30 settembre 2021

ANNA TOSCANO, Fotografare Venezia

 


SE È ANCORA POSSIBILE FOTOGRAFARE VENEZIA

(foto di Anna Toscano)

La bellezza di alcune mostre, come di alcuni libri, è quella di spalancare una, o delle visioni, dove di norma si pensa non ci sia più nulla da vedere, dove si pensa i punti di vista siano esauriti e ormai ogni immagine sia obsoleta. Accade con Venezia. Fotografare o scrivere Venezia è ancora possibile? E come? È così ingombrante, con la sua bellezza e il suo passato, per non parlare del suo presente, che non potrebbe fare da sfondo a nessuna storia, per immagini o a parole, perché subito farebbe passare in secondo piano ogni personaggio, ogni oggetto, per esserne la sola e unica protagonista.

Fotografare Venezia ha a che fare con l’immagine di Venezia: immagine ritoccata, modificata, virata nei colori e nelle angolazioni tanto da chiedersi quale sia la Venezia che esiste ancora. Una città scenografia di sé stessa, scenografia imponente, per miliardi di umani che la attraversano da sempre: cambiano i costumi, le fogge, i modelli, i tagli di capelli e i cappelli ma lei è lì sullo sfondo. Lo penso ogni volta che esco di casa affrontando controluce campo Santo Stefano, e mi ritorna in mente un celebre scatto di Tomaso Filippi, fotografo veneziano che ha ripreso la città lagunare tra fine Ottocento e inizio Novecento, in cui esattamente dal punto in cui mi trovo immortala per sempre mezzo campo e alcune donne e uomini che lo attraversano. E penso, cosa abbiamo aggiunto ancora in oltre un secolo? Molto. Cosa c’è da aggiungere? Nulla, mi rispondevo. Ma sbagliando. Perché al netto degli scatti dei professionisti, delle immagini postate in tutti i social, delle tecnologie più avanzate come i droni, ci sono ancora modi nuovi di riprendere questa città.

L’ho pensato, con enorme gioia, visitando la mostra HYPERVENEZIA, a Palazzo Grassi fino al nove gennaio 2022: esposizione che raccoglie un immane lavoro di Mario Peliti, a cura di Matthieu Humery, composto da 400 fotografie in un percorso lineare che va a ripercorrere un ideale itinerario lungo i sestieri, un’installazione video di oltre 3.000 fotografie e una mappa composta da 900 foto che rappresenta la forma della città, ogni immagine è collocata esattamente nel posto in cui si trova nello spazio urbano.  Circa 4.300 fotografie.

Il progetto di Peliti prende avvio nel 2006 – si concluderà nel 2030 –  quando decide di mappare tutta la città per documentare il tessuto urbano, il numero totale delle immagini scattate sono 12.000. Si tratta di fotografie che, nonostante siano state fatte lungo un arco di tempo molto lungo, hanno le medesime caratteristiche: sono in bianco e nero, realizzate con la stessa condizione di luce, con pochissime ombre e senza presenza umana.

La disposizione lineare fa sì che le immagini si staglino come un confine a metà del muro bianco, nella parte sotto possiamo immaginare acqua e fondamenta, in quella sopra lo spazio bianco è tutto per lo spettatore: un po’ come nella poesia in cui tutto lo spazio bianco attorno a una poesia è lì per il lettore, affinché ci metta, ci veda e ci trovi qualcosa di sé durante la lettura, anche qui il muro sembra invitare ad amplificare e al contempo isolare l’evento visivo dell’immagine per stare anche nel bianco soprastante che parla delle fotografie ma anche di chi le guarda.

Il muro con la mappa della città composta di fotografie che riproducono il luogo di dove sono poste si può vedere già salendo la scala principale, intravedere attraverso le colonne, e la resa è di grande impatto già da distante; da vicino si avverte l’effetto immersione man mano che con gli occhi si cercano angoli e scorci conosciuti. Ispiratosi alla mappa in prospettiva di Jacopo de Barbari del 1500, questo lavoro dà un immediato senso si orientamento, per poi, man mano che ci si avvicina, creare un effetto di straniamento di essere ovunque e in nessun luogo, di dominare un luogo che vive benissimo, forse anzi meglio, come parrebbero testimoniare queste fotografie, senza l’umana invasione.

È proprio nell’inevitabile ricerca che ognuno fa dei luoghi, nel tentativo di riconoscimento degli scorci, che si inizia a percepire che qualcosa sta accadendo o è accaduto con questi scatti: l’inquadratura, fotografia dopo fotografia, non è mai quella che ci si aspetta, non è mai una inquadratura ovvia, standard, già vista. Ciò che fa di questa mostra, di queste fotografie, un discorso altro sulla città di Venezia è soprattutto questo coglierla, inaspettatamente, da un punto di vista insolito. E non è cosa da poco, trovare un punto di vista inconsueto rispetto a chi pratica e conosce la città, rispetto a chi la vede e l’ha vista una infinità di volte.

