11 novembre 2014

ARTE PRIMITIVA



  I misteri della più antica forma di pittura figurativa rupestre. Trovato in Indonesia il disegno di una mano di 40.000 anni fa.

Roberta Scorranese

Il primo atto creativo dell’uomo
La rivista «Nature» ha dedicato alla scoperta il fascicolo numero 514, uscito il 9 ottobre 2014, a firma di Maxime Aubert e degli altri componenti della spedizione archeologica I saggi Tra i libri appena usciti sulla ricerca archeologica e paleo-antropologica, segnaliamo L’uomo di Neanderthal. Alla ricerca dei genomi perduti di Svante Pääbo, responsabile del dipartimento di Genetica evoluzionistica del Max Planck di Lipsia (Einaudi, traduzione di Daniele A. Gewurz, pagine 294, e 32)

Che cosa spinse un essere umano vissuto circa 40 mila anni fa ad appoggiare una mano sulle pareti della propria grotta e a segnarne i confini contornandoli di colore (forse sputato da una cannula), è un mistero che resiste alle ipotesi della scienza e alla curiosità degli appassionati d’arte.

Ma dal 9 ottobre scorso un importante mattone si aggiunge alla (ri)costruzione della cattedrale della preistoria: a Sulawesi, isola della Repubblica Indonesiana tra Borneo e Molucche, i ricercatori delle università di Wollongong, di Griffith (Australia) e del Centro nazionale di archeologia di Giacarta, hanno annunciato la datazione del più antico disegno figurativo rupestre raffigurante una mano. L’impronta di cinque dita semicancellata dal tempo che risale a 39.900 anni fa.

«È stata un’emozione fortissima», commenta l’archeologo Maxime Aubert, dell’Università di Griffith e a capo della spedizione nella zona di Maros, raggiunto da «la Lettura». Sì, perché questa datazione rimette in discussione il primato europeo delle scaturigini creative. «Finora — continua Aubert, canadese di Toronto — si credeva che le più antiche pitture rupestri fossero nel Vecchio Continente, in particolare nelle grotte spagnole di El Castillo. E in parte lo sono ancora. Ma le mani qui raffigurate hanno poco più di 37 mila anni, circa 2 mila in meno di quella che è affiorata in Indonesia».

A El Castillo c’è anche una sorta di deposito di calcite rossa, simile a una macchia a forma discoidale che ha 40.800 anni, ma sul suo carattere simbolico (legato all’arte) gli studiosi sono ancora divisi. Insomma, in Indonesia è stata trovata quella che forse è la prima forma di pittura figurativa della storia, «il più antico segno della creatività umana», come l’ha definito David Cyranoski nel presentare la ricerca sulla rivista «Nature» di ottobre, che ha ospitato l’articolo scientifico a firma degli studiosi autori della datazione. Aubert sottolinea: «Adesso c’è una nuova interpretazione del momento in cui l’uomo è diventato cognitivamente moderno ».

Ma c’è dell’altro. Nella stessa zona la spedizione ha datato anche alcune pitture che raffigurano animali, due grossi cinghiali primitivi che «risalgono — dice Aubert — a 35.400 anni fa. Potrebbero essere i più antichi al mondo nella loro tipologia figurativa, perché hanno più o meno la stessa età degli animali dipinti nella cava di Chauvet, in Francia; però la datazione di questi ultimi è molto controversa». Le cave esplorate nella missione erano conosciute sin dal 1950, ma le centinaia di pitture che qui riposano da millenni non erano ancora state datate e si pensava che fossero molto più recenti.

Il metodo di datazione si basa sull’analisi delle piccole concrezioni di roccia che si è depositata sopra le figure, usando il rapporto tra uranio e torio. Piccola nota, ma importante: l’analisi dunque è sulle formazioni calcaree, quindi le pitture sottostanti potrebbero essere ben più antiche. Anche per questo la ricerca pubblicata su «Nature» rimette in discussione molte cose.

«Innanzitutto, l’eurocentrismo con il quale, finora, abbiamo letto il cammino controverso dell’arte» osserva Alistair Pike, dell’Università di Southampton, autore della datazione di molte pitture rupestri in Spagna e non coinvolto in questo progetto. Già: la datazione di opere molto simili (impronte di mani e figure di animali) a una distanza di migliaia di chilometri, impone una riflessione.

