10 gennaio 2024

L' OPERA DI SAMUEL BECKETT NEI MERIDIANI

 



SAM  L' EQUILIBRISTA

di Andrea Cortellessa

 

Quando Samuel Beckett torna in Francia dalla natia Irlanda (dove era andato a trovare la vecchia madre che a suo tempo lo aveva cacciato di casa) la guerra, sul Fronte Occidentale, è appena finita. Erano stati anni duri anche per lui. Nel ’41 l’amico Alfred Péron – col quale s’era esercitato a tradurre Anna Livia Plurabelle del maestro Joyce – lo aveva convinto ad aderire a una cellula della Resistenza, «Gloria SMH», fondata dalla figlia di Francis Picabia, per la quale aveva fatto il traduttore e decrittatore di documenti microfilmati; l’anno dopo però un prete cattolico, spia dell’Abwehr, fa catturare Péron (che morirà al rientro da Mauthausen). Sam e Suzanne fanno appena in tempo a scappare da Parigi e rifugiarsi in Valchiusa, dove lui alterna la scrittura di Watt (destinato a restare il suo ultimo romanzo in inglese) al lavoro nei campi, non senza dare ancora una mano ai maquis nascondendo in casa armi ed esplosivi. Nell’agosto del ’45 arriva a Saint Lô, dove un anno prima s’erano concentrati i combattimenti fra americani e tedeschi dopo lo sbarco in Normandia: è la capitale delle rovine (come Beckett intitolerà un reportage mai trasmesso dalla radio irlandese alla quale lo aveva destinato, e pubblicato solo quarant’anni dopo; in italiano è uscito nel 2011 sulla rivista «Il Reportage», poi ripreso da «doppiozero») quella in cui si aggira per mesi, facendo ancora il traduttore ma anche il furiere, nell’ospedale da campo allestito alla meglio, e poi l’autista di ambulanze. In una casa di cui restano in piedi solo le mura è sopravvissuto un vecchio piano Pleyel, col quale intrattiene i compagni suonando a memoria un po’ di Chopin e Mozart (di questa scena si ricorderà il Polanski del Pianista). Nella città rasa al suolo, Beckett ha «la visione e il senso immemorabile d’un concetto d’umanità in rovina» e dei «termini entro cui dovrebbe essere ripensata la nostra condizione umana». Dopo, davvero, niente più sarà lo stesso.

 

Non si può non pensare al paesaggio “spopolato”, grigio di ceneri, che contemplerà Clov dalla feritoia di Finale di partita (Hamm è cieco ma sa che «fuori di qui, è la morte»): un mondo, come scrisse Adorno nel ’61, dove «la fine del mondo è scontata» e dove, commenta Gabriele Frasca, si è «sopravvissuti» non solo «al passato […], ma finanche al futuro». Certo immagini del trauma storico se le portava dietro, Beckett, sin dall’infanzia: quelle dell’ospedale militare di Cooldrinagh, vicino alla casa di famiglia a Dublino, affollato di feriti della Grande Guerra; e poi la rivolta degli indipendentisti nella Pasqua del ’16, soffocata nel sangue dagli inglesi coi nuovissimi carri armati che da quelle stesse trincee provenivano (la ricorda anche W. B. Yeats, il cui fratello pittore resterà sempre fra i più cari amici di Beckett). Alla tragedia del nazionalismo, del totalitarismo e della guerra di sterminio succederà la farsa dello «spopolatoio» massmediatico, della medesima sostanza in cui sarà immersa la blaterante Winnie di Giorni felici: tutto rinvia al «residuo» al quale, per dirla con Adorno, s’è ridotta «la Storia» (nel ’51 anche il Gadda dei Viaggi la morte parlerà del «residuo fecale della storia»).

