25 gennaio 2024

SPERANZA COME STRUMENTO DI LOTTA AL CINEMA





FOGLIE AL VENTO, SPERANZA COME STRUMENTO DI LOTTA

di Alice Sagrati

Una donna, Ansa, e un uomo, Holappa, sono due proletari di mezz’età che tirano a campare. Soli, spersi, ma non per questo incapaci di osservare ciò che li circonda e di coglierne gli interstizi, le contraddizioni, la dolcezza agre.

Una storia d’amore che si costruisce in rapporto al caso, quasi fosse un terzo personaggio della pellicola, demiurgo inconsapevole. I due amanti si conoscono, si perdono, si incontrano di nuovo, si perdono ancora, in un continuo flusso in cui non smettono mai di cercarsi e di provarci ancora.

Foglie al vento di Aki Kaurismaki, premio della giuria al Festival di Cannes 2023, racconta una precarietà lavorativa ed emozionale. Fuori dalle direttrici del genere e del reale, siamo immersi in una Finlandia che non è né presente, né passato, né futuro. Lo capiamo perché non ci sono televisioni, non ci sono smartphone, il jukebox suona nei pub, ma il calendario segna il 2024. In ottanta minuti, minutaggio raro per un film contemporaneo, Kaurismaki riesce a scrivere un’opera che viaggia su più livelli, una storia d’amore sì, ma soprattutto una storia proletaria: i due protagonisti vengono entrambi licenziati dai rispettivi lavori, lei perché ruba alcuni prodotti scaduti che sarebbero comunque andati nel cestino, lui perché ha un problema di alcolismo. Due amanti di Chagall, immersi in un film di Ken Loach.

La lente attraverso cui Kaurismaki racconta questo amore è quella della speranza, filo conduttore che accompagna la loro storia, fino alla fine, quando lui è in ospedale in coma e lei lo va a trovare per la prima volta. Dopo un iniziale momento di imbarazzo, non sapendo bene cosa dire a Holappa, le esce fuori che la Finlandia si è qualificata ai Mondiali di calcio. Lei riesce a tessere una piccola narrazione parallela, come una sorta di profezia ottimista autoavverante, che anche se non fa vincere il campionato di calcio, fa svegliare Holippa dal coma e li fa ricongiungere ancora una volta.

Il filo della speranza non solo libera i due protagonisti dall’andatura complessa della propria vita ma diventa uno strumento di resistenza anche per chi lo guarda. La speranza attraverso cui i protagonisti si muovono può sembrare ingenua, quasi atavica: i due s’innamorano come bambini, guardano l’altro come se vedessero per la prima volta qualcosa di bello, ma è una visione che può farsi strumento, un esercizio quotidiano di cui dovremmo riappropriarci tutti. La speranza come dispositivo di lotta, che possa liberarci da questo eterno presente di precarietà lavorativa, instabilità relazionale e dipendenze.

In tutto il film s’insinua il tema della cura dell’altro, di un senso di collettività come lotta alla sopravvivenza e ai soprusi: quando Ansa viene licenziata su due piedi nel supermercato in cui lavora, le sue due colleghe, solidali, tirano fuori dalle borse i prodotti che hanno rubato anche loro e si fanno licenziare; quando Holappa è in ospedale, dopo che un tram l’ha investito, un’infermiera gli regala dei vestiti puliti; Ansa salva un cane randagio dalla soppressione e lo chiama Chaplin.

Chaplin e il suo cinema di cura disinteressata come nel celeberrimo Le luci della città, nel quale il protagonista, poverissimo e costretto a vivere per strada, riesce a mettere da parte una quantità ingente di soldi per far riacquistare la vista a una fioraia di cui s’innamora. Foglie al vento più che un film citazionista è una lettera d’amore per il cinema, intriso di cinema nella forma in cui si mostra, il regista ha una visione precisa, sapientemente minimalista ma con ritmi cadenzati, che ti lasciano respirare e indagare lo spazio in cui i personaggi si muovono. E il cinema è ovviamente nelle locandine dei film che appaiono nei locali che frequentano Ansa e Holappa: Ozu, Godard, Lean, Rocco e i suoi fratelli. Kaurismaki ci trasporta in un mondo in cui il cinema è ovunque, materia viva che non puoi ignorare. Anche qui mi sembra esserci una speranza: che il proletario possa accompagnare la sua ennesima birra con la bellezza di un’immagine della nouvelle vague, sia che il cinema possa essere ancora parte integrante della città e dei suoi abitanti. Non è un caso che il primo appuntamento tra i due è proprio in una sala cinematografica, la pellicola che vanno a vedere è I morti non muoiono di Jim Jarmusch. Il cinema sembra essere un luogo frequentato, e non solo da una piccola élite culturale, si mostra come un luogo vivo e vegeto, che respira, un piccolo augurio in un panorama che è sempre narrato come irrimediabilmente desolante.

Kaurismaki attraverso un film-scorcio, in cui non dobbiamo sapere tutto, né da dove vengono i nostri personaggi né dove vogliono arrivare, costruisce una narrazione che non spiega ma mostra.

Sembra incredibile dover far risaltare un film per la sua capacità di non essere didascalico, ma nella distensione contemporanea in un cui i personaggi devono diventare per forza i nostri migliori amici, in un momento in cui empatizzare con ciò che vediamo sembra essere l’unico modo per raccontare una storia, Kaurismaki ci ricorda che il cinema è altro e siamo noi a dover inserirci nei suoi tempi sospesi, nella sue divagazioni, nella sua forma quasi dispersiva. Come dice Alice Rohrwacher, regista del recentissimo La chimera, anch’esso in concorso a Cannes 2023, “non si deve entrare dappertutto, non devi entrare in un quadro di Giotto”. Kaurismaki come Rohrwacher, allora, sembra che riesca non a farmi rispecchiare in un personaggio, io non ci sono per fortuna, ma riesce a farmi calare in un immaginario ampio che mi accoglie, che mi cura, che mi dà speranza, un lenitivo che può essere strumento di lotta, sguardo critico sul mondo.

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