Ma questo è lo scarto del fotografo: Mario Peliti nel suo intento documentaristico ha usato l’occhio del fotografo, quel modo di guardare alle cose per vederle, per coglierle. La ricerca formale messa in atto, il comune denominatore di quantità di luce, bianco e nero, assenza di persone, sembra aver concesso una nitidezza di visione acutissima al loro autore e al contempo una incredibile sobrietà di composizione, cosa per nulla facile in una città come Venezia. La poca presenza dell’acqua, infine, della laguna, che compare in qualche fotografia ma a margine, sembra restituire forza a questa città creata da umani folli, geni e poeti, e togliere alla laguna la sua prevaricante presenza.

Venezia appare così vuota, sobria, quasi fosse un’immagine pensata e non reale. In effetti prima della pandemia queste immagini sarebbero sembrate assolutamente incredibili: a oggi, dopo aver visto direttamente o attraverso immagini di altri cosa possa essere Venezia vuota, la mostra ci sembra la rappresentazione di un sogno pensato, o semplicemente sognato. È questo il di più, è questo l’hyper del titolo: l’aver lavorato in una visione normale, con tutti i limiti e le possibilità di un apparecchio fotografico, ed esser riuscito a dire cose che non si possono dire, averle fatte vedere. E noi, nello spazio bianco che ci sta attorno, ci possiamo ritrovare, reinventare, fermare.

Anna Toscano vive a Venezia, insegna presso l’Università Ca’ Foscari e collabora con altre università. Scrive per minima&moralia e altri, tra i quali Il Sole24 Ore, Doppiozero, Leggendaria. Sesta e ultima raccolta di poesie è Al buffet con la morte, (2018); liriche, racconti e saggi sono rintracciabili in riviste e antologie. Suoi scatti sono apparsi in riviste, manifesti, copertine di libri, mostre personali e collettive. Varie le esperienze radiofoniche e teatrali.

29 settembre 2021

PALERMO NON HA DIMENTICATO FRANCO SCALDATI

 




IL MUSEO DELLE SPARTENZE DOMANI A PALERMO

 




GUERRA E TEMPO NELLA POESIA DI FRANCO FORTINI

 



Riprendiamo dal sito http://www.leparoleelecose.it/?p=42460 la lectio magistralis tenuta al Teatro Litta di Milano il 26 settembre in occasione della premiazione del premio Franco Fortini, assegnato per questa edizione all’opera Noi di Laura Pugno (Amos Edizioni)


GUERRA E TEMPO NELLA POESIA DI FORTINI

di Bernardo De Luca

 

I rapporti tra guerra e letteratura sono stati centrali nella riflessione novecentesca, fino a mettere in dubbio la legittimità della letteratura stessa, e in particolare della poesia, di fronte alla barbarie. Successivamente, sono state indagate, con strumenti critici diversi, le conseguenze effettive che la guerra ha avuto sulle forme della scrittura. Nell’ambito della poesia italiana, è certamente la Prima guerra mondiale a rappresentare uno spartiacque. Sarebbe, ad esempio, difficilmente immaginabile un lavoro come quello di Andrea Cortellessa, l’antologia Le notti chiare erano tutte un’alba,[1] per la Seconda guerra mondiale. A mente fredda, verrebbe da pensare che i modi della guerra influiscano sulle forme di restituzione dello choc, e che la guerra di posizione, la trincea, trovava forme più adeguate nella poesia. Ma questa sarebbe una trasposizione troppo immediata dei rapporti tra esperienza e letteratura: altri fattori, ovviamente, intervengono nella storia delle forme poetiche. Come che sia, senza dubbio nell’immediato secondo dopoguerra il romanzo ebbe, potremmo dire, non solo maggiore mandato sociale, ma anche il riconoscimento di una qualità letteraria superiore rispetto a ciò che veniva restituito in versi. In Il neorealismo della poesia italiana, Siti metteva in evidenza i tratti formali che, tra il 1941 e il 1956, accomunavano una cospicua quantità di testi in versi, che li rendeva omogenei e, in definitiva, legati all’immediatezza dell’evento: queste poesie finiscono per essere la testimonianza dell’articolazione retorica condivisa di quegli anni[2].

 

Eppure, per una generazione di poeti, la Seconda guerra mondiale rappresenta un’esperienza che avrà un impatto decisivo non solo, com’è ovvio, sulle biografie, ma anche sulla scrittura poetica: in entrambe le sfere, la guerra veniva a dividere il tempo, innanzitutto come passaggio alla maturità. Una generazione che avrebbe dato le sue opere migliori fra gli anni Sessanta e i Settanta, nelle quali sotto forme tematiche o, più spesso, indirette, la guerra ritornava come «un’orizzonte permanete»[3]. Raboni ha descritto l’elemento che, pur nella diversità degli esiti, si situava a monte di molte scritture di questi autori. Parlando di Bertolucci, Caproni, Sereni e Luzi, il critico e poeta affermava:

 

Motivi anagrafici che è loro altissimo merito aver saputo volgere in ragioni morali e in pulsioni espressive hanno assegnato insomma a questi poeti il drammatico privilegio di risultarci esteticamente vivi e visibili non al di qua al di là di quel confine, di quello strappo, ma esattamene su di esso, nel punto istantaneo e tuttavia incancellabile della sua epifania. E questa loro fatale duratura, inscindibile contemporaneità alla tragedia che ha devastato, ma anche formato, la coscienza collettiva del nostro tempo, e con essa le coscienze di tutti noi che lo abitiamo, ce li rende, per così dire, doppiamente contemporanei, testimoni insieme di ciò che siamo e dell’immane “scena primaria” che ci ha fatti quali siamo.[4]