 

Nel suo primo libro, la monografia su Proust pubblicata a venticinque anni nel ’31, aveva usato una curiosa parola italiana, «disfazione», che – ha mostrato di recente Giancarlo Alfano – era tratta dagli scritti di Leonardo (Paul Valéry, che li aveva imposti alla cultura novecentesca, traduceva «anéantissement»): per alludere alla «pura essenza» dell’io profondo, come lo chiamava appunto Proust, «disfatta» nello sperpero esistenziale di «un’avidità onnicomprensiva». È questa «perla» segreta, sepolta nel profondo di ciascuno di noi, che nella scrittura deve sprigionarsi disperdendo «la nostra corazza di paccottiglia e peltro». Più esattamente, «disfazione» era per Leonardo il desiderio di futuro dell’uomo («sempre con festa aspetta la nuova primavera, sempre la nuova state»): dunque per Beckett, se il nostro anelito alla vita (nuovi incontri, nuove attività, nuovi obiettivi) disfa la nostra essenza più profonda, nostro compito dev’essere di contro disfare quel desiderio vano. La negazione del «funesto principio del piacere», predicata da Moran in Molloy, è la morale di Leopardi e di Schopenhauer: due autori che Beckett conosce bene (e cita infatti nel Proust). Se ne ricorderà quando eleggerà a proprio avatar il liutaio Belacqua, che nel IV del Purgatorio è seduto in terra con le ginocchia fra le braccia, e così si rivolge a Dante: «O frate, andar in sù che porta?» (la postura – trovata in una delle illustrazioni di Botticelli alla Commedia – sarà ripresa dall’Estragon di Aspettando Godot; ma Belacqua si chiamava già il protagonista di Dante e l’aragosta, uno dei racconti di Più pene che pane, esordio narrativo del ’34; e Belacqua firmava talvolta, Beckett, le sue lettere). Condannato per la sua acedia dal sistema di valori medievale, per lui invece (che l’amante Peggy Guggenheim soprannominerà «Oblomov») è un maestro di vita.

 

Quella di Schopenhauer era stata la sua lettura-chiave durante un’altra esperienza fondamentale, il lungo viaggio nella Germania hitleriana dall’autunno del ’36 alla primavera del ’37. Tornato a casa, scrive in tedesco all’amico Axel Kaun la sua lettera più famosa (la pubblicherà lui stesso, nell’83, nel volume Disiecta – in italiano curato da Aldo Tagliaferri per Egea nel ’91 – dove resta relegata la sua fondamentale produzione saggistica): quella in cui professa una «letteratura della non-parola», che nella lingua «scava […] un buco dopo l’altro finché ciò che vi sta acquattato dietro, che sia qualcosa oppure niente, non comincia a filtrare», facendo avvertire «il sussurro della musica finale o del silenzio alla base di tutto».

C’è questa idea alla base dell’abbandono, doloroso ma necessario, del magistero in progress di Joyce («work in regress» definirà il suo, com’è noto, Beckett): che lo aveva guidato nelle prime prove narrative sino a Murphy (pubblicato nel ’38 ma scritto nel ’35-36). E sono del ’37 le prime poesie in francese: con le quali si comincia ad affrancare da quella «lingua orribile» che è l’inglese (così la definirà in una lettera del ’49, mentre sta scrivendo L’innominabile), ma insieme dalle ambagi di una soggettività personale che aduggia ancora i primi versi in inglese (quelli di Ossa d’eco, pubblicati nel ’35, che per il Manganelli della Letteratura come menzogna erano afflitti da un «rovinoso […] qualcosa da dire»).

 

Non è un caso, credo, che del necessario “taglio” operato da Gabriele Frasca (in un volume che sfiora le duemila pagine) abbiano fatto le spese anzitutto le poesie, appunto (da lui stesso curate in una bellissima edizione Einaudi nel ’99), insieme alle prove narrative, teatrali e radiofoniche più brevi e frammentarie (e questa è, per lui e per noi, una rinuncia dolorosa). Fatti salvi Murphy e Watt (da lui tradotti, sempre per Einaudi, rispettivamente nel 2003 e nel ’98), è il Beckett francese, o meglio post-inglese, quello canonizzato dal suo maggiore e più appassionato esperto: che allo studio e alla traduzione di questo maestro così riottoso, e così nutriente, si dedica ormai da quarant’anni. Insieme all’io (Not I s’intitola il microdramma del ’72, dove a parlare è solo una Bocca senza corpo: se ne ricorderà Cronenberg in Videodrome), sostituito da una «parola neutra che si parla da sola» (così Maurice Blanchot, nel ’53, definisce la voce dell’Innominabile), la disfazione del Beckett maturo s’indirizza contro la lingua-madre, che per Frasca non è solo lo strumento portato a perfezione, e consunzione, da Joyce ma, più alla radice, l’istituto fondativo della «letteratura nazionale», sistema normativo politicamente vessatorio (e del quale l’Europa degli anni Trenta e Quaranta mostrava a giorno gli esiti catastrofici): in un «atto di Resistenza», una fuga dal monolinguismo che per Frasca accomuna Beckett a Gadda e a Nabokov, ma allo stesso Joyce di Finnegans Wake, testo a sua volta in questo senso “post-joyciano” (si veda il suo formidabile Gadda con Freud, Schrödinger e Joyce, da poco ripubblicato in forma ampliata con Luca Sossella).

