14 luglio 2023

ANCORA SU MILAN KUNDERA

 


Milan Kundera, 1929-2023

«Il vocabolario definisce il riso una reazione “provocata da qualcosa di piacevole o di comico”. Ma è vero? Dall’Idiota di Dostoevskij si potrebbe trarre un’intera antologia di diversi modi di ridere. Cosa strana, i personaggi che ridono di più non hanno un gran senso dell’umorismo, anzi sono proprio quelli che non ne hanno affatto».
Milan Kundera, La comica assenza di comicità, in Un Incontro, Adelphi, 2008.

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«Kundera non sopportava i gerghi, le teorie. Non si capacitava di come, soprattutto negli ultimi decenni, si fosse giunti ad accumulare montagne e montagne di testi critici illeggibili per la maggior parte delle persone. La «morale dell’essenziale» da circa quarant’anni era stata sostituita dalla «morale dell’archivio». Affermava che tutti possono leggere un romanzo. Non tutti possono scriverne. E ancora meno sono coloro che sono in grado di riconoscerne il valore estetico. Questo per dire che della critica aveva una grande considerazione. Prendiamo, ad esempio, il suo ultimo romanzo, La festa dell’insignificanza, pubblicato nel 2013. La critica francese e angloamericana non si può dire che l’abbiano accolto benissimo. Detto un po’ brutalmente: ai francesi il Kundera romanziere in lingua francese (La lentezza, L’identità e L’ignoranza) non è mai andato completamente a genio. Il suo francese non rientra nei loro canoni letterari che, per il romanzo, sono ancora quasi esclusivamente legati a Balzac e a Proust.» Massimo Rizzante, La Repubblica, 13.7.23

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«Confesso che da poco, per suggerimento di un amico, ho riletto Lo scherzo, il romanzo di esordio di Kundera. Che libro! Che voce! Che incredibile padronanza formale! Si tratta di uno degli indiscussi capolavori della letteratura mittleuropea del secondo dopoguerra».
Alessandro Piperno, Il Corriere della Sera, 13.7.23

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Molta filosofia e letteratura classica occidentali respirano implicitamente dentro il capolavoro kunderiano, che uscì nel 1984 riscuotendo un successo clamoroso. La particolare “leggerezza pesante” di Kundera ci catturò non solo come una trama bella e densa, ma come un modo di concepire la complessità di sfumature delle umane interazioni e di meditare sul senso dell’essere così come siamo, lanciati come cose inermi nella spirale divoratrice della Storia. Lo scrittore ceco, nella sua opera centrale, trasmette una verità perturbante: viviamo subendo il fatto che nulla di quanto ci riguarda può ripetersi in maniera identica. Il passaggio da un istante all’altro si declina in un presente ostinato e transeunte, che ci obbliga a percorrere i nostri giorni nella mancanza perenne di ciò che stiamo vivendo, poiché ogni momento scappa via nell’attimo stesso in cui ci siamo dentro.
Kundera riversa questo pensiero in un plot tempestoso e in quartetto polifonico di personaggi incorniciati dalla Primavera di Praga, cioè dal periodo in cui, nel ’68, Alexander Dubček provò a realizzare in Cecoslovacchia “un socialismo dal volto umano” (in agosto l’intervento militare sovietico mise fine all’impresa). Noi lettori vediamo agitarsi, nel ciclone degli eventi, due coppie di giovani con le loro tortuose disposizioni intellettuali e i loro livelli diversi di affettività, che vanno dalla pietas al libertinismo. Il narratore rappresenta il quinto tassello del paesaggio ed è una voce illuminante nello scrutare le circostanze individuali e collettive. Le gesta e i caratteri delle figure in campo lo sollecitano a formulare riflessioni su temi quali i nessi fra i destini, la difficoltà delle scelte e l’inesauribile aspirazione alla felicità. Da tale osservatorio inseguiamo le vicissitudini di Tomás, Tereza, Sabina e Franz, i quali si allacciano, si giudicano, si staccano e si ritrovano all’interno di scenari realistici. È quest’intreccio fra aspetti di cronaca e dimensioni metafisiche a sancire la qualità dell’opera, il cui stile acrobatico di montaggio mescola squarci di spiritualità a notizie storiche, ad aneddoti e persino ad appunti fisiologici.
Se ipotizziamo una suddivisione, sommaria e grossolana, tra i due grandi filoni della letteratura ceca, vedremo che uno si basa su una vena popolaresca e paradossale, e vi appartengono per esempio Jaroslav Hašek e Bohumil Hrbal, mentre un altro è più intellettuale, psicologico e introspettivo, e lo domina l’incomparabile gigante Franz Kafka. Con la sua profondità illusionistica e cerebrale, Kundera va inserito nel secondo gruppo. Kundera parla a lungo dell’amato Kafka in quel saggio meraviglioso e discontinuo che è I testamenti traditi (1993), dove lo spazio concesso al creatore della Metamorfosi è pari a quello attribuito al compositore ceco Leoš Janáček.» 
Leonetta Bentivoglio, La Repubblica, 13.7.23

