12 novembre 2014

I GAP: PARTIGIANI OLTRE IL MITO






Ancora nel 1944 in piena guerra Vittorini gli aveva dedicato il suo romanzo Uomini e no. Poi solo celebrazioni retoriche e tanti silenzi. Oggi un saggio, in uscita per Einaudi, tenta una ricostruzione non ideologica della guerra dei Gap, l'apparato militare partigiano operante nelle città. Finalmente non si nasconde più il carattere terroristico di quella lotta. Gli esponenti della lotta armata negli anni '70 si rifecero esplicitamente a quell'esperienza (il libro di Pesce, Senza tregua, divenne un manuale operativo) e analogie ci furono anche nella risposta dello Stato, come l'uso (sempre negato e ora finalmente ammesso da parte di alcuni ex funzionari) della tortura negli interrogatori degli arrestati.

Simonetta Fiori

Storia dei Gap partigiani oltre il mito e l’ortodossia
Ce li avevano raccontati come eroi granitici, l’avanguardia della lotta partigiana, guerriglieri pronti a sparare a sangue freddo. Una nuova ricerca restituisce uomini e donne dei Gap alla tempesta sentimentale e morale che attraversò le loro vite, alle incertezze, agli errori, alle goffaggini, ai comprensibili cedimenti e anche ai tradimenti che ne correggono la mitografia resistenziale. Né santi ma neppure demoni sfigurati dall’anti- antifascismo in voga negli ultimi decenni. In Storie dei Gap, il primo tentativo di ricostruire le vicende dei Gruppi di Azione Patriottica, Santo Peli evita sia l’enfasi celebrativa che la deprecazione strumentale.

Perché abbiamo aspettato settant’anni per leggere una ricostruzione storica il più possibile completa? Quella dei Gap è sempre stata percepita come “un’altra storia” rispetto all’esperienza partigiana, sia per l’ortodossia comunista dei suoi militanti sia per la specificità delle azioni: guerriglia in città, che poi significa uccisioni visàvis e attentati dinamitardi in ristoranti, caffè e bordelli frequentati dai nazifascisti. Modalità classicamente terroristiche, che avevano lo scopo di portare scompiglio nelle città del Centro-Nord occupate dai nazisti nell’autunno del 1943.

Per un paio di decenni, nel dopoguerra, si preferì rimuovere un argomento percepito come spinoso. Il silenzio durò fino ai primi anni Settanta, quando proprio nel circuito culturale degli istituti resistenziali cominciarono ad apparire le prime ricerche. Ma fu allora che irruppero sulla scena le Brigate Rosse e varie sigle terroristiche che rivendicavano assurdamente perfino nel nome una continuità politica e culturale con gli antichi liberatori. A queste farneticanti genealogie, nota Santo Peli, si sarebbe dovuto rispondere con ricerche storiche rigorose. Prevalse invece la rimozione, interrotta in modo frammentario dalla memorialistica dei protagonisti.

Nella sua accurata e partecipe ricostruzione, lo storico non sfugge alle domande più insidiose, a cominciare dal nesso attentato e rappresaglia. Chi sono i gappisti, eroici giustizieri o irresponsabili provocatori della violenza nazista? E le rappresaglie naziste sono soltanto conseguenze o obiettivo consapevolmente perseguito dai Gap? La risposta dello studioso è che la rappresaglia fu sì un obiettivo, «un elemento dolorosamente utile », ma solo nelle primissime azioni (fino alla fine del 1943), quando si trattava di rivelare nelle città del Centro-Nord il vero volto dell’occupazione.

Una “pedagogia impietosa” che però non può essere estesa all’intera vicenda dei Gap, se non con un intento criminalizzante. E la rappresaglia delle Fosse Ardeatine, il 24 marzo del 1944, è la dimostrazione più nitida della feroce determinazione tedesca indipendente dall’attentato gappista.
Il problema del consenso della popolazione si pose fin dal principio, dall’assassinio di Gino Gobbi, comandante del distretto militare a Firenze, il primo dicembre del 1943. Gobbi viene ucciso mentre fa rientro a casa in tram: è solo, disarmato, senza scorta. I fiorentini reagiscono tra stupore, timore per le conseguenze, anche speranza. Alla condanna dei “deplorevoli eccessi” da parte del cardinal Elia Dalla Costa replica il dirigente azionista Enzo Enriquez Agnoletti: «Lei non può Eminenza, che in questo momento uomini nostri fratelli subiscono torture che fanno vergogna all’umanità». Insomma, niente ipocrisie: la guerra incalza.

