’espressione intro­dotta da Theo­dor Gei­ger e meglio ado­pe­rata da Juan Linz che la distin­gue pro­prio dall’ideologia per il suo forte carat­tere emo­tivo più che razio­nale, per essere informe, flut­tuante, gene­rica, per coin­ci­dere più con un atteg­gia­mento intel­let­tuale che non con un con­te­nuto.
Il popu­li­smo, per­ciò, è per Tar­chi una men­ta­lità che vede il popolo come un insieme orga­nico, unito da un’etica innata, non diviso da con­flitti di alcun tipo al suo interno, al quale vi si con­trap­pongo i suoi nemici che sono i poli­tici di pro­fes­sione, i tec­no­crati, le élite eco­no­mi­che e quelle intel­let­tuali che tra­di­scono quo­ti­dia­na­mente la volontà popolare.
Que­sta men­ta­lità si con­cre­tizza con l’utilizzo di un appello diretto al popolo, a opera spesso di lea­der dotati di forte per­so­na­lità, con una visione anti-establishment e con un’insofferenza verso i mec­ca­ni­smi di media­zione e di rap­pre­sen­tanza, giu­di­cati come osta­coli alla vera sovra­nità popo­lare. Il popu­li­smo con­di­vide, inol­tre, molti ele­menti tipici dell’estrema destra dalla quale, tut­ta­via, l’autore sug­ge­ri­sce di distin­guerlo per com­pren­dere meglio entrambi i feno­meni.

La rico­gni­zione sull’Italia comin­cia con un caso para­dig­ma­tico: il «Fronte dell’Uomo qua­lun­que». Il movi­mento di Gian­nini, nell’immediato dopo­guerra rac­co­glie le ansie di quell’Italia non anti­fa­sci­sta, con­fusa dal cam­bio di regime, timo­rosa di per­dere i pic­coli pri­vi­legi che aveva man­te­nuto nel corso del ven­ten­nio e per­ciò cri­tica nei con­fronti dei par­titi poli­tici, del par­la­mento, della Repub­blica. Per alcuni anni, al grido di «abbasso tutti!», l’«Uomo qua­lun­que» riscuo­terà un certo suc­cesso fino a quando, chiusi i rubi­netti della Con­fin­du­stria, che ne aveva finan­ziato l’epopea, scom­pa­rirà dalla scena politica.
Quel che non scom­pare, secondo Tar­chi, è invece il poten­ziale popu­li­sta che resta a covare come brace sotto la cenere. La forte ideo­lo­giz­za­zione dello scon­tro poli­tico, la Guerra fredda, la grande azione dei par­titi di massa, con­ten­gono le esplo­sioni del popu­li­smo che si mani­fe­sta solo con spo­ra­di­che ecce­zioni come nel caso di Achille Lauro a Napoli.
Il gia­co­bi­ni­smo giudiziario
Quando, però, il sistema poli­tico comin­cia a scric­chio­lare, ecco che il popu­li­smo ricom­pare, prima con l’attacco alla par­ti­to­cra­zia lan­ciato da Marco Pan­nella e dai radi­cali e poi, nel 1992, con Tan­gen­to­poli quando crolla la repub­blica dei par­titi. È in que­sta fase, infatti, che le decli­na­zioni del popu­li­smo diven­tano pre­va­lenti inne­stan­dosi su una nar­ra­zione nella quale alla poli­tica cor­rotta, diso­ne­sta e inef­fi­ca­cie, viene con­trap­po­sta la società civile one­sta, ope­rosa, pro­dut­tiva, eti­ca­mente giu­sta, che al par­lare oppone il fare.
È un discorso che diventa domi­nante, gra­zie ai prin­ci­pali organi di infor­ma­zione che la sosten­gono e non prima che l’allora pre­si­dente della Repub­blica Fran­ce­sco Cos­siga e il demo­cri­stiano Mario Segni (aiu­tato in maniera deter­mi­nante dal Pds di Achille Occhetto) abbiano inde­bo­lito la strut­tura del sistema dei par­titi a colpi di pic­cone e referendum.