 

Al di là delle tracce belliche evidenti, pur numerosissime, nelle opere di questi autori, la verticalità del trauma della guerra interviene innanzitutto a rompere l’illusione della linearità temporale. E questo è particolarmente evidente in Sereni e Caproni. Diario d’Algeria e Il passaggio d’Enea sono opere che descrivono direttamente l’esperienza di guerra, anche se attraverso una distanza temporale più o meno estesa; a partire da questi libri le forme della temporalità si incrinano. Potremmo dire che iniziano quei paradossali “racconti impossibili”[5] che ritroveremo nelle opere della maturità: iniziano, insomma, dalla ripetizione d’esistere del prigioniero nel purgatorio dell’Algeria e dalla fissità aporetica di un Enea che fugge dalle rovine di Troia per ritrovarsi fra le rovine di una Genova bombardata.

 

Nato pochi anni dopo, Fortini può rientrare – a mio giudizio – pienamente fra i nomi elencati da Raboni. Introducendo Dieci inverni, lo stesso Fortini fa riferimento al potere formativo dell’esperienza bellica, di una formazione paradossale e, nel suo caso, legata all’ereticità del suo marxismo: «i fatti decisivi per la nostra cultura erano stati l’universo dei campi di concentramento, l’arma atomica, i processi sovietici»[6]. In questa citazione, è significativo che tra i fatti rievocati vengano nominate le atrocità di tutti gli attori in campo: i Nazisti, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Un modo per descrivere come, durante gli anni della guerra e in quelli immediatamente successivi, anche i “liberatori” avevano perpetrato l’orrore. Non bisogna inoltre dimenticare che, a differenza dei poeti precedentemente citati, l’esordio di Fortini cade proprio nell’immediato dopoguerra: Foglio di via e altri versi esce nel ’46, grazie all’intercessione di Vittorini presso Einaudi.[7] E si tratta non solo del suo primo libro poetico, ma dell’intera produzione intellettuale. Un dato contingente, ma che pure acquista un suo valore simbolico.

 

L’imagery bellica è una costante dell’intera opera poetica fortiniana. Accompagna le diverse fasi della sua poesia, fino ad apparire come un elemento della psicologia profonda dell’autore. A tal proposito, recensendo una plaquette del 1969,[8] Pasolini leggeva le immagini belliche come un tratto della volontà dell’autore di sentirsi in guerra:

 

Tutte le poesie di Fortini hanno l’aria di essere scritte durante una “sosta dalla lotta”. […] È chiaro che per lui la metastoricità dell’atto poetico […] in tanto vale in quanto è ripensamento della lotta, attraverso un semplice mutamento di registro. […] Un’ossessione di guerra guerreggiata, dunque: che rispecchia, contro uno schermo poetico necessariamente ambiguo, l’idea che ha attualmente Fortini della situazione, come di una situazione di emergenza: in cui il poeta si deve trasformare in uno stratega, in un soldato. […] Fortini, io penso, ha bisogno di sentirsi in guerra perché solo in tal caso egli esiste, e trova una necessità al proprio esistere. La pace […] è una cosa ch’egli non ha avuto in sorte […] Come ebreo per necessità, e come uomo politico per scelta, Fortini non ha mai avuto diritto alla pace. E questo me lo rende fratello e caro. Ma la sua cecità di fronte alla realtà, e il fanatismo che non può non derivarne, mi spinge a polemizzare con lui. Non siamo in guerra.[9]

 

Sono gli anni della contestazione del ’68. Ovviamente, questa recensione si inserisce nella nota polemica che divise i due. Ma qui interessa come Pasolini legge le immagini belliche che Fortini utilizza nella sua poesia, anche quando apparentemente queste immagini non riguardano una guerra reale, ma si presentano, secondo Pasolini, come metafore ingenue del presente. Senza dubbio, nelle fasi in cui più chiari si facevano i conflitti sociali, Fortini ricorreva alla metafora bellica per rappresentare, con versi scolpiti e assertivi, la necessità di una decisione. I versi a cui fa riferimento Pasolini fanno parte di componimenti inseriti successivamente in Questo muro. Il primo menzionato apre proprio la sezione iniziale del libro del 1973 (La posizione), e si intitola La linea del fuoco[10]:

 

Le trincee erano qui.

C’è ferro ancora tra i sassi.

L’ottobre lavora nuvole.

La guerra finì da tanti anni.

L’ossario è in vetta.

Siamo venuti di notte

tra i corpi degli ammazzati.

Con fretta e con pietà

abbiamo dato il cambio.

Fra poco sarà l’assalto.

 

Sono due strofe simmetriche di cinque versi brevi; gli elementi sonori sono tutti affidati alla pronuncia percussiva dei versi-frase, di matrice brechtiana. La simmetria però non è temporale: nella prima strofa, il soggetto enunciatore si trova in un paesaggio che porta ancora i segni della Prima guerra mondiale («le trincee»), dunque mette in connessione presente e memoria storica. Nella seconda strofa, invece, abbiamo un salto temporale: il presente passa a descrivere una vera e propria scena di guerra; il soggetto non è più singolare, ma è un “noi” evidentemente costituito da soldati. La scena si fa notturna e ultimativa; dopo un cambio di guardia, si enuncia l’imminenza dello scontro. Chi è che parla? Sono incline a pensare che la seconda strofa rappresenti l’improvvisa visualizzazione del tempo passato, un procedimento non così frequente nella poesia fortiniana, più legato ai testi esplicitamente “di maniera”.

