30 settembre 2024

MUSSOLINI E IL DELITTO MATTEOTTI

 



Giovanni Sabbatucci

 È un pomeriggio caldo quello del 10 giugno 1924. Giacomo Matteotti esce di casa e non vi ritorna più. Non è di un deputato qualsiasi il corpo massacrato che verrà trovato due mesi dopo in un bosco vicino Roma. Solo dieci giorni prima della sua sparizione Matteotti ha tenuto un discorso infuocato alla Camera, contro il fascismo e l'irregolarità delle elezioni. È il leader di uno dei maggiori partiti di opposizione, forse il leader dell'intera opposizione. Non è difficile collegare i due avvenimenti, il discorso e la morte, né scoprire che gli autori del delitto, che non si sono preoccupati di cancellare le tracce, sono uomini dello stretto entourage del Duce. Ce n'è abbastanza per far scoppiare il più clamoroso scandalo politico della storia d'Italia. E ce ne sarebbe abbastanza per le dimissioni immediate del governo. Tutto sembra far credere a una crisi. Ma non è questo che accade. L'opposizione parlamentare sceglie la strada della protesta morale, il governo resiste, la maggioranza non accenna a spaccarsi, il regime si consolida. Mussolini, il trionfatore delle elezioni del '24 contro le quali aveva tuonato Matteotti, forza la sorte e instaura la 'dittatura a viso aperto'. Quel delitto che sarebbe potuto essere l'ultima occasione di arrestare il regime, ne diviene invece il punto di svolta, lo snodo decisivo. Ma quel corpo abbandonato e quel rifiuto morale si caricano di un significato simbolico. L'atto di morte del deputato Matteotti è l'atto di nascita dell'antifascismo come scelta politica ed etica.


Le responsabilità di Mussolini
Giovanni Sale, La Civiltà Cattolica, 1 giugno 2024

Quale fu la responsabilità di Mussolini nella vicenda del delitto Matteotti? Fu lui il mandante del delitto, oppure no? Ebbe una responsabilità diretta nella realizzazione dello stesso, oppure una responsabilità soltanto indiretta, vale a dire soltanto politica o morale? Il dibattito storico su questa delicata materia è ancora aperto: su essa pesano molto, al di là della lettura degli atti processuali e della documentazione che è stata pubblicata, i diversi punti di vista degli interpreti, non sempre scevri, in realtà, di partigianeria ideologica.

Secondo alcuni storici, Mussolini sarebbe stato il mandante materiale del delitto. Questa posizione è stata sostenuta in passato, spesso sulla base di motivazioni molto generiche, da diversi intellettuali di sinistra, ed è riapparsa in più recenti pubblicazioni, trovando maggiore attenzione da parte degli storici. Secondo altri, invece, a Mussolini andrebbe imputata soltanto la responsabilità morale e politica del delitto. Essi parlano dello zelo eccessivo di alcuni uomini vicini al Duce, come Marinelli e compagni, che, prendendo spunto da alcune parole – quelle riguardanti la Ceka – pronunciate da Mussolini in un momento d’ira, si decisero ad agire, nella presunzione che con quelle parole egli intendesse eliminare Matteotti. Questa posizione è stata sostenuta in sede processuale da Rossi – nemico giurato del Duce – ed è sostanzialmente condivisa anche dal maggiore biografo di Mussolini, Renzo De Felice.


La crisi politica conseguente

Giuliano Procacci, Storia degli italiani

Parve per un momento che il vuoto dovesse farsi attorno al governo, la cui complicità nell'assassinio ben pochi mettevano in dubbio. Molti distintivi fascisti scomparvero dagli occhielli delle giacche e Mussolini stesso ebbe la sensazione del proprio isolamento. Ben presto però egli ritrovò la sua baldanza, perché da una parte l'opposizione parlamentare, guidata da Giovanni Amendola, dopo aver abbandonato l'aula di Montecitorio (la cosiddetta secessione dell'Aventino), non seppe fare appello al paese e proporre una reale alternativa, paralizzata ancora una volta dalla paura della rivoluzione, e d'altra parte perché poté contare sull'appoggio del re e sulla neutralità del Vaticano. Il 3 gennaio 1925 Mussolini si presentò alla Camera per assumersi tutta la responsabilità del delitto Matteotti e per sfidarla provocatoriamente ad avvalersi della facoltà di metterlo sotto stato d'accusa. La Camera, non accettando il guanto di sfida che le veniva lanciato, segnò praticamente la propria condanna a morte e lo Stato liberale cessò definitivamente di esistere. 

