26 marzo 2020

RIPORTIAMO A CASA I NOSTRI VECCHI




Ripropongo di seguito un bel pezzo di Concita De Gregorio, pubblicato oggi su LA REPUBBLICA, che dovrebbe far riflettere tanti. 

 Morire da soli
L’epidemia ci espropria anche del lutto il rito che ci rende umani
di Concita De Gregorio

Quando eravamo bambini, nell’altro secolo, si chiamavano ospizi. I ragazzi andavano in collegio e i vecchi all’ospizio quando e perché erano soli al mondo. Orfani, i ragazzi. Senza famiglia i vecchi — oppure, nei due casi: molto poveri. Facevano paura, i collegi e gli ospizi, ed erano nel lessico famigliare una minaccia o uno stigma. Ti mando in collegio. L’hanno messo all’ospizio. Quando eravamo bambini nessuna famiglia avrebbe messo un nonno all’ospizio se non fosse stato per una rovina improvvisa una sciagura, la miseria. Vergognandosene, in ogni caso, come di una disgrazia. Le case, nell’altro secolo, erano grandi come i cuori e semmai se ne andavano i nipoti, non i nonni. C’era più tempo, c’era chi lavorava solo a casa — le donne, di solito — o lavorava due volte: a casa e nei campi, a casa e in fabbrica, a casa e a scuola, solo di mattina. Le donne, ancora. Per qualcuno era meglio, per altri era peggio: era diverso, era così. Poi gli ospizi sono diventati “case di cura” o di “riposo” — il potere edilizio delle parole, che costruiscono la realtà — hanno messo i fiori alle finestre, la musica nelle sale comuni, gli infermieri sorridenti e grazie al denaro hanno smesso di fare paura. Non più cosa da poveri, i ricoveri migliori riservati ai più ricchi. Si sono chiamate Residenza Borromea, I Glicini e Villa Celeste, sono arrivati nelle case i depliant con le rette, sovente molto alte, del resto giustificate dal servizio offerto. Per la musica in camera un extra. Nell’alternativa fra pagare badanti e infermieri e trasferire i nonni in una “bellissima stanza” la soluzione migliore, diciamo così, la meno onerosa è diventata questa. Il miglior prezzo della nostra assenza.
A Mombretto di Mediglia, in provincia di Milano, di centocinquanta anziani ricoverati a “riposare” in Villa Borromea ne sono morti cinquantadue. A Mortegliano la casa di cura locale è diventata il maggior focolaio della provincia di Udine e del Friuli intero. Don Rafael Garcia, 89 anni, è fuggito dalla Residenza Loreto di Madrid (anche residenza è termine utile a mettere gli animi in maggior pace) quando ha capito che sei dei suoi compagni di corridoio erano morti. Ha chiesto a un infermiere, ha fatto la borsa in silenzio, è uscito a piedi.
Se qualcosa ci sta dicendo, in questo ridisegnarsi dell’ordine delle cose, che tornino a far paura i luoghi dove mettiamo i vecchi di cui non ci possiamo occupare — gli ospizi, le moderne case di cura trasformate ora in lazzaretti — è materia per fini analisti. Postuma la storia dirà. Nella cronaca, si legge, figli e nipoti di nonna Palmira protestano e minacciano ritorsioni per il fatto di non essere stati avvisati per tempo, al telefono, del pericolo che la generatrice dell’intera famiglia stava correndo. Essendo altrove, non sapevano. Nonna Palmira, o Cesira, o nonno Adelmo eppure avevano il telefonino. Potevano avvisare. Se non lo hanno fatto è perché non sono stati informati del pericolo per tempo — l’accusa. O forse non hanno chiamato perché non volevano preoccupare figli e nipoti così impegnati, può anche darsi, si immagini l’ipotesi: hanno da fare, non possono venire, non dica loro niente, infermiera. Sto bene.