A sini­stra e al cen­tro sono così emersi movi­menti e forze che, sotto le inse­gne della società civile, hanno impo­sto il diret­ti­smo, il «gen­ti­smo» e il gia­co­bi­ni­smo giu­di­zia­rio. Si pensi alla Rete di Orlando, al movi­mento for­ma­tosi attorno alla rivi­sta Micro­mega e, ancor più, a quello di Anto­nio Di Pie­tro.

A destra ha trion­fato, invece, Sil­vio Ber­lu­sconi che ha rea­liz­zato una lea­der­ship popu­li­sta ma, secondo Tar­chi, non ha fatto di Forza Ita­lia un vero par­tito popu­li­sta in senso stretto. Soprat­tutto, a destra, si è impo­sta la Lega Nord, che per lo stu­dioso è la seconda vera espres­sione di massa del popu­li­smo in Ita­lia. Nata sulla pro­te­sta anti­fi­scale, anti­cen­tra­li­stica e anti­me­ri­dio­nale, la Lega, più che un par­tito etno­re­gio­na­li­sta, rien­tra nella fami­glia dei par­titi popu­li­sti, come dimo­stre­reb­bero la reto­rica anti­eu­ro­pea, la xeno­fo­bia e la lea­der­ship tri­bu­ni­zia prima di Bossi e ora di Salvini.
La «terza ondata» del popu­li­smo, quella degli ultimi anni, acuita dalla crisi eco­no­mica, ha san­cito in Ita­lia il suc­cesso di Beppe Grillo e del M5s che Tar­chi giu­dica come «popu­li­smo allo stato puro». Col suo essere posti­deo­lo­gico (né di destra né di sini­stra), con la sua sfi­du­cia nella rap­pre­sen­tanza (ognuno vale uno), con la sua visione dico­to­mica che vede da una parte il popolo e dall’altra i suoi nemici (l’Europa, le ban­che, i poli­tici, i tec­no­crati, gli intel­let­tuali, gli immi­grati), con un lea­der che sa aiz­zare le piazze gra­zie a dosi di tea­tra­lità e vol­ga­rità, il M5s rap­pre­senta una delle più riu­scite espres­sioni del popu­li­smo in Italia.


Se que­sta è la situa­zione del nostro Paese, va detto che non siamo soli. In molte parti d’Europa, infatti, sono emersi attori poli­tici della fami­glia popu­li­sta. Uno dei casi più esem­plari e dura­turi è senza dub­bio quello del Front Natio­nal dei Le Pen — che ambi­sce, gra­zie ai buoni risul­tati elet­to­rali, a diven­tare il primo par­tito in Fran­cia — alla cui evo­lu­zione è dedi­cato il volume Il Front Natio­nal. Da Jean-Marie a Marine Le Pen (Rub­bet­tino, pp. 202, Euro 18), ultimo lavoro di un gio­vane stu­dioso, Nicola Genga.
L’autore affronta l’argomento cer­cando di veri­fi­care alcune inter­pre­ta­zioni pre­va­lenti, spesso date per scon­tate, a comin­ciare dal pre­sunto cari­sma del lea­der Jean Marie che secondo Genga è stato un ele­mento con­se­guente al suc­cesso, non tanto una sua causa; non fosse altro che nei suoi primi anni di vita il Front rac­co­glie risul­tati irri­sori, infe­riori all’1%, e solo nel 1984 ottiene il primo suc­cesso a sor­presa dovuto, in gran parte, alla forte espo­si­zione media­tica che rice­vono in quella cir­co­stanza il par­tito e il suo leader.
Lungi dal con­si­de­rare il Front come un par­tito «solo» popu­li­sta, Genga ne inqua­dra la sua cul­tura poli­tica all’interno della destra fran­cese met­tendo in luce i forti legami che esi­stono tra i due, deter­mi­nanti soprat­tutto nella fase di incu­ba­zione. Tra gli anni Ottanta e Novanta, poi, quando il Front comin­cia a cre­scere, l’autore nota un inten­si­fi­carsi di rap­porti e, soprat­tutto, di scambi di per­so­nale poli­tico con la destra gol­li­sta.