 

La fusione di temporalità diverse mi pare possa scongiurare di leggere il testo solo come ingenua metafora del presente. Evidentemente, dato il forte legame che la poetica fortiniana intrattiene con l’extratesto, non vi sono dubbi che il titolo di sezione, La posizione, faccia riferimento alla situazione socio-politica degli anni Sessanta. Credo che la prima strofa permetta, però, di problematizzare l’immediata traslazione. La distanza temporale posta tra il presente e il passato nella prima strofa consente di leggere il testo non tanto come una metafora del presente, quanto piuttosto come una filosofia della storia che può agire anche nella lettura del presente. D’altro canto, il testo è esplicito: «la guerra finì da tanti anni». Il presente è la foce di immani catastrofi; le trincee sono ancora visibili, prima che l’azione della natura ne disperda i segni e con essi il ricordo. È possibile allora vedere nella presentificazione della seconda scena, da un lato l’idea che le svolte del destino si presentano sotto forma di catastrofe, dall’altro che solo il vivo ricordo di quelle catastrofi può disvelare la posta in gioco degli scontri del presente.

 

È una forma mentis che troviamo in Fortini sin dal suo esordio, sebbene con modalità diverse.[11] In Foglio di via, il presente stesso è saturato dall’evento bellico. Come definita da un giovane Starobinski, a proposito della lirica resistenziale francese, la poesia di questi anni non può che essere una poesia dell’evento.[12] A differenza, però, di opere come il Diario d’Algeria Il passaggio d’Enea, il tempo non è bloccato, ma il presente si rovescia nel futuro. La catastrofe negativa diventa palingenesi: in questo, agiscono su Fortini il suo sostrato ebraico-protestante e l’esperienza resistenziale in Val d’Ossola. Ciò non deve far pensare che l’attimo di rovesciamento sia puramente positivo: possiamo dire, anzi, che è la dimora nella negatività a suscitare l’immagine di un avvenire di gioia. Ad esempio, le liriche resistenziali sono sempre associate, figuralmente, alla morte. La prossimità agli ammazzati oppure all’annichilimento individuale occupa il presente, interrompe la continuità temporale, non attraverso l’inceppamento del divenire, ma grazie alla trasformazione del momento attuale nella lastra negativa del futuro (A un’operaia milaneseCoro di deportatiValdossola (16 ottobre 1944)Per un compagno uccisoCanto degli ultimi partigiani)[13]. È probabilmente qui che s’instaura la figura dell’avvento di cui parla lo stesso Fortini:

 

La figura dell’avvento, tensione verso un avvenire risolutivo e apocalittico, […] vive propriamente nella immobilità e nel mutamento, è postulazione rivoluzionaria, coniugata al futuro, è diniego del presente, sentito, in ogni momento, come passato e come nullità.[14]

 

È possibile, tuttavia, ulteriormente precisare la dialettica presente/futuro all’altezza della prima raccolta fortiniana. Una dialettica che muta al modificarsi della situazione politica. Ciò è particolarmente evidente nelle diverse scelte d’autore tra l’edizione di Foglio di via del ’46 e quella del ’67, in particolare nell’aggiunta di un’ulteriore poesia conclusiva. La princeps si chiudeva con il Cordo dell’ultimo atto: la metafora drammatica suggeriva la chiusura di un percorso narrativo. Pubblicandola sul «Politecnico», Fortini afferma:

 

Stava per aprirsi la scena su di un ultimo atto di tragedia – una vita, una guerra – e il coro avvertiva la continuità dell’esistenza al di là della pena personale. Gli anni della guerra ci trascinavano, come pietre nel torrente, senza scampo, e dicevamo a noi stessi che saremmo stati egualmente dannati, dopo, alla fatica silenziosa e umile di vivere, al lavoro, che era la sola dignità dei disperati.[15]

 

In questa poesia, l’esperienza della guerra, il presente del ritorno e il futuro del ricominciamento sono estremamente prossimi: nell’ultima strofa («domani sopra i tetti il sole griderà \ le grandi opere ignude delle montagne \ e noi e voi torneremo al lavoro»)[16], viene infatti messa in evidenza la pazienza del lavoro piuttosto che il rovescio utopico dell’avvento, sebbene l’immagine del grido solare rappresenti la luminosità del destino. Nell’edizione del ’67, invece, dopo il Coro abbiamo l’inserimento di un ulteriore testo, La gioia avvenire, messo in evidenza dal corsivo, così come il testo liminare della raccolta, E questo è il sonno. Questa strategia chiude circolarmente il libro, connettendo incipit ed explicit. Al passato nichilistico e regressivo di E questo è il sonno si oppone ora l’utopia dell’avvenire: la guerra, insomma, ha disfatto il tempo vuoto e ha instaurato il tempo utopico. A differenza del Coro, però, qui presente, passato e futuro appaiono divaricati: rappresentata con immagini naturali tumultuose nella prima strofa, poi nella seconda con gesti ed esseri minuti, la “gioia” appare situata, potremmo dire, alla fine dei tempi. L’elemento di maggiore articolazione della dialettica temporale è che ora non vi è più un immediato rovesciamento, ma una vera e propria redenzione del passato. Se «la scuola della gioia è piena di pianto e sangue», l’avvenire allora è un istante che in sé raccoglie gli altri antecedenti. Non a caso, il “tu” cui si rivolge il testo è rivolto anche a chi ritiene che la rivoluzione sia un processo progressivo e lineare («Tu che credi dimenticare vanitoso / o mascherato di rivoluzione»)[17].