Liliana Segre — tornata viva dai campi di concentramento a raccontarceli — ha detto che la paura più grande, oggi, è morire da soli. De Andrè cantava che quando si muore si muore da soli, ed è anche questo vero. Ciascuno di noi ha esperienza, se ha il privilegio di averla, di aver accompagnato oltre confine una persona amata che nell’ultimo respiro non ha detto il nome di chi gli teneva la mano, ha detto: mamma. Il rimpianto di non esserci, di non esserci stati in quel momento, è cosa dei vivi: il peggior rammarico. I morenti, nel varcare la soglia, succede che siano già con chi pensano di raggiungere — madre, moglie, figlio — di questo, speriamo, nel sospiro di quell’attimo lieti. Ma non sappiamo, immaginiamo.
La tragedia più grande, in questa grande tragedia, sono le morti solitarie. Decine, centinaia. I carri scortati dai militari. A Ferrara sono arrivate venti bare, ieri, da Bergamo: seppellite tutte insieme senza nessuno a salutare, con il Silenzio suonato dal megafono su base registrata nel deserto del cimitero monumentale. Chi erano, non sappiamo. Forni crematori con due settimane di lista d’attesa, i corpi nudi avvolti nelle lenzuola. Non poterli vestire. Non potergli mettere gli abiti che amavano, o che ci sembrano opportuni — i più propri per loro. In alcune tradizioni i morti si truccano. Tanoesteta, si chiama chi lo fa. In un film bellissimo e premiato, Departures, restituire al morto il volto che aveva da vivo è un rito indispensabile. Perché i morti sono irriconoscibili, se avete avuto il dono terribile di averne accompagnato uno lo sapete, privati dello sguardo siamo solo maschere di cera.
Il rito del funerale, anche questo ci manca. Perché nei funerali scorre davanti la vita intera. Che peccato non poterci essere da vivi: gli amici di quando eravamo ragazzi, la vecchissima maestra, gli amori amati e da un certo momento disamati, chissà perché. Chi siamo noi, senza il rito che ci consacri umani. E tutti, tutti conosciamo in questi giorni il dolore innominabile di non poter viaggiare a salutare l’immenso amico — Gianni, un calice di rosso superbo — il padre di un altro nella cui casa siamo cresciuti, il nostro. Franco Arminio, poeta, propone di dedicare cinque minuti alla celebrazione del lutto. Accanto ai canti dai balconi, che già un poco scemano nell’abbrivio della rabbia, cinque minuti a mezzogiorno di domenica 29 marzo: in tutte le case, un raccoglimento corale senza tv senza telefono senza computer, bello sarebbe che restasse in silenzio anche la tv — dice — che il governo sentisse il dovere di dire sì, facciamolo insieme. Per i funerali che non si possono celebrare, per i morti che non si possono seppellire, per loro che vanno — da soli, nudi — e per noi che restiamo. Anche, soli. In qualche modo nudi. Qualche anno fa, a Stromboli, durante una magnifica festa di teatro, ho visto un attore dire al pubblico venite a dirmi all’orecchio il nome dei vostri morti, li custodirò per voi. Era nel cimitero sulle pendici del vulcano, pieno di bambini e di vecchi uccisi dalla peste dell’altro secolo, quello in cui I Glicini non c’erano. Ho visto piangere lui, e tutti quelli che in fila andavano a dire al suo orecchio un nome. Dunque sì. Ci serve il rito. E’ indispensabile. Ci serve il teatro per celebrarlo. Usiamo i nostri balconi, in assenza di un palco: le nostre finestre. E diciamo al cielo, ciascuno, piano, quel nome. Domenica a mezzogiorno va bene, ma poi va bene sempre. Importante è farlo. Diamo un posto a tutto questo dolore, perché solo se glielo diamo insieme potremo sopportarlo. E chi scappa dagli ospizi, come don Rafael, speriamo che non incontri nessun posto di blocco. Riportiamo i nostri vecchi a casa, riprendiamoli — nel modo che si può. In ogni modo.
Concita De Gregorio
LA REPUBBLICA



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