Il discorso del 3 gennaio 1925   https://it.wikisource.org/wiki/Discussione:Italia_-3_gennaio_1925,_Discorso_sul_delitto_Matteotti
In viaggio con Barbero - Il Caso Matteotti (la7.it)

UN BEL RITRATTO DI VINCENZO CONSOLO

 



IL CUORE DEL MONDO

di Luca Alerci

da  https://www.nazioneindiana.com/2024/09/30/il-cuore-del-mondo/

Vincenzo Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di Conversazione in Sicilia. Era un pomeriggio d’inverno, freddo e livido: solo al tramonto, le nuvole divennero ocra e rosse sfiorate dal sole. Stavamo visitando un piccolo borgo, Villadoro d’Altesina. Parlava molto dei suoi anni milanesi, i primi, dei suoi studi di giurisprudenza. Discuteva con Liborio che non rinunciava neanche in quelle occasioni alle sue iperboli: “Vicì – gli diceva – la mia casa è il centro del mondo.” Lo guardavamo tutti un po’ stupiti, ed era quello che voleva. “Ma è naturale” continuava. “Il Mediterraneo è il centro del mondo, la Sicilia è al centro del Mediterraneo, la nostra città è al centro della Sicilia, la mia casa è al centro della città. Mi pare ovvio, no?”
Consolo sorrideva, con il suo sguardo troppo simile a quello dei suoi personaggi: insinuante ma aperto, acuto ma ingenuo, forte ma delicato.
“Sa avvocato?” Così si rivolgeva al mio amico Rino: “Io la invidio. Anch’io avrei voluto continuare sulla strada della legge. Si impara molto nei tribunali, e ancor di più quando si ascoltano le confessioni dei clienti.”
Rino rispose con la consueta arguzia: “si imparano troppe cose, troppe per continuare a voler imparare.”
C’era una grande sintonia tra Rino e il nostro Consolo, la condivisione della passione per la giurisprudenza. Il crepuscolo, intanto, si stendeva lieve sulle strade solitarie: era tardi, bisognava rincasare e accompagnarlo all’albergo. Ma Liborio non voleva, era abituato ad uscire la notte, ad ascoltarla. Io dovevo rincasare per forza. Si decise di rientrare, per quella sera. C’eravamo tutti al rientro: Danila ci aveva raggiunti e con la sua consueta delicata premura, aveva portato il mio piccolo registratore e la macchina fotografica. Avremmo voluto e dovuto realizzare un’intervista, lei che scriveva per Il giornale di Sicilia, ma non so perché la rimandavamo continuamente, forse perché non volevamo in verità fermare sul foglio le emozioni di quelle sere, dei lunghi pomeriggi a spasso tra i monti. Eppure, una cosa Danila riuscì a chiedergli delle tante domande che si era preparata: cosa resta del laboratorio della letteratura siciliana? Consolo ci pensò su e poi le disse: “dipende da voi, dalla vostra generazione”. “Non granché allora – rispose amara Danila – non granché”.