Ciò lo induce a pre­fe­rire l’utilizzo dell’espressione «destra radi­cale», sia per distin­guere il Front dall’isolazionismo, tipico delle destre estreme, e sia per distin­guerlo dalle destre liberal-conservatrici e repub­bli­cane. Una destra radi­cale a con­no­ta­zione «nazional-populista», insomma, secondo la for­mula di un altro stu­dioso che si è a lungo cimen­tato con l’argomento, Pierre-André Taguieff. Non va dimen­ti­cato, infatti, che Jean Marie Le Pen venne eletto per la prima volta nelle liste del par­tito pou­ja­di­sta che Tar­chi con­si­dera come il pro­to­tipo del popu­li­smo europeo.
Il suc­cesso di Marine Le Pen
Il legame pro­fondo che il Front ha con la destra fran­cese emerge anche in nega­tivo. Ana­liz­zando la para­bola di Sar­kozy, Genga sot­to­li­nea l’inversa pro­por­zio­na­lità tra que­ste due destre spie­gando che parte del suc­cesso che l’ex pre­si­dente riscosse nel 2007 fu dovuto alla sua capa­cità di rap­pre­sen­tare valori e parole d’ordine della destra lepe­ni­sta in chiave più rispet­ta­bile, riu­scendo così a sot­trarre con­sensi al Front.
Il volume si chiude con un focus sulle novità intro­dotte da quando alla guida è pas­sata la figlia di Le Pen, Marine. Il nuovo Front ha ten­tato, per ora con suc­cesso, un’operazione di cosmesi nella quale ha moder­niz­zato la pro­pria comu­ni­ca­zione, rea­liz­zato il resty­ling del sim­bolo, espunto dal pro­prio les­sico rife­ri­menti troppo estre­mi­sti, come i diversi sci­vo­la­menti nel nega­zio­ni­smo.
Quelle che non sono cam­biate, da Jean-Marie a Marine, sono però le pro­po­ste poli­ti­che: sicu­rezza con­tro gli immi­grati, la pre­fe­renza nazio­nale, o meglio un Wel­fare state che fun­zioni solo per i cit­ta­dini fran­cesi, l’attacco alle isti­tu­zioni euro­pee e alla finanza senza che però sia mai messo in dub­bio il sistema capi­ta­li­stico. Non si dimen­ti­chi che il Front è stato per anni un fer­vente soste­ni­tore del libe­ri­smo economico.
Con que­sta for­mula poli­tica Marine è arri­vata al suc­cesso del mag­gio scorso nelle ele­zioni euro­pee, ma il merito è solo in parte suo visto che, cer­ta­mente, vi ha con­tri­buto l’inefficacia della pre­si­denza Hol­lande di far fronte a fat­tori esterni come la crisi eco­no­mica e le poli­ti­che eco­no­mi­che rigo­ri­ste. Fat­tori che inci­dono ancora in molti Paesi euro­pei e che indu­cono a rite­nere che la sto­ria dei popu­li­smi sia ancora lunga.