 

Non è un caso che proprio nel ’46 Beckett decida una volta per tutte di abbracciare la «stylessness» (come la vagheggiava sin dal diario tedesco del ’37) resagli accessibile dal francese (anche se Frasca spende fra le pagine più originali, della sua fondamentale introduzione, a smentire la vulgata del francese degré zéro o “neutro” della Trilogia), e che il racconto emblematicamente intitolato La fine lo cominci in inglese per poi passare alla nuova lingua. Non si tratta infatti d’un semplice cambio d’abito: quello che Frasca chiama «equilinguista» è colui che di volta in volta comincia a scrivere in una lingua per passare all’altra, e poi tornare alla precedente nell’autotradursi: in un sistema a «doppio originale» che in realtà decostruisce il concetto stesso di “testo originale”. Il procedimento si fa ancora più complesso a teatro, dove entra in gioco pure il tedesco nel quale Beckett rivede in prima persona (e annota per la scena) le traduzioni dei suoi testi; più in generale è la pratica teatrale (dove a ogni spettacolo, specie se se ne assume lui stesso la regia, l’autore rivede il testo a volte sforbiciandolo pesantemente) a mostrargli non l’incompiutezza bensì l’interminabilità del processo di scrittura. Scegliere da quale lingua tradurre, allora, non comporta solo conseguenze sul piano dell’interpretazione, né può dipendere da mere questioni di gusto, ma si fa cruciale sul piano propriamente filologico (Frasca, che deve così ritradurre anche versioni storiche, ne dà conto nelle note sobrie ma puntuali che fanno, di questa, anche la prima edizione commentata del corpus). Sicché l’opera compiuta col «Meridiano» è – alla lettera – fondamentale: nel senso che la sua “lezione” – anche in senso ecdotico – si fa punto di partenza imprescindibile per qualsiasi lettura a venire.

 

La parte più acrobatica del libro nonché la più “nuova” per chi conosca il Beckett più canonico, quello premiato col Nobel del ’69 («catastrofe!», commenterà il condannato alla fama, come intitola la sua fondamentale biografia James Knowlson), è l’ultima, coi testi degli anni Settanta e Ottanta seguiti all’unico Film da lui realizzato, quello con Buster Keaton del ’65, contrassegnati dalla scoperta del medium televisivo (i fulminanti teledrammi memorabilmente commentati dall’ultimo Deleuze dell’Esausto). È il Beckett che finalmente eccede, anche in senso materiale, il “sistema-letteratura”, imponendo al curatore di rinviare a «un contenuto multimediale» la cui versione “autentica” è quella che «ciascuno può trovare in rete»: sicché il libro è un mero spartito di un’opera “aumentata” che si situa definitivamente Altrove. Ma è tutto l’ultimo Beckett (quello che, ormai oltre ogni genere, dà vita a un «arcigenere risonante»: così definisce Frasca quello di pagine vulneranti come CompagniaDondolaPeggio tutta o dell’emblematico titolo ultimo Qual è la parola) a reggersi in miracoloso equilibrismo sul nulla.

 

Da giovane era stato un atleta forsennato: per questo, a dispetto dell’ostentato silenzio, piuttosto popolare al Trinity College. Oltre che giocatore di cricket di alto livello, e occasionale ma discreto golfista e boxeur, era motociclista provetto; e a vent’anni fece un giro della valle della Loira in bicicletta. Di ciclismo si parla in Mercier e Camier (il primo romanzo scritto in francese, nel ’46, ma pubblicato solo nel ’70), ma già il Belacqua di Più pene che pane opta per un giro in bici in luogo dell’affair che gli prospetta una certa invitante Winnie (omonima della chiacchierona di Giorni felici…), e anche il protagonista di Molloy si strugge per un velocipede.