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«Fu così che, molto lentamente, tornò alla sua arte. Nel 1979 uscì Il libro del riso e dell’oblio. Poi, nel 1980, si trasferì a Parigi e fu nominato professore all’École des Hautes Études en Sciences Sociales (posto che conservò fino al 1994). Quella decade fu una delle più importanti della sua carriera e sicuramente quella che ne decretò il successo mondiale. Uscirono L’insostenibile leggerezza dell’essere (1984), L’arte del romanzo (1986), L’immortalità (1990). Ma gli anni Ottanta non rappresentarono solo il momento di più alto riconoscimento della sua opera e di massima esposizione pubblica della sua persona (fu proprio a quell’epoca che decise di non concedere più interviste a giornali e riviste). Non contento delle traduzioni dei suoi romanzi in francese, «un po’ troppo fiorite e barocche», trascorse quattro anni, «come un monaco certosino», a rivederle parola per parola.
La pubblicazione de L’arte del romanzo fece conoscere il Kundera saggista e le sue idee sulla storia del romanzo europeo e i Tempi Moderni, nati non solo dal cogito cartesiano e dalla conoscenza matematica di Galileo, ma anche dai romanzi di Rabelais e di Cervantes, dove le molteplici verità «incarnate in una serie di io immaginari chiamati personaggi», si contraddicono, si relativizzano, facendo del romanzo un luogo essenzialmente ironico, ambiguo, privo di certezze definitive. Con entusiasmo propose al pubblico francese molti autori delle «piccole nazioni» dell’Europa centrale. Kundera non ha mai utilizzato la parola Mitteleuropa, che mette in primo piano la centralità di Vienna e della lingua tedesca rispetto alle altre capitali e alle altre lingue di quella regione. Ricordo che un giorno prese una carta geografica dell’Europa e ci mostrò, dopo aver ben misurato la latitudine e la longitudine, che al centro del vecchio continente c’era Praga, non Vienna! La cultura dell’Europa centrale è stato un continuo richiamo all’eredità europea comune.
Per mezzo secolo, a causa del loro accecamento ideologico, le «grandi nazioni» non lo hanno saputo ascoltare. Quando l’Europa si è finalmente riconosciuta nello specchio di questa regione, «che malgrado tutto non è l’Asia», era ormai troppo tardi. È considerandola infatti un fenomeno storico e letterario del passato che, negli anni Ottanta del XX secolo, gli intellettuali che appartengono alle grandi nazioni civilizzatrici dell’Europa presero coscienza della cultura dell’Europa centrale. Nel momento in cui, come scrisse Milan Kundera nel 1983, cessava di sentire «la propria unità come unità culturale», l’Europa provò improvvisamente nostalgia di ciò che aveva perduto: la cultura dell’Europa centrale non era ormai che nostalgia per la cultura tout court. Sempre alla fine degli anni Ottanta, all’interno del suo Seminario sul Romanzo Europeo, si posero le basi per la nascita della rivista letteraria L’Atelier du roman (1993), fucina di romanzieri e critici letterari di tutto il mondo, luogo di vita letteraria e palestra di interrogazioni costanti sui valori estetici del passato e del presente.»
Massimo Rizzante, Doppiozero, 13.7.2023

– «Nel Quarto Congresso degli scrittori del 1967 la relazione di Kundera non manda a dire che la decadenza della letteratura cecoslovacca è dovuta all’atmosfera asfissiante dello stalinismo esportato da Mosca e accolto con festante devozione dai cacicchi praghesi. Non era il solo, con lui altri splendidi mitomani proponevano un altro mondo possibile. Sullo scivolo della Storia si scorreva a velocità incredibile: un anno dopo gli atti del convegno erano pubblicati in centomila copie. Anni in cui a Praga, e non solo, il mercoledì sera e il giovedì mattina presto si formavano code infinite davanti alle librerie perché era il giorno di arrivo delle novità, poetiche e narrative.

UN NUGOLO di intellettuali di diversa formazione ed estrazione incide sulla storia concreta e non immaginifica, modifica il sentire di una parte consistente della popolazione, avvia una trasformazione che solo una frana di violenza riuscirà a fermare. Una rarità della Storia che tuttavia era stata preceduta nel 1963 da un convegno rivoluzionario su Franz Kafka. Non c’erano segnali della sua presenza nella città dove era nato ed aveva vissuto. Era uno scrittore preso da paturnie borghesi. Il convegno incrinava questo dogma cristallino. Kafka avrebbe cominciato a parlare ai suoi concittadini. Fino ad oggi, diventato gadget turistico.
Due anni dopo, Rossana Rossanda che allora dirigeva la sezione culturale del Pci, partecipa a Dobris ad un altro convegno tra intellettuali legati al movimento operaio dell’est e dell’ovest. Con lei ci sono Carlo Levi e Pier Paolo Pasolini con i quali fa «comunella». Lì raccontava di avere incontrato straordinarie figure «come Karel Kosik, Antonin Liehm, Mancko e forse Kundera». Che Rossana Rossanda deve avere reincontrato a Parigi, e infatti scriveva ricordando la stagione della Primavera di Praga preparata da un grande fermento intellettuale poi cancellato dai tank del Patto di Varsavia: «Altri si dibattono all’estero. Kundera non pensa al passato se non come derisorio, nello sperimentato e nello sperato; diversamente da altri non vuole fare il “testimone della patria martire”, è cosmopolita e sorridente e forse, e forse per questo inconfondibilmente ceco». –
Claudio Canal, Il Manifesto, 13.7.2023

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