Il dibattito sull’opportunità e sulle conseguenze degli attentati fu molto vivace non solo all’interno del Comitato di Liberazione Nazionale, ma anche nella stessa base del Pci. La “paura fisica” e le “perplessità morali” non erano una prerogativa degli altri partiti antifascisti. La Direzione comunista faticò moltissimo a organizzare i Gap, per lo più giovani e giovanissimi senza carichi famigliari. E i risultati del reclutamento furono di gran lunga inferiori alle aspettative. Nel tardo autunno del 1943 gli autori degli attentati non arrivarono a un centinaio di persone. Influivano non solo le avverse condizioni della lotta in città — isolamento, clandestinità, azioni ad alto rischio — ma anche le remore morali legate all’uccisione di un uomo. «Questo qua vuole farci ammazzare la gente. Ma è pazzo?», reagisce un operaio di Brescia alla richiesta del compagno “Zolfataro”. Sono tanti quelli che non riescono a sparare, la pistola che scivola dalla mano sudata, il tremore del corpo che ne trattiene il gesto. A Roma come a Milano, a Torino come a Firenze.

Il gruppo dirigente del Pci reagisce con stizza e meraviglia. Piovono accuse di incapacità e “attendismo” contro i compagni, perfino di “tradimento”. A Sant’Arcangelo e a Cattolica si arriva all’espulsione. Solo diversi anni più tardi, Pietro Secchia avrebbe riconosciuto che la volontà di uccidere — per di più in attacco, senza la necessità di difendersi — è estranea alla formazione, alla cultura e alle tradizioni operaie. «È difficile uccidere a sangue freddo un uomo che non si conosce », si sfoga con Giorgio Amendola un compagno paralizzato davanti a un bersaglio tedesco. E ancora, il gappista Uragano: «È vero, sono dei delinquenti, però non ho l’animo di farli fuori». Anche il soldato nazista è un essere umano, «vittima di un sistema e dunque degno di pietà».Affiora l’immagine delle loro mogli, dei bambini biondi che li aspettano a casa. 
Alla remora morale s’aggiunge il timore di restare “intrappolati”. E più della morte fa paura la tortura, soprattutto il dubbio di non saper resistere. Questo è un altro capitolo scivoloso, oscurato dalla mitografia comunista. In realtà a resistere furono in pochi. Uomini e donne straordinari, che subirono in silenzio sevizie di ogni genere. Soprattutto le donne, le staffette, esposte ancora più dei compagni all’abuso sessuale del corpo. Ma una gran parte dei gappisti torturati parlò, perché è nell’umana natura cedere all’acqua bollente in gola o alle trapanature sulla pelle. Le cadute a catena che devastarono il movimento — ci dice Peli — furono provocate da confessioni estorte.

Alcuni prigionieri trovarono salvezza nel suicidio, più uomini che donne. Altri cercarono di resistere finché poterono, come Francesco Valentino, che sopportò a Torino le sevizie per 24 ore, per dare il tempo di fuggire al suo compagno Dante Di Nanni: questi però non lasciò il covo, pensando che Valentino fosse morto e non potesse più parlare, e catturato dai tedeschi si sarebbe gettato dal balcone in un’azione diventata poi leggenda. Scoperto il “cedimento” di Valentino, peraltro morto impiccato per mano repubblichina, il Pci non esitò a espungerlo dalla storia partigiana. Parlare sotto tortura sarebbe stata per svariati decenni una colpa inammissibile. Uno stigma vergognoso. O eroi o niente. E per chi non è un martire non c’è memoria.


Se c’è un filo che attraversa queste storie è proprio la distanza tra la rigidità ideologica del vertice comunista e la disordinata generosità dei combattenti che spesso sono lasciati soli e dunque più esposti a errori grossolani. Anche quello della clandestinità è un mito da rivedere. Ovunque i gappisti appartengono ad ambienti sociali omogenei — operai a Milano e Torino, intellettuali a Roma — , fanno vita di quartiere tra San Frediano a Firenze, Sesto San Giovanni a Milano, il centro storico a Roma.

E spesso ci si conosce fin dall’infanzia. Le regole classiche della cospirazione si infrangono contro consolidati rituali famigliari, anche per la mancanza di sostegni finanziari e logistici che il Pci non è in grado di garantire. Qui si inserisce l’altra delicata questione che riguarda gli «espropri» o i «recuperi» per i finanziamenti. Tra l’esproprio per necessità e la delinquenza a scopo di lucro s’estende una vasta terra di nessuno su cui lo storico non è in grado di fare luce: il confine può risultare labile, anche perché tra gli arruolati figuravano elementi assai poco raccomandabili.

Il tema sarebbe stato omesso della storiografia che non ha mai parlato neppure dell’epica rapina agli uffici della stazione di Santa Maria Novella, il 17 giugno del 1944. Trentatré milioni di lire, una cifra da capogiro. Per ciascun membro dei Gap significa una bicicletta, un orologio e un vestito nuovi. Ma non era più l’epoca degli agguati in bici. La repressione nazista richiedeva ben altri mezzi, la stagione eroica dei Gap ormai alle spalle.
La Repubblica – 11 novembre 2014


Santo Peli
Storie di Gap. Terrorismo urbano e Resistenza
Einaudi, 2014
euro 30

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