 

La differenza fra i due testi va probabilmente ascritta a un diverso sentimento del tempo; la Resistenza e l’immediato dopoguerra erano state occasioni in cui il futuro rivoluzionario sembrava prossimo, in cui le decisioni del presente avevano un immediato effetto sullo stato di cose, qualcosa di simile all’8 settembre 1943, quando il vuoto dell’autorità costituita diveniva una chiamata alla responsabilità, e ogni scelta era decisiva. Ma dal ’46 inizia invece la lunga stagione dei “dieci inverni”: chiusa la speranza del rivolgimento, si apre la fase dell’attesa, dello sguardo di chi veglia alla finestra.  L’attenzione del soggetto restringe il presente, che diventa il punto dal quale auscultare le estensioni immani del passato e del futuro. Questa nuova facies temporale investe i testi di Poesia e errore; un componimento in particolare ben descrive questa struttura del tempo: intitolato A metà,[18] nell’edizione definitiva del 1969 dà il nome alla sezione che lo accoglie. Le ultime due quartine di questo testo ricorrono all’immagine bellica proprio per descrivere «i due orizzonti eguali e assoluti» del passato e del futuro:

 

a metà della strada – quando il comando è lontano

e il foglio scritto è sbiadito di pioggia

e la battaglia è un’eco e la notte precipita

e chi porta il messaggio ha l’affanno del disertore

a metà della strada – tra due distanze

quando memoria e previsione hanno taciuto

tra la fine del fiume e il principio del mare

tra due orizzonti eguali e assoluti…

 

 Nella penultima quartina, è evidente il cambiamento rispetto alla prima raccolta Foglio di via, esplicitamente tematizzato nelle immagini del foglio sbiadito e del disertore: la battaglia è lontana, il messaggio non è più chiaro, il soggetto è un disertore che ha alle spalle, nel passato, le macerie della guerra e davanti a sé, nel futuro, la vita alla macchia. Nell’ultima strofa, invece, il tempo dei “dieci inverni” appare una sospensione fra due distanze: memoria e previsione non hanno la forza di agire sul presente e gli spazi del passato e del futuro diventano contenitori assoluti irraggiungibili, perché il presente appunto non è in grado di connetterli.

 

In Poesia e errore, data anche la vicinanza con l’esperienza bellica, numerosi sono i riferimenti alla guerra. In molti testi viene confermato l’assetto temporale descritto in A metà. In Sono morti ormai, ad esempio, prigionieri di guerra uccisi restano irredenti, perché «si crede di aspettare e la speranza si inaridisce / si spera di ricordare e non si ricorda».[19] Una sera di settembre, invece, ritorna alle giornate convulse dell’Armistizio, «quando fu un urlo unico la paura e la gioia», «e tutto era possibile»[20]; un ricordo però che si è irrimediabilmente allontanato nel passato. In Ai nostri caduti di Russia, la speranza e l’attesa sono l’inganno delle classi dominanti, paragonabili alla Madonna di stagno distribuita ai combattenti della campagna di Russia e al ritornello di una canzone popolare trasmessa dagli altoparlanti per il conforto dei soldati[21]. In V-Day il ricordo della fine del secondo conflitto mondiale riemerge come un atto di burocrazia con i «vecchi / nemici»[22]. Se in Fra parentesi la volontà del soggetto prova a svelare che si è stati «ingannati» e ad affermare che «una di queste sere / verrà la verità» (dicendolo però tra parentesi)[23], solo nel libro successivo cambierà veramente la posizione del soggetto di fronte al tempo.

 

In Una volta per sempre, il cambiamento utopico viene percepito sempre a una distanza estesa; ma ora l’io decide di assumere questa estensione, di inscriverla nelle forme stesse della sua poesia, di essere disposto ad accettare i tempi lunghi dell’attesa, oltre la morte individuale. È la prospettiva che ritroviamo in una delle più celebri poesie fortiniane, La gronda. Proprio dopo questa poesia, abbiamo la sezione eponima del libro, che si apre con un testo legato agli anni della guerra, intitolato appunto 1944-1947[24]. Divisa in quattro momenti e costituita dal dialogo con un tu femminile, la poesia ripercorre, nel primo movimento, gli anni di guerra; nel secondo quelli della ricostruzione. Nel terzo movimento, un’immagine naturale e marina descrive l’inabissamento della verità, che tuttavia dal fondo «aspetta»; nell’ultimo movimento, infine, il dialogo si fa più intimo, come per verificare la relazione tra storia individuale e storia universale. Nel rapporto tra guerra e tempo, è particolarmente interessante l’immagine del secondo movimento, dopo che nel primo si è descritta la distruzione dei bombardamenti e l’esilio svizzero:

 

Vecchi carri carichi

delle macerie di Milano andavano

verso il nostro avvenire che ora è qui,

la modesta collina del passato

che agita un poco di verde in questo aprile.

