LA CASA DELL'ARCHEOLOGO, OVVERO L'ALTRO CALVINO
di Stefano Jossa
Di fronte alle celebrazioni centenarie che ne stanno mettendo a repentaglio il valore di scrittore, ridotto a oggetto monumentale da esibizioni istituzionali o ad animale proteiforme da libro sfizioso, a Italo Calvino andranno restituite prima di tutto la sua umanità e la sua scrittura, se non vogliamo perderlo del tutto nel mare consumistico di una società che privilegia la fruizione istantanea, la curiosità occasionale e la celebrazione fanatica rispetto ai percorsi dell’intelligenza, la riflessione e la critica. Ci aiuta a farlo una piccola mostra, che non ha nulla di apparentemente spettacolare, ma proprio perciò ci fa entrare nella vita di una persona.
#ItaloCalvino in sette oggetti: un album di fotografie, un paio di cartucce, una litografia, una collezione di dischi in vinile, un mazzo di tarocchi, un manoscritto respinto e una statuetta di ceramica. Sono tutti lì per significare qualcosa, perché «il solo fatto che così e così si ritrovino in quel punto già dice tutto quel che c’era da dire» (come scriveva lui, omaggiando Lo sguardo dell’archeologo, saggio del 1972). Dalla casa del terzo piano di via Campo Marzio 5 a Roma (oggi del cantante dei Radiohead, Thom Yorke, a dare la misura dei cambiamenti nella costruzione delle élites italiane) Eleonora Cardinale ha selezionato i testimoni di un percorso che si dirama per stazioni, come in una via crucis novecentesca, in cui la passione è quella dell’esploratore di vite altrui, quasi un archeologo del sapere, disposto a lasciarsi incantare, ma anche pronto a ricostruire i nessi che si diramano tutt’intorno: le cose si fanno parole, principi di narrazione e strumenti di comunicazione.
Raccolti per la mostra Lo sguardo dell’archeologo. Calvino mai visto (Roma, Biblioteca Nazionale, fino al 26 gennaio 2024, catalogo a cura di Eleonora Cardinale, Edizioni della Biblioteca Nazionale di Roma), i sette oggetti raccontano Calvino più di qualsiasi esposizione documentaria, fotografica o bibliografica che sia: prima di tutto perché sono suoi e fanno quindi parte della sua autocostruzione; secondo perché aprono verso le relazioni che da lì si dipanano anziché accentrare in concentrazione; e terzo perché manifestano fisicamente una storia intellettuale. Si potrebbero aggiungere un quarto, quinto, sesto e altri motivi ancora, ma ciascuno potrà e saprà trovare i suoi, perché la storia materiale questo vantaggio ha rispetto a quella evenemenziale e a quella concettuale: non essere costretta dalla sequenzialità della narrazione, né vincolata alle sistemazioni categoriali, né forzata dalle esigenze esplicative. Gli oggetti sono lì e li si può guardare come si vuole. L’ordine cronologico è insomma solo una chiave espositiva di comodo, che lo spazio della mostra rende in effetti attraversabile senza limitazioni, perché ognuno può muoversi tra le didascalie e le teche a proprio piacimento, saltando, girandosi, andando avanti e indietro, incrociando e raffrontando. Materiality turn, si chiama, in inglese: la svolta culturale per cui al centro dell’esperienza e della conoscenza mettiamo gli oggetti, in quanto strumenti di organizzazione, che costringono a riflettere tanto sull’identità che portano con sé (un’ontologia), quanto sulla struttura in cui si dispongono (un discorso).
Il primo incontro è con l’album di famiglia, come d’uso nelle biografie della brava borghesia italiana; ma di lì si dirama non solo il rapporto coi genitori, i due botanici universitari che lo fecero sentire, secondo la sua autonarrazione in verità sempre piuttosto compiaciuta, fuori posto. C’è molto di più, perché Calvino è stato un bambino e un ragazzo come tutti, coi segni particolari del predestinato di buona famiglia, ma pur sempre in linea col suo tempo e il suo stato: compaiono le sue pagelle, i suoi libri di scuola, i primi disegni – materiali utilissimi non tanto per curiosità voyeuristiche e pettegole, ma per la ricostruzione di una formazione culturale, di un immaginario e di un’appartenenza. Enfant prodige e bambino normale, con una di quelle congiunzioni ancipiti che tanto gli piacevano.