Il Manifesto – 1 aprile 2015

Antonio Gramsci e Giulia Schucht

Giulia con Delio e Giuliano Gramsci



"Penso che la nostra piú grande disgrazia è stata quella di essere stati insieme troppo poco" (Antonio Gramsci)




9 febbraio 1931
Carissima Giulia,
ho ricevuto la tua lettera del 9 gennaio che incomincia cosí: «Quando penso di scrivere – ogni giorno – penso a ciò che mi fa tacere, penso che la mia debolezza è nuova per te…». – E anche io penso che ci sia stato un certo equivoco finora tra noi, proprio su questa tua presente debolezza e sulla presunta tua forza anteriore e di questo equivoco voglio prendermi almeno la maggior parte di responsabilità, che realmente mi spetta. Una volta ti ho scritto (forse ricordi) che io ero persuaso che tu sia sempre stata molto piú forte di quanto tu stessa non pensassi, ma che mi repugnava quasi di insistere troppo su questo motivo perché mi sembrava di essere come un negriero, dato che a te sono toccati i pesi piú gravi della nostra unione. Penso ancora cosí, ma ciò non significava allora, né significa oggi tanto meno, che mi fossi fatto di te un figurino di «donna forte» convenzionale e astratto: sapevo che eri anche debole, che anzi eri talvolta molto debole, che eri insomma una donna viva, che eri Iulca. Ma ho molto pensato a tutte queste cose, da che sono in carcere e piú da qualche tempo a questa parte. (Quando non si possono fare prospettive per l’avvenire, si rimugina continuamente il passato, lo si analizza, si finisce col vederlo meglio in tutti i suoi rapporti e si pensa specialmente a tutte le sciocchezze commesse, ai propri atti di debolezza, a ciò che sarebbe stato meglio fare o non fare e sarebbe stato doveroso fare o non fare). Cosí mi sono persuaso che, a proposito della tua debolezza e forza, io ho commesso molte sciocchezze (cosí mi sembrano ora) e le ho commesse per troppa tenerezza per te, che era sventataggine da parte mia e che, in realtà, io che mi credevo abbastanza forte, ero tutt’altro che forte, ero, anzi, indubbiamente, più debole di te. Cosí si è creato questo equivoco, che ha avuto conseguenze molto gravi, se tu non mi hai scritto, mentre avresti voluto scrivere, per non turbare il figurino che credevi mi fossi formato della tua forza. Le esemplificazioni che dovrei dare di queste mie affermazioni, hanno un contenuto che mi appare adesso cosí ingenuo che a stento riesco io stesso a rappresentarmi le condizioni in cui mi trovavo quando sentivo e operavo cosí ingenuamente; perciò non mi sento in grado di scriverne di proposito. Del resto servirebbe a poco. Mi pare sia piú importante stabilire ora tra noi rapporti normali, ottenere che tu non abbia a sentire dei freni inibitori nello scrivermi, che non abbia a sentire quasi repugnanza ad apparire diversa da quella che immagini io creda tu sia. Ti ho detto che io sono persuaso tu sia molto piú forte di quanto tu stessa creda: anche la tua ultima lettera mi conferma in questa persuasione. Pur nello stato di depressione in cui ti trovi, di grave squilibrio psicofisico, hai conservato una grande forza di volontà, un grande controllo di te stessa, e allora ciò significa che lo squilibrio psicofisico è molto meno grande di quanto potrebbe apparire e si limita, in realtà, a un aggravamento relativo di condizioni che nella tua personalità credo siano permanenti o almeno io le ho notate come permanenti in quanto collegate con un ambiente sociale che permanentemente domanda una tensione di volontà estremamente forte. Mi pare insomma che presentemente tu sia ossessionata dal sentimento delle tue responsabilità, che ti fa apparire le tue forze inadeguate ai doveri che vuoi compiere, ti disvia la volontà e ti esaurisce fisicamente, ponendo tutta la tua vita attiva in un circolo vizioso in cui realmente (se pure parzialmente) le forze bruciano senza risultato, perché disordinatamente applicate. Ma mi pare che, nonostante tutto, tu abbia conservato le forze sufficienti e la volontà sufficiente per superare da te stessa questa difficoltà in cui ti trovi. Un intervento esterno (esterno solo in un certo senso) ti