1981, Mattia Sbragia è Antonio Gramsci nello sceneggiato Rai diretto da Raffaele Maiello, scritto da Suso Cecchi D’Amico, Silvia D’Amico Bendico e Giuseppe Fiori.
“La maschera è la patina superficiale del costume, della moda, dello snob...”
Così Gramsci nella recensione de “La maschera e il volto”, sulle pagine torinesi dell’”Avanti!”, l’11 aprile 1917.
La commedia di Luigi Chiarelli è una rivoluzione perché segna la nascita del teatro grottesco. Debutta con uno strepitoso successo, all’”Argentina” di Roma, il 29 maggio 1916.
Sono preziosi due libri: “Il teatro in rivolta” di Gigi Livio ( Mursia,1976 ) e “Gramsci e il teatro” di Guido Davico Bonino ( Einaudi, 1972).
Livio racconta come un geniale capocomico, Virgilio Talli, fosse consapevole di quella “svolta decisiva nel cammino della nostra letteratura drammatica”. Davico Bonino traccia il percorso, le intuizioni di Gramsci critico teatrale. E per Gramsci il lavoro di Chiarelli e Talli travolge “molte banalità, molti luoghi comuni, molte affermazioni del senso comune più comune”.
Travolge, per dirla con Livio, “l’eterno triangolo, l’ossessivo “ménage à trois” della commedia naturalistico-borghese”. E così vengono demoliti vecchi schemi, sentimenti insinceri, intrecci rassicuranti in cui il pubblico ama rispecchiarsi. Si affonda “senza pietà il bisturi nella piaga per mettere in bella evidenza la putredine.” Il ribaltamento è completato da Pirandello col “Giuoco delle parti”, in scena a Roma nel dicembre 1918 e a Milano nel febbraio 1919.
1919-2022, più di cent’anni. La questione è la stessa: un linguaggio nuovo per scardinare roba vecchia, ammuffita, magari spacciata per “cambiamento”. Un linguaggio che per Gramsci “è come una campana di cristallo”, che rivela il volto beffardo dietro la maschera ubbidiente.
Attilio Gatto
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