«Ci sono diverse ipotesi — suggerisce Aubert — e una di queste è che le popolazioni che raggiunsero questa parte del mondo oltre 40 mila anni fa possedevano già un bagaglio culturale abbastanza complesso. È possibile che queste prove di “arte sulla roccia”, chiamiamole così, siano emerse in modo indipendente da due parti del mondo quasi opposte. Oppure possiamo arguire che le pitture rupestri fossero largamente diffuse presso i primi Homo Sapiens che lasciarono l’Africa millenni prima. Dunque, quelle meravigliose pitture, anche più recenti, che ammiriamo in Europa potrebbero avere una doppia origine: europea e indonesiana».
Ma che cosa simboleggiano queste figure? Le mani sono un topos ricorrente nelle grotte europee, come quelle di El Castillo e secondo alcuni studi potrebbero essere un segno di attaccamento originario a quel luogo specifico — curiosità: è probabile che siano state mani femminili. La rappresentazione di grossi animali pericolosi (come i babirusa , i cinghiali primitivi datati a Maros) può dar vita a centinaia di interpretazioni, da quella puramente illustrativa a quella, più profonda, legata al sistema di credenze diffuse tra quelle popolazioni. Certo, stilisticamente sono diversi: quelli indonesiani sembrano fatti con colore distribuito a puntini, quelli europei hanno tratti più lineari.

Rodolfo Coccioni, presidente della Società paleontologica italiana, preferisce non sbilanciarsi: «Difficilissimo dire che cosa rappresentava il simbolo 40 mila anni fa. Più interessante allora cercare di capire chi fossero questi esseri umani che si erano stabiliti in quelle zone. Sono stati gli stessi che si erano mossi dall’Africa? E quanto era “pesante” il loro bagaglio di conoscenze?». È questo uno dei nodi più affascinanti.

Alla luce di una serie di scoperte avvenute di recente, pare che anche la specie umana vissuta nel Paleolitico medio (tra i 200 mila e i 40 mila anni fa) fosse capace di pensare per simboli o almeno secondo quel che noi oggi intendiamo per simbolo . Basti pensare alle incisioni su roccia simili all’arte astratta rinvenute mesi fa in una grotta nei pressi di Gibilterra, che pare siano state opera di ominidi vissuti 40 mila anni fa. Oppure, cosa ancora più sorprendente, si pensi alla scoperta avvenuta nel 2005 a opera di ricercatori dell’università di Tubinga: in una caverna nei pressi di Vogelherd (Germania), hanno trovato un flauto vecchio di 35 mila anni, ricavato dall’osso di un avvoltoio. Non molto distante da questo sito, nel 2008, altri ricercatori hanno rinvenuto una scultura femminile in avorio di mammut, databile tra i 31 mila e i 39 mila anni fa.

Più complicato è stabilire quale valenza concettuale avessero questi manufatti o molti altri rinvenuti, come le meravigliose pitture policrome delle grotte di Altamira, in Spagna (a partire da 16 mila anni fa); o le tavolette in pietra con pitture di animali di 28 mila anni fa ritrovate in Namibia; o le statuette femminili nei dintorni del lago Baikal, in Siberia, e datate circa 34 millenni fa.

L’archeologo fiorentino Emmanuel Anati ha azzardato un’ipotesi affascinante: quando questi uomini si spostavano, portavano con sé anche un piccolo patrimonio di conoscenze e tra queste la capacità di esprimersi con le figure, come se esistessero «analogie tra le esigenze dell’uomo di esplorare il territorio e quella di esplorare dentro di sé, di farsi domande». Come se la cultura nascesse con l’esperienza di altri luoghi e persone. Con l’apertura all’«altro da sé».

«La scoperta indonesiana — conclude Coccioni — apre prospettive interessantissime. Adesso si dovrebbe continuare a esplorare quella zona e le terre vicine». E Aubert conferma: «Ci aspettiamo altre datazioni sorprendenti. Finora abbiamo datato dodici impronte di mano (che risalgono a circa 20 mila anni fa, ndr ) e due pitture di animali. È poco».

E molti studiosi indicano l’India — sulla rotta tra l’Africa e l’Indonesia — come prossima sorgente di novità provenienti dal passato.


Il Corriere della sera – 2 novembre 2014

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