 

A mio giudizio, questi versi vanno collegati alla parabola naturale del terzo movimento: così come la “monaca”, mollusco di colore rosso viola, cala al fondo e attende (rappresentando la verità che da allora «tacque» ma «aspetta»), ugualmente la collina del passato attende di essere guardata con occhi diversi, da un avvenire che non è quello che ora è qui. Una nota dell’autore specifica, infatti, che si tratta della collina «di San Siro, formata con le macerie della città». Le rovine ora celate saranno riscattate in quel «luogo nostro che è oltre noi due», come recita l’ultimo verso dello stesso secondo movimento.

 

In Una volta per sempre, nella celebre Traducendo Brecht, Fortini sostiene che «la natura \ per imitare le battaglie è troppo debole»[25]. Negli anni successivi, proprio il tempo ciclico e biologico della natura interviene a rendere più complessa l’articolazione temporale della poesia fortiniana. Così come definito e analizzato da Luca Lenzini,[26] lo stile tardo di Fortini presume un confronto serrato con la potenza delle forze naturali, al tempo stesso annichilenti per l’individuo e indifferenti ai destini generali. In Questo muro, abbiamo visto che i riferimenti bellici si infittivano, a rimettere all’ordine del giorno la questione della scelta e della responsabilità; la natura invece non era capace di scalzare il primato del tempo storico; come recita Le belle querce: «Il dolce sguardo d’ansia diceva \ che non esistono le belle querce mai \ ma soltanto creature in attesa»[27].

 

Paesaggio con serpente contiene riferimenti indiretti alla guerra che, spesso, vengono desunti da storie non appartenenti al vissuto fortiniano. È il caso di liriche come Gli anni della violenza Editto contro i cantastorie[28], non a caso due testi contigui che aprono la sezione CircostanzeGli anni della violenza è in parte montaggio di citazioni tratte dai diari di Ernesto «Che» Guevara, mentre l’Editto contro i cantastorie è ambientata in Cina e utilizza passi di scritti di Mao Tse-Tung. Sono liriche, dunque, che propongono parabole legate ai “paesi allegorici”. L’Editto fonde temporalità diverse, descrivendo una Cina attraversata dalle guerre civili; il potere consolatorio del canto viene rifiutato, perché ricorda i «poveri morti» riportando il «passato irrecuperabile»: la comunità non vuole più che la vecchia vita sia «santa e sopportabile», ma che venga riscattata dalle battaglie del presente. La messa in discussione di qualsiasi forma di consolazione estetica è radicale. Ciò non significa che la letteratura non abbia una funzione in rapporto alla memoria storica. È ciò che emerge in uno degli Otto recitativi (Perché alla fine…)[29], dove la dialettica non è più tra i soli tempi della storia dell’uomo, ma tra questi e la natura:

 

«Perché alla fine che cos’è

tutto il genere umano a paragone

della natura e della universalità delle cose?»

I ragazzi corrono senza fiato.

Le pinete scricchiolano al sole.

Di qui la società è invisibile.

Ma se continuiamo a non volere la verità

sarà terribile la nostra via.

È bene che lo sappiamo una volta per sempre.

La battaglia ebbe luogo prima del bivio

dove la strada fa una larga svolta.

Il nome lo rammenta Livio, lo storico antico.

E non guardate dove le stelle si riproducono? Non volete

nemmeno osservare le piccole persone

che stridono sotto le nostre scarpe?

Come l’agonizzante diventa sasso lo sapete.

Come si butta via

die Leiche il cadavere spezzato l’avete visto.

 

Le virgolette che racchiudono i primi tre versi segnalano una citazione immaginaria; la voce rimpicciolisce la storia umana di fronte all’immensità e potenza della natura. I tre versi successivi confermano l’indifferenza della natura verso la società, che sembra invisibile da questa prospettiva. Con tipico movimento avversativo, la voce viene smentita dalle constatazioni del soggetto. Il paesaggio stesso che suscita le riflessioni sull’«universalità delle cose» è dimora di tragedie storiche: qui, infatti, si consumarono tremende tragedie e sotto le scarpe stridono i morti in battaglia. Gli ultimi due versi accostano e fanno confliggere le due dimensioni, naturale e storica: il divenire inorganico del morto; l’oblio del cadavere gettato via. Fortini, quindi, sembra ribadire il primato della verità storica. Ma sono gli anni della sconfitta, quando le ipotesi nate dal dopoguerra e dalla contestazione sono state revocate dalla mutazione antropologica; lo stesso Fortini nel 1993 affermava, rispetto ai rivolgimenti del passato: «Furono anni in cui sentivamo imminente una trasformazione catastrofica […]. Oggi lo sappiamo: quel che avveniva ci mascherò in parte tutta l’altra trasformazione compiuta dal capitale tecnologico e finanziario».[30] Ritornando al testo poetico, e al rapporto tra guerra e temporalità, una spia credo sia indice di una diversa emersione del tema bellico in relazione alla chiusura delle ipotesi rivoluzionarie: i riferimenti bellici non sono più le guerre novecentesche, e in particolare la Seconda guerra mondiale, che quelle ipotesi avevano in qualche modo reso possibili; ma sono battaglie – non nominate – del mondo antico. L’arretramento a un passato remoto e vago è il corrispettivo del restringersi dell’utopia; quanto più si allontana la gioia dell’avvenire tanto più il passato che questa potrebbe redimere sbiadisce.