faciliterebbe il compito: per esempio, se Tatiana andasse a convivere con te e tu ti persuadessi concretamente che le tue responsabilità sono diminuite di fatto e perciò io insisto presso Tatiana perché si decida a partire, come insisto presso di lei perché si metta in condizioni di poter giungere presso di te in condizioni di salute tali che le permettano subito di essere attiva: mi pare che altrimenti tutta la situazione sarebbe peggiorata invece che migliorata. Ma insisto nell’affermare la mia persuasione che tu sottovaluti la tua stessa forza reale, e che sei in grado di superare l’attuale crisi da te stessa. Hai sopravalutato la tua forza nel passato ed io scioccamente ti ho lasciato fare (dico adesso scioccamente, perché allora non credevo di essere sciocco); ora la deprezzi, perché non sai adeguare concretamente la tua volontà al fine da raggiungere e non sai graduare i tuoi fini e perché sei un po’ ossessionata. Cara, sento benissimo quanto tutto ciò che ti scrivo sia inadeguato e freddo. Sento la mia impotenza a fare qualsiasi cosa di reale ed efficace per darti un aiuto; mi dibatto tra il sentimento di una immensa tenerezza per te che mi appari come una debolezza da consolare immediatamente con una carezza fisica e il sentimento che è necessario da parte mia un grande sforzo di volontà per persuaderti da lontano, con parole fredde e slavate, che tuttavia tu sei anche forte e puoi e devi superare la crisi. E poi mi ossessiona il pensiero del passato. Tu ricordi la nascita di Delio e la carrozzella (ma come hai dimenticato che nell’aprile del 1925 lo abbiamo insieme condotto a spasso in quella carrozzella in un giardino vicino alla Tverskaia-Yamskaia?) e Bianco e i dodici rubli che hai preso in prestito. E perché hai cosí tenacemente rifiutato l’aiuto che ti avevo mandato attraverso Bianco? E perché io non sono riuscito a impormi a te e a far riconoscere il mio diritto di aiutarti? Penso che allora avevo riscosso 8200 lire d’indennità giornalistica e che le versai interamente per il nuovo giornale. Perché ho potuto permettere che tu facessi dei debiti di 12 rubli mentre io versavo 8200 lire al giornale, mentre avrei, senza nessuna difficoltà e pur facendo tutto il mio dovere, potuto versare solo il 50%? Tutto questo mi esaspera ora contro me stesso d’allora e mi fa vedere quanto i nostri rapporti fossero d’una incongruità e di un romanticismo scelleratissimo. È vero che tu allora non mi accennasti a questi dodici rubli, anzi mi prendesti in giro per le mie «pretese» di aiutarti, ma sento ora che avrei dovuto trovare il modo di importi anche ciò che non volevi. – Del resto hai ragione che nel nostro mondo, mio e tuo, ogni debolezza è dolorosa e ogni forza un aiuto. Penso che la nostra piú grande disgrazia è stata quella di essere stati insieme troppo poco, e sempre in condizioni generali anormali, staccate dalla vita reale e concreta di tutti i giorni. Dobbiamo ora, nelle condizioni di forza maggiore in cui ci troviamo, rimediare a queste manchevolezze del passato, in modo da mantenere alla nostra unione tutta la sua saldezza morale e salvare dalla crisi ciò che di bello c’è pure stato nel nostro passato e che vive nei bambini nostri. Ti pare? Io voglio aiutarti, nelle mie condizioni, a superare la tua attuale depressione, ma bisogna anche che tu un po’ mi aiuti e mi insegni il modo migliore di aiutarti efficacemente, indirizzando la tua volontà, strappando tutte le ragnatele di false rappresentazioni del passato che possono incepparla, aiutandomi a conoscere sempre meglio i due bambini e a partecipare alla loro vita, alla loro formazione, alla affermazione della loro personalità, in modo che la mia «paternità» diventi piú concreta e sia sempre attuale e cosí diventi una paternità vivente e non solo un fatto del passato sempre piú lontano. Aiutandomi cosí anche a conoscere meglio la Iulca di oggi che è Iulca + Delio + Giuliano, somma in cui il piú non indica solo un fatto quantitativo, ma soprattutto una nuova persona qualitativa. Cara, ti abbraccio stretta stretta e aspetto che mi scriva a lungo.
Antonio