A sconvolgere tutto, tanto il progetto del figlio predestinato della borghesia, quanto il senso stesso della storia collettiva, arrivava la guerra, di cui sono testimonianza i due proiettili sparati a San Giovanni, che la mamma raccolse e Italo conservò: il secondo oggetto in mostra, provenienti da un cassetto della sua scrivania, manifestazione sensibile di una profonda lacerazione psicologica, che portò un’intera generazione a crescere troppo presto, affacciandosi alla vita adulta senza aver ancora perso la memoria dell’infanzia, ma già immersa in una missione politica al di là di sé stessi. Nasceva così Il sentiero dei nidi di ragno, che si muove nella contraddizione tra il Pin che siamo stati e il Kim che vogliamo essere. Chissà che lì non stia ancora quel concentrato di ricordi primonovecenteschi e proiezioni novecentesche che resta un nodo tutto da indagare: a fondare la politica individuale, all’insegna dell’impegno civile, e la politica collettiva, nel nome dell’unità nazionale. Nei dintorni si muovono, a conferma della natura ancipite di questa fase storica, i suoi Stevenson e Conrad, ma anche il suo articolo per coscienza di classe del 15 luglio 1948, dopo l’attentato a Togliatti, il giornale torinese che fu l’unico a stampare nell’intervallo editoriale dell’Unità durante lo sciopero generale del luglio 1948: a braccetto, tra letture adolescenziali e militanza comunista.
La terza tappa è una litografia di Alexander Calder, l’artista americano autore di sculture col fil di ferro che divenne famosissimo in Italia a seguito del premio conferitogli dalla Biennale di Venezia nel 1952, pietra dello scandalo per chi voleva un’arte nazionale e realistica, ma anche occasione d’ispirazione per chi cercava nuove strade sperimentali: intorno al rapporto con Calder si sviluppava, ad esempio, lo shock del monumento a Pinocchio di Emilio Greco, che doveva indirizzare l’arte nazionale verso la costruzione della nuova comunità italiana, ma sembrò troppo ardito per il pubblico italiano degli anni Cinquanta. Qui troviamo il Noble Cavalier, che Calder regalò a Calvino: luogo di convergenza di tutto un immaginario, quello che va dal Visconte dimezzato al Cavaliere inesistente, che per Calvino era prima di tutto antifascista, all’insegna di un Ariosto capace «di urtare in ogni epoca i nervi dei reazionari d’ogni specie e d’ogni colore», come aveva scritto Roberto Battaglia nella sua prefazione alle Novelle del Furioso (1950). Reso astratto e formale dall’interpretazione crociana e irrigidito negli schemi della fascistizzazione dal volume L’ottava d’oro, Ariosto era per Calvino l’interlocutore ideale per sovvertire tutte le verità costituite, proporre una rappresentazione del mondo all’insegna dell’avventura e della sorpresa, mettere sotto scacco gli intellettuali organici e i benpensanti di regime.
Segue una collezione di dischi, i notissimi Cantacronache, per cui Calvino scrisse i testi di tre canzoni: Canzone triste, Dove vola l’avvoltoio?, Oltre il ponte e Sul verde fiume Po (le prime tre per le musiche di Sergio Liberovici e le interpretazioni di Margot Galante Garrone e di Pietro Buttarelli, mentre per l’ultima la musica è di Fiorenzo Carpi). Il progetto del gruppo lo enunciava Emilio Jona sulla rivista omonima:
«Non ci siamo mai occupati prima d’ora di musica così detta leggera. Siamo impegnati in campi più specificatamente culturali, nel romanzo, nella poesia, nella saggistica, nella musica seria, nella pittura, oltre che in più pratiche professioni; abbiamo collettivamente maturato la volontà d’intervenire in questo campo in cui, in Italia, più appariscente e grossolana è l’apologia dell’evasione».