 

La categoria del “remoto” credo sia associabile anche ai testi “di guerra” dell’ultimo libro poetico di Fortini, Composita solvantur. Faccio riferimento alle Sette canzonette del Golfo, nelle quali l’ironia amara è in qualche modo specchio dell’impotenza all’azione: secessione, come ha ben visto Lenzini, piuttosto che rassegnazione.[31] La distanza, allora, è qui innanzitutto spaziale: la melodia delle canzonette è un’eco della guerra resa spettacolo mediatico, incapace – a differenza delle guerre precedenti – di agire sul presente dell’Occidente, di delineare una nuova configurazione del tempo. Nell’Appendice di light verses e imitazioni, tuttavia, troviamo una palinodia delle stesse Canzonette. In Considero errore… il poeta rinnega il proprio esperimento comico, riconoscendo alla Guerra del Golfo una funzione veritativa («la verità non perdona»). La mesta ironia era un errore, perché il compito di comprendere quegli avvenimenti, che in ottica fortiniana significa farli reagire con il futuro, non è del soggetto: per lui, ormai, quell’evento resta «incomprensibile e senza nome».  Con un rovesciamento tipico di Fortini, l’ultimo verso instaura un nuovo tempo, da cui però il soggetto è, consapevolmente, escluso: «(Nulla era vero. Voi tutto dovrete inventare)»[32].

 

Forse, questo verso può essere utile per leggere diversamente anche la celebre affermazione dell’ultima poesia testamentaria, «E questo è il sonno…» Come lo amavano, il niente: cioè, «Proteggete le nostre verità». Se tutto è da inventare, e se la nozione di verità in Fortini è strettamente legata alla dialettica dei tempi, allora significa che quell’invito è innanzitutto un invito alla trasformazione. Da questo punto di vista, ci aspetta un compito arduo. Proprio prima di enunciare l’invito, vi è l’ultima visualizzazione bellica fortiniana, che ritorna alla Seconda guerra mondiale: è l’immagine dei ventotto di Panfilov, attraverso le parole estreme del commissario politico Klockov nel giorno e nel luogo dell’estrema vicinanza della Wermacht alla capitale sovietica («Non possiamo più, – ci disse, – ritirarci. \ Abbiamo Mosca alle spalle»)[33]. Come mostrato in un recente saggio di Tommaso Di Dio,[34] l’eroico sacrificio dei ventotto di Panfilov, che a prezzo della vita avevano fermato fanteria e carri armati tedeschi, si è dimostrato essere un falso di regime. Nel 2015, documenti dell’Archivio di Stato Russo hanno svelato che la leggenda era stata in parte costruita dalla stampa propagandista e che, con l’assenso delle dirigenze sovietiche, il mito fu alimentato e non smentito: «la storia ha un modo di ridere che è ripugnante»[35].

 

Da questo percorso che ho delineato, possiamo trarre due tipologie di conclusioni: la prima individua il posto di Fortini all’interno di quella schiera di poeti rievocati all’inizio; la seconda ci consente di guardare al nostro presente. Il trauma della guerra nella poesia del secondo novecento è uno strappo che non permette di ricucire una storia: frutto della rimozione, i numerosi spettri che popolano i versi di autori come Sereni e Caproni sono anche la testimonianza di questa impossibilità. Il fantasma «è un passato non pacificato [che] risorge inaspettatamente come un vampiro e cerca di insediarsi nel presente».[36] Per continuare con la metafora fantasmatica, potremmo dire che Fortini reduplica lo spettro: a uno che dal passato prova a insediarsi nel presente, Fortini oppone quello di un futuro in grado di sussumerlo, così da non bloccare il tempo e tentare una ricucitura, per quanto spostata in avanti, di una storia. In questo modo, la poesia fortiniana si sottrae alla natura intermittente della temporalità lirica: non alternanza di epifanie e ripetizione o la circolarità aporetica di un tempo dominato dal mutamento di una fissità, ma il tentativo di tenere connesse le ante del passato e del futuro. Ciò non significa che ci troviamo davanti a un tempo omogeneo e lineare: quello è il tempo delle magnifiche sorti e progressive cui Fortini si sottrae, non credendo nella inevitabile perfettibilità dell’uomo. La connessione si dà nell’attesa della catastrofe trasformativa: potranno cambiare estensione e durata dei tempi, ma la dialettica principale è questa.