Quello su due ruote, par di capire, è per Beckett un falso movimento: proprio per questo, però, preferibile all’attivismo che vorrebbe sedurre i suoi recalcitranti Belacqua. Hugh Kenner ha riportato la notizia che una volta, quando gli venne chiesto il senso del nome Godot, menzionò un vecchio ciclista chiamato Godeau (un professionista francese di nome Roger Godeau, attivo dagli anni Quaranta ai primi Sessanta, è in effetti esistito; secondo alcuni Beckett, assistendo a una tappa del Tour de France, s’incuriosì perché, passato il gruppo, alcuni spettatori erano rimasti sul ciglio della strada; chiese chi stessero aspettando e loro avevano risposto «Godeau»).

 

Una delle ultime, risonanti prose di Beckett s’intitola Fremiti fermi, e in generale la sua scrittura pare dominata dallo stesso «manierismo» che Deleuze (nelle mirabolanti lezioni dell’81 Sur la peinture ora pubblicate da Minuit) attribuiva alla pittura di Francis Bacon (artista che spesso gli è stato accostato, anche se in effetti nell’88 declinò l’offerta di illustrare proprio Fremiti fermi): una «deformazione» sottile della figura (una sua disfazione) derivante dal suo essere percorsa da un’energia interna che non si traduce mai in un movimento vero e proprio (un fremito, o dondolìo, che per Deleuze appartiene ai sintomi dell’isteria; e ci si ricorda delle visite di Beckett al manicomio di Bedlam, nel ’35, preziose nella stesura di Murphy).

La sempre più marcata dimensione figurale (e non, specifica Deleuze, “figurativa”) dell’ultimo Beckett è un connotato che per sua natura appartiene più alla pittura che alla scrittura; e il «delirio d’immobilità» (Montale lo aveva tradotto nel ’30) dei suoi personaggi è quello del ciclista impegnato nella pratica stremante del surplace: come i grandi velocisti del dopoguerra eroico che nei velodromi, per non partire in testa nella volata, erano capaci di restare immobili sulle due ruote, tremanti in un lago di sudore, per intere ore (in effetti non risulta che Godeau, più pistard che stradista, abbia mai preso parte al Tour, mentre pare che qualche “Sei Giorni” negli anni Cinquanta l’abbia persino vinta …).

 

In equilibrio fra morbosa curiosità ed esplicito (quando non “isterico”) rifiuto, nei confronti di una lezione così ardua e verticale, è sempre stata a sua volta un po’ tutta la nostra cultura letteraria. Di qui anche la contraddittoria situazione editoriale della quale parla Frasca introducendo al «Meridiano» che finalmente ne fa giustizia. In occasione del centenario del 2006 (nel doppio volume Tegole dal cielo) aveva raccontato Gianni Celati (cioè uno dei discepoli più sinceri di quella che chiama la «riduzione al silenzio» operata da Beckett della «verbigerazione pubblicitaria alla quale siamo sottomessi») che la sua prima edizione inglese di Molloy gli era «caduta in un fosso di Cambridge e dopo s’era disfatta». Ed è vero che forse solo disfacendolo, Beckett, lo si può seguire davvero. Mario Lavagetto ha fatto notare il lapsus eloquente in cui era incorso il Calvino che nelle Lezioni americane, riassumendo uno degli ultimi drammi, Improvviso dell’Ohio, s’era attaccato alla sua clausola «Little is left to tell». Solo che in quelle pagine incompiute Calvino cita a memoria e Beckett aveva scritto, invece, «Nothing is left to tell». Anche lui, per poter «continuare» a dispetto di tutto, aveva dovuto ritrarsi dal fondo di sé: quel buio conclusivo che è la rovina di tutte le cose. E con ogni probabilità se lo sentiamo fratello (anziché padre totemico quale, a suo disdoro, resta Joyce) è perché lo stesso, arrivati a un certo punto, sentiamo di dover fare tutti noi.

 

Samuel Beckett, Romanzi, teatro e televisione, a cura di Gabriele Frasca, Mondadori, 2023, 1940 pp., € 80

 

Una versione più breve di questo articolo è uscita sul «Corriere della Sera»

 

[Immagine: Samuel Beckett, Parigi, aprile 1979. Photograph by Richard Avedon. © The Richard Avedon Foundation.]

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