Sul retro di copertina del primo disco Franco Antonicelli (il primo editore di Se questo è un uomo di Primo Levi, nel 1947) ne metteva in rilievo «la polemica civile»:
«Scrittori autentici accanto a musicisti autentici, gli autori del CANTACRONACHE sapevano di dover infrangere una dura tradizione di abusi, di faciloneria, di falsità. Han fatto loro il primo passo, perché bisognava cominciare senza più indugio. Non sono nati cantastorie, lo sono diventati: se non fosse artistica, come può anche dubitare qualche ascoltatore sospettoso o arcigno, l’importanza di questo esperimento resterebbe sempre culturale».
Tutto rivolto al politico, che va portato nell’educazione popolare e passa pure per l’intrattenimento, Calvino ha già imparato a usare il gioco come strumento serio d’impegno attivo e conoscitivo. Non ci si meraviglierà a trovare un mazzo di tarocchi come quinta stazione: le carte con le quali lo scrittore si divertì a generare Il castello dei destini incrociati, uscendo definitivamente dalla dialettica tra realistico e fantastico per entrare in una prospettiva sperimentale, combinatoria, tra strutturalismo e narratologia.
La tessera del partito comunista introduce alla sesta tappa, che s’intreccia inequivocabilmente con la seconda, all’insegna della militanza politica e nella continuità tra gli anni della guerra e gli anni di piombo: accusato di essere troppo distaccato rispetto alla situazione politica degli anni Settanta, Calvino replicava affidando al racconto La poubelle agrée (La pattumiera gradita, 1977) una funzione simbolica di riflessione sulla storia, ragionando tra conservazione e scarto; e lo faceva proprio intorno a un oggetto, «la pattumiera di cucina» che «è un secchio cilindrico in materia plastica di color verde pisello». A quegli anni risale il rifiuto da parte della New York Review of Books di un suo articolo a commento delle elezioni del 1976, che avevano visto la Democrazia Cristiana resistere al paventato sorpasso da parte del Partito Comunista; il potentissimo direttore Robert B. Silvers gli replicava che l’articolo risultava piuttosto scontato (familiar) e troppo fumoso (abstract) rispetto alle attese della rivista, che voleva più analisi e meno brillantezza, mentre il pezzo inviato gli sembrava un po’ superficiale e destava pure perplessità (seemed a little perfunctory and also puzzling). Anche Calvino ha avuto il suo rifiuto, per la gioia di tutti coloro che vivono di manoscritti respinti; ma forse a conferma di un impegno politico sempre più orientato su un versante genericamente morale anziché politicamente radicato, al punto che lo scrittore replicava di essere, appunto, uno scrittore anziché un analista o un militante: I’m wondering how the article you ask could be written by somebody who is not a political writer or a political scholar but a literary fiction writer, who since many years is far from every political activity (mi chiedo come possa l’articolo che chiedete essere scritto da qualcuno che non è uno scrittore o un analista politico, ma uno scrittore di fiction, che da molti anni si tiene lontano da ogni forma di attività politica). Avremmo preferito il manoscritto respinto anziché le tessere di partito (abbandonato del resto nel 1956 senza troppi rimpianti) come partenza della sesta stazione, ma il gioco di rimandi intorno agli oggetti, come abbiamo detto, è in fondo più importante degli oggetti stessi.
La statuetta dell’osservatore è l’ultimo oggetto della collezione: un omino di ceramica con ombrello semiaperto puntato a terra e cannocchiale a scrutare l’orizzonte. La mostra lo usa come chiave del rapporto con Carlo Emilio Gadda, cui già nel 1963 Calvino dedicava un intervento per sostenerne la candidatura al Premio Internazionale degli Editori (che Gadda poi vinse), fino a scrivere, nel 1984, la prefazione alla traduzione inglese del Pasticciaccio: «La realtà del mondo si presenta ai nostri occhi multipla, spinosa, a strati fittamente sovrapposti. Come un carciofo». Due scrittori senz’altro agli antipodi, tanto alla ricerca della limpidezza Calvino quanto volontariamente e consapevolmente barocco Gadda, ma il primo seppe appropriarsi del secondo con un’abilità, una furbizia e un’intelligenza che gli fanno solo onore: costruendo un abbraccio con Gadda, Calvino diventava davvero quello scrittore totale che aveva sempre ambito ad essere, capace di comprendere sé e il proprio contrario, onnivoro e onnicomprensivo, tuttologo e onnipresente.