 

La seconda conclusione, invece, è legata all’immagine di società che quella dialettica suscita. Se il passato, come la collina di San Siro, in qualche modo è sempre nel nostro presente, anche quando celato, il vero discrimine per Fortini credo sia il futuro. E questo ci permette anche di vedere chiaramente cosa ci divide da lui. L’omogeneità lineare e accelerata del tardo capitalismo abita le nostre menti come una seconda natura. Lo abbiamo visto in questi anni di pandemia: al netto dei traumi subiti, far fronte alla catastrofe ha significato ristabilire quanto prima la possibilità che il futuro sia in continuità con il pre-catastrofe. Sono note le molte connessioni tra le Tesi di filosofia della storia di Benjamin e la dialettica di Fortini. Tra i maggiori punti di contatto, vi è quella «debole forza messianica» capace di creare «un appuntamento misterioso tra le generazioni», che permette di dire: «siamo stati attesi»[37], come emergeva ancora negli ultimi testi di Composita solvantur. Ciò significa che anche i vivi dovrebbero avere la capacità di porsi in attesa: ma questo può avvenire se vi è una visualizzazione del futuro, un’ipotesi da immaginare. Noi cosa attendiamo?

 

Note

 

[1] A. Cortellessa (a cura di), Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, Milano, Bruno Mondadori, 1998; nuova edizione riveduta, Milano, Bompiani, 2018.

[2] W. Siti, Il neorealismo nella poesia italiana. 1941-1956, Torino, Einaudi, 1980.

[3] G. Alfano, Ciò che ritorna. Gli effetti della guerra nella letteratura italiana del Novecento, Firenze, Franco Cesati, 2014, p. 2014.

[4] G. Raboni, Il prima e il dopo, in Id., La poesia che si fa. Cronaca e storia del novecento poetico italiano (1959-2004), a cura di A. Cortellessa, Milano, Garzanti, 2005, pp. 187-89, a p. 88.

[5] N. Scaffai, «Il luogo comune e il suo rovescio»: effetti della storia, forma libro ed enunciazione negli ‘Strumenti umani’ di Sereni, in Id., Il lavoro del poeta. Montale Sereni Caproni, Roma, Carocci, 2015, pp. 136-71

[6] F. Fortini, Dieci inverni. 1947-1957. Contributi ad un discorso socialista, a cura di S. Peluso, con un saggio di M. Marchesini, Macerata, Quodlibet, 2018, p. 30.

[7] Vd. F. Fortini, Foglio di via e altri versi, ed. critica e commentata a cura di B. De Luca, Macerata, Quodlibet, 2018.

[8] F. Fortini, Venticinque poesie 1961-1968, s. e. [1969]

[9] P.P. Pasolini, Le ossessioni di Fortini, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, a cura di W. Siti e S. De Luade, con un saggio di P. Bellocchio, Milano, Mondadori, pp. 1189-92.

[10] F. Fortini, Tutte le poesie, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, p. 300 (d’ora in avanti, il volume verrà indicato con la sigla TP, seguita dal numero di pagina).

[11] Sulla dialettica temporale, mi limito qui a citare alcuni lavori che sono stati utili per questo percorso: F. Diaco, Dailettica e speranza. Sulla poesia di Franco Fortini, Macerata, Quodlibet, 2017;  F. Moliterni, Poesia e tempo in Franco Fortini, in Id., Una contesa che dura. Poeti italiani del Novecento e contemporanei, Quodlibet, 2021, pp. 121-36; G. Nava, Tempo e memoria nella poesia di Fortini, in Dieci inverni senza Fortini. 1994-2004, Atti delle giornate di studio nel decennale della scomparsa (Siena 14-16 ottobre 2004; Catania 9-10 dicembre 2004), Macerata, Quodlibet, 2006, pp. 357-63.

[12] J. Staroninski, Introduzione alla poesia dell’evento (1943), in «Caffè illustrato», Dossier Resistenza, a cura di G. Pedullà, 23, 2005, pp. 40-43.

[13] TP, 15, 18, 20, 21, 24.

[14] F. Fortini, Le poesie italiane di questi anni (1960), in Id., Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di L. Lenzini e uno scritto di R. Rossanda, Milano, Mondadori, 2003, p. 563.

[15] F. Fortini, Coro dell’ultimo attoImitazione del Tasso, in «Il Politecnico», 5, 27 ottobre 1945, p. 3.

[16] TP, 60.

[17] TP, 61.

[18] TP, 102.

[19] TP, 141.

[20] TP, 165.

[21] TP, 166.

[22] TP, 207.

[23] TP, 174.

[24] TP, 261-62.

[25] TP, 238.

[26] L. Lenzini, Stile tardo. Poeti italiani del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2008.

[27] TP, 361.

[28] TP, 409, 411.

[29] TP, 446.

[30] F. Fortini, Fortini: leggere e scrivere, a cura di P. Jachia, Firenze, Nardi, 1993, p. 63.

[31] L. Lenzini, Giacimenti di futuro. Appunti su ‘Composita solvantur’, in Id., Il poeta di nome. Saggi e proposte di lettura, Lecce, Manni, 1999, p. 221.

[32] TP, 573.

[33] TP, 561-62.

[34] T. Di Dio, Proteggete le nostre verità. Una lettura di ‘E questo è il sonno…’ di Franco Fortini, in «Siculorum Gymnasium», LXXI, IV, 2018, leggibile anche al seguente indirizzo: https://www.ospiteingrato.unisi.it/proteggete-le-nostre-veritauna-lettura-die-questo-sonno-di-franco-fortinitommaso-di-dio/

[35] 27 aprile 1935 (TP, 405).

[36] A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale, trad. it. a cura di S. Paparelli, Bologna, Il Mulino, 2002, p. 194.

[37] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Id., Angelus novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Torino, Einaudi, 1995, p. 76.