05 dicembre 2023

AGOTA KRISTOF A TEATRO



FANNY & ALEXANDER E LA TRILOGIA DELLA CITTÀ DI K. AL PICCOLO TEATRO

La Trilogia della città di K. è in scena al Piccolo Teatro fino al 21 dicembre, nel Teatro Studio Melato che accoglie, e abbraccia, lo spettacolo nato da un progetto dell’attrice Federica Fracassi e realizzato con il collettivo Fanny & Alexander, composto da Chiara Lagani e Luigi De Angelis.

Lo spettacolo teatrale nasce dall’omonimo libro di Ágota Kristóf, uscito nella sua edizione integrale nel 1988: un romanzo composto da tre romanzi, pubblicati in anni diversi, e in sé apparentemente autonomi.

Una storia non lineare, quella della Trilogia della città di K., si snoda in varie e differenti vicende che accadono a due ragazzini gemelli in tempo di guerra e fino all’età adulta. Nel primo romanzo, Il grande quaderno, sono i due gemelli che parlano dicendo noi e raccontando la loro storia da quando la madre li porta dalla grande città, bombardata dalla guerra, alla piccola città, la città di K., dalla nonna. I due narrano la loro vita scrivendola in un quaderno, il loro quotidiano fatto di difficoltà da superare, di assenze e solitudine. In una grande mancanza di affetto – la nonna li chiama “figli di cagna” – affrontano la crescita, in un mondo e in un modo durissimo, uniti. Fino alla loro divisione, quando uno dei due passa il confine con la promessa di tornare.

I due gemelli, scopriamo nel libro centrale, La prova, sono Luca e Claus; Lucas resta nella piccola città e racconta ciò che gli accade negli anni in cui attende che torni Claus. I personaggi che compaiono, nei primi due libri, sono molti e tutti interagiscono come uscendo da una grande solitudine per incontrare gli altri, ma incontrano solo anime in esilio anche da loro stesse. Nel terzo romanzo, La terza menzogna, vediamo Claus che riceve una telefonata di Lucas che è tornato per incontrarlo. Chi è partito? Chi è tornato? Chi sono i due gemelli? Esistono davvero entrambi? Quale è stata la sorte dei genitori, quale delle due narrazioni sono vere? O quella vera è un’altra ancora? Sono domande che la lettrice e il lettore si pongono perché la narrazione di Ágota Kristóf è un continuo raccontare diversi punti di vista della storia e questo narrare preclude ogni logicità. Le storie sono diverse a seconda di chi le racconta, i dettagli non combaciano, i particolari sfuggono, la storia è sempre più crudele per tutti i personaggi. Ma nessuno mente, ognuno racconta la propria verità, una verità accaduta o ricostruita per non soffrire ancora: i ricordi si intersecano o si sfiorano, perché la mente che ricorda è casa dagli specchi alterati.
Ágota Kristóf in questo romanzo ha riversato parte di sé stessa e di molte storie che sono accadute nei primi decenni della sua vita: fuggita a 21 anni con un neonato al collo dall’invasione armata sovietica in Ungheria, arriva nella Svizzera francese da dove non andrà più via. Una vita, quella da rifugiata, segnata dalla solitudine, dall’esclusione sociale, dalla durezza del quotidiano in una fabbrica, dal sentimento di non apparenza. Dopo una dura lotta con la lingua francese Ágota Kristóf scrive i tre romanzi, ispirandosi alla lingua scritta sui quaderni di scuola dei suoi bambini: i fin dei conti saranno proprio due bambini gemelli a parlare nel primo libro.

Il Teatro Studio Melato, con il suo spazio circolare, sembra il luogo profetico in cui questa storia riprende vita, e lo fa attraverso la scelta geniale di aprire sulla scrittrice stessa, Ágota Kristóf, intenta al suo tavolo a scrivere la storia, una scelta fortissima che sottolinea come le storie, quelle della scrittrice e quelle nel romanzo, siano indissolubili. Ágota avanza lenta nello spazio vuoto, solo la scrivania e una linea luminosa che divide in due la scena, con il suo distintivo caschetto nero e gli occhiali, e racconta una storia. Lo fa a parole, le sue del romanzo, e per lei lo fanno personaggi in carne e ossa e personaggi che appaiono in numerosi pannelli animati che in tempi e luoghi diversi portano atti, parole, sguardi, gesti.