Sette oggetti che raccontano una vita e introducono alla letteratura. Famiglia, guerra, finzione, cultura pop, arte combinatoria, politica e sguardo sono le categorie concettuali nelle quali si potrebbero tradurre le sette stazioni (a integrare, volendo, l’eccellente guida Calvino A-Z, curata da Marco Belpoliti per Electa Edizioni, dove solo «guardare» intercetta le altre, ma tutte sono comunque comprese nell’effetto a raggiera che il libro produce), a conferma del fatto che il percorso materiale rispecchia ipotesi e proposte interpretative: più mappa che tragitto, nel tentativo di mettere Calvino al centro di un quadro in cui converge e da cui si dipana l’intero Novecento, per evitare tanto il biografismo eccessivo di un’epoca come la nostra che ha difficoltà a guardare oltre la persona quanto lo storicismo forsennato di chi pensa che tutto vada triturato nel calderone di uno sfondo fagocitante.
Alcuni nodi fondamentali (il rapporto col comunismo e il rapporto con Gadda sopra tutti) emergono come tratti distintivi di un’esperienza che è ancora tutta da indagare in termini di sviluppi ideologici e posizionamenti culturali, ma certo è che al centro della mostra c’è il Calvino uomo, la persona di Calvino, evitando i rischi del santino laico, dell’ipostatizzazione iconografica e della celebrazione idolatra (che sono i rischi di un centenario in un discorso pubblico come quello italiano immiserito dal bisogno di bandierine e senza capacità di sviluppare confronto).
Chi dovesse andare a vedere la mostra Favoloso Calvino alle Scuderie del Quirinale non dovrebbe lasciarsi sfuggire quest’altra: perché le due mostre sono effettivamente complementari, spettacolare, al cannocchiale, la prima e minuziosa, al microscopio, la seconda, come si addice alle rispettive sedi, ma anche più visuale la prima e più letteraria la seconda, come pure è appropriato sulla base dei luoghi espositivi. La mostra della Biblioteca Nazionale non si ferma tuttavia alle sette stazioni che abbiamo delineato: continua all’interno, nel corridoio della biblioteca, con le tavole illustrative di Sergio Tofano per Marcovaldo e, in fondo al percorso della biblioteca stessa, con l’allestimento fedele dello studio di Calvino in via Campo Marzio 5. Si entra davvero a casa di Calvino, alla fine della mostra (e qui è l’elemento spettacolare, in the end): un luogo affascinante per la sua potenza evocativa e fondamentale per obiettivi di ricostruzione culturale. Resterà permanente, per consentire a curiosi e studiosi di entrare nella sua officina di lavoro – coerentemente con la missione della biblioteca, che non conserva solo i libri ma li dispone anche nello spazio, sulle scrivanie e nelle stanze dei grandi scrittori del Novecento italiano.
Certo si potevano pure scegliere altri oggetti; oppure si sarebbe potuto procedere per azioni. Ma la forza della mostra sta nell’incompiuto, perché le tessere del puzzle non devono sempre combaciare e a volte può essere persino più divertente forzarne gli incastri. Allo stesso modo si potrebbe senz’altro dire che mancano tanti pezzi al montaggio di Calvino; ma gran parte del fascino della mostra si deve proprio alla sua capacità di proporre anziché voler dire tutto, lasciando aperto lo spazio della ricostruzione e pure dell’invenzione da parte dello spettatore. Forse non sappiamo molto di più di quello che già sapevamo, ma possiamo leggere il noto in modo nuovo, risistemarlo e reinterpretarlo. Calvino sfugge, si nasconde, si rannicchia, fa la conchiglia, come ha scritto Domenico Scarpa: è inafferrabile e non deve essere afferrato.
Pezzo ripreso dal sito LEPAROLELECOSE
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