08 novembre 2014

A. GIACOMETTI TRA SARTRE E BECKETT



Alla GAM di Milano una mostra dedicata a Alberto Giacometti

Achille Bonito Oliva
Nelle sue opere gli echi di Sartre e Samuel Beckett

Ho sempre pensato che la scultura è un genere che deve chiedere perdono. Per ingombro, volumetria, peso, occupazione di suolo pubblico e privato. Nella sua evoluzione linguistica si è sempre dovuta confrontare con queste difficoltà. Anche Michelangelo si era misurato con le specificità del genere, approdando al metodo del togliere, sottrazione progressiva della materia fino ad un approdo alla forma definitiva.

Nell'arte contemporanea, Alberto Giacometti ha sviluppato un confronto sistematico con la scultura arrivando a soluzioni che ne fanno un vero e proprio artista concettuale. Dalla Svizzera l'artista passa a Roma, dove vi soggiorna per due anni per poi trasferirsi nella sua seconda patria, Parigi.

Influenzato da Tintoretto e Giotto, da un'antropologia culturale insita nel linguaggio specifico della scultura, porta la sua attenzione, indietreggiando nel tempo, fino a quella primitiva. Da qui il costante riferimento alla figura umana, maschile e femminile, che sembra attraversare l'ansietà del proprio tempo e la precarietà di una storia segnata da lutti e conflitti, ma anche da un costante vitalismo accompagnato dal sentimento di una solitudine inevitabile.
Torso

Dagli anni Venti in avanti l'artista svizzero attraversa anche i movimenti delle avanguardie storiche, cubismo e surrealismo, che ne segnano molti esiti formali. La scarnificazione cubista della materia viene portata fino alla geometria di dettagli che sembrano impedire la riconoscibilità della forma proposta come in Torso ( 1925).

Il passaggio al sodalizio con André Breton segna l'adesione al surrealismo, in cui prevale una spinta verso il simbolico, come si desume dalla Sfera sospesa ( 1930). In ogni caso costante è l'assottigliamento antropomorfico della figura rappresentata e un'attenzione ossessiva non allo spazio topologico, tipico della scultura, ma a quello percettivo che appartiene piuttosto alla pittura. Una sorta di trend anoressico sembra sostenere felicemente l'opera di Giacometti, nella continuità differente dei due generi.

Prevale dunque la ricerca percettiva di una forma che vaga nell' horror vacui dello spazio, occupato da figure sempre in transito, nella posizione di una provvisoria attesa senza risultato. Forse frutto del suo incontro con Samuel Beckett che ha segnato col suo teatro una visione del mondo fatto più di monologhi che di dialoghi.
Gabbia

Fino al 1966, anno della sua morte, tra scultura, pittura e disegno, Giacometti ha praticato un processo creativo come continua erranza dell'essere, sostenuto da un clima culturale che risente anche dell'esistenzialismo di Jean-Paul Sartre. Emblematica è la Gabbia ( 1931), che descrive attraverso la trasparenza la delimitazione dello spazio scultoreo e lo sconfinamento in una percezione senza ostacoli.

Trasparenza significa vedere lontano, andare oltre l'occasione e la contingenza della materia fino ad arrivare al recupero dell'umano, rappresentato anche nei frammenti fisiologici e sessuali, dall'occhio agli organi genitali maschili e femminili. La distanza aiuta a recuperare la visione completa della figura, l'uomo nella sua interezza: Uomo indicante ( 1947) e L'uomo che cammina ( 1960).

Ecco l'approdo finale alla ricostruzione antropologica dell'essere assottigliato e pure riconoscibile, stabilizzato nelle posture del passo e dell'immobilità, sempre alla ricerca di un centro introvabile ma stoicamente portato verso i movimenti della vita. L'altrove.

La Repubblica – 8 ottobre 2014

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