I primi due libri sono la prima parte dello spettacolo che, con la comparsa della scrittrice, scorre con i personaggi della storia interpretati da quattro attori (oltre a Federica Fracassi, ci sono Andrea Argentieri, Consuelo Battiston, Alessandro Berti, Lorenzo Gleijeses) che entrano nel gioco del doppio, dello sdoppiamento, della ripetizione di gesti e parole. I tic ripetuti, le immagini ricorrenti, gli oggetti che riappaiono, nell’essenzialità della messa in scena, dilatano la narrazione e fermano l’immaginario in potenti diapositive. Il tempo della narrazione nella scena teatrale si condensa in un’unica macro storia in cui tutti i personaggi raccontano la loro vicenda, senza alterare nulla della verità menzognera che portano con sé.

La favola nera dei due gemelli abbandonati con la nonna strega in un mondo fatto di prove dure da superare si condensa in un interno borghese di famiglia in cui gli orrori della Storia attraversano ogni vita, e gli orrori della storia minore non sono esenti da crudeltà, gli orrori di molte famiglie, di molte vite. Sembra di essere per un attimo dentro La quinta del sordo, in cui l’artista Philippe Parreno, attraverso un video che vaga tra luci e ombre, suoni e visioni, dà vita alle Pitture nere di Goya tra pareti e stanze: la follia, l’incubo, il dolore e la violenza nei volti di decine e decine di Luca e Claus.

Il secondo tempo dello spettacolo scioglie i fili facendoli passare vicini, quasi unendoli, per poi riaggrovigliarli: i due gemelli si incontrano di nuovo, speculari e distantissimi, ognuno nella trincea del proprio dolore, trincea colma. La storia si dipana. Questo ultimo atto è una scelta coraggiosa nel dare una risposta alla spettatrice e allo spettatore, così come alla lettrice e al lettore, una risposa che sia la soluzione dell’enigma, eppure al contempo presenta l’enigma a cui ogni persona può dare, se vuole, una soluzione.

L’interpretazione eccezionale, nel continuo spostamento di corpi in uno spazio quasi del tutto vuoto e pieno di così tanta storia, dà forma a una vicenda obliqua e dolorosa. Rende ancora più potente la resa il fatto che gli interpreti recitino le battute non a memoria, ma ascoltandole da un auricolare dalla loro stessa voce, una sorta di parlato in flusso di parole che ne amplifica la traiettoria. Flusso di parole che possono essere discorsi diretti o indiretti, che si amalgamano ai pochi e precisi movimenti, ai tic e ai gesti che fissano il personaggio e la sua direzione. Viene portato in scena il filo rosso che unisce ogni personaggio che è l’estrema solitudine di ognuno, solitudine che si unisce a quella dell’altro o dell’altra nella ricerca di un poco di umanità. Umanità che di rado fa capolino in questa come nella gran parte delle storie del mondo.

Il montaggio delle diverse, e lontanissime tra loro, verità che compongono il romanzo, da parte di una grande scrittrice che ha saputo riversare sé stessa nella scrittura rendendo le sue storie un pezzo delle storie di tutta l’umanità, è un montaggio che in questo spettacolo diviene fedele al testo fino a interpretarne l’enigma.

Lo spettacolo si conclude con la scrittrice, Ágota Kristóf, che rientra in scena, per chiudere il cerchio, chiudere la storia, congedare i suoi personaggi, ma meravigliosamente lasciando la porta aperta sull’interpretazione di ognuna e ognuno, perché come scrive la scrittrice stessa «Non si può spiegare tutto, non fa bene. Sull’esilio, sulla morte, sul dolore non c’è molto da dire. Sono fatti. Tutto qui».

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