Il giorno dopo quella passeggiata, lo andammo a prendere di buon mattino: ci aveva chiesto di salvarlo da non so quale conferenza o cenacolo organizzato per lui. Troppe parole, troppo rumorose soprattutto. A me dispiaceva in realtà assecondarlo e non perché non volessi continuare a chiacchierare con lui, da soli. Mi dispiaceva però tradire il nostro amico professore che tanto aveva desiderato questi incontri. Alla fine restammo, ma non mancò la possibilità di un’ultima discussione tra noi, all’ombra del duomo. Consolo mi disse: “anch’io sono nato nel Val Dèmone, eppure qui c’è aria di montagna, siete fortunati.” Io gli citai naturalmente Le città del mondo, le descrizioni oniriche di questi borghi osservati dai silenzi della vita nomade di Rosario e del padre, le scene delle fanfare nelle campagne, quasi metafisiche, ma che parlavano invece di lotte dure, di sacrifici, di emancipazione negate o tradite o mai raccontate.
“Questa è la mia città – dissi. Mi dispiacerebbe andare via.”
Consolo mi rispose che non c’era più bisogno di andare, non era più come ai suoi tempi. Poi mi disse, a proposito dei discorsi che aveva ascoltato tra noi su Tomasi di Lampedusa: “ho di recente riletto ancora tutto il carteggio di Vittorini e Mondadori. Le sue parole sul Gattopardo sono state sempre travisate o forse neanche mai lette veramente. È piaciuto creare questa contrapposizione. E te lo dice uno che secondo molti ha scritto l’anti Gattopardo (si riferiva ovviamente a Il sorriso dell’ignoto marinaio).”

Nella primavera di quello stesso anno, nonostante mille problemi, decidemmo di andarlo a trovare per invitarlo a settembre in vista di un premio che la mia scuola voleva consegnarli. Era a Siracusa. Faceva già caldo, sulle coste, quel caldo denso che non capirò mai come si riesca a sopportare per cinque mesi all’anno.
Aveva poco tempo, e ci fu solo l’occasione di prendere un tè nel piccolo salottino dell’albergo, a Ortigia.
“Ciao Vicì” gli disse Liborio. “A settembre, quando ci vedremo di nuovo da noi, ricordami che ti devo fare avere il bellissimo libro di Michele Anzalone, Favole a Castroforte. Ne parlavamo l’altra volta. Ci sono i protagonisti della nostra città, una città che non è però stata protagonista di nulla…”
“Con piacere, certo che mi ricordo”, rispose. “Sai Liborio, c’è una cosa che volevo dirti. Non l’avere a male, ma devo confutare la tua teoria sulla non necessità dell’arte, ma forse ne parleremo a settembre, sei troppo attento ora.” Rise, e noi con lui, perché aveva ripreso una delle illuminazioni di Liborio quando voleva spostare il livello del discorso. Liborio era un grande artefice, creava racconti con la terracotta, la ceramica, il metallo, il legno, piccole increspature sopra la fronte di una statuetta che diventavano narrazioni: qua, qua è il racconto, ammoniva. Era la nostra guida, quando ci raccontava di Guttuso, delle manifestazioni a Roma dove lo chiamavano il Ciciliano, dell’avventura bella e dannata del PSIUP, “dell’acqua d’acqua” a proposito dei suoi esperimenti creativi nelle campagne di Piazza, dei suoi tormenti, ben nascosti tra i sorrisi beffardi.
“Non bisogna mai guardare le cose troppo da vicino” continuò Consolo. “Bisogna osservare la vita, raramente parteciparvi.” Diceva così in quei momenti di fronte al livido scirocco sul mare dei Greci.
Doveva andare, e noi rientrare. “Allora, ci vediamo a settembre” disse. “Magari prima venite a Sant’Agata, da me. Voglio farvi vedere il mio mare del Val Dèmone, e poi ce ne saliamo sui monti, a guardare il cielo da vicino.” Furono strane parole.
Ma quel settembre non arrivò mai: quando lui tornò, noi non potemmo andare. Impegni di lavoro, per lo più.
Eppure ci sarebbe bastato, come ci aveva suggerito, valicare i Nebrodi tra Cesarò e San Fratello, nel cuore della faggeta di Sollazzo verde, solenne sotto Monte Soro, sino al mare di Sant’Agata. Un breve viaggio, due ore, nella Sicilia che era stata al centro della sua descrizione del Risorgimento degli ultimi.
Ma no, non ci andammo né allora né più mai.

Ricordo ancora una delle sue illuminazioni, la prima volta che ci incontrammo: sapeva cosa pensavamo prima che lo pensassimo (non dovrebbero fare questo gli scrittori?).
“La letteratura in Sicilia”, ci disse con tranquilla fermezza, “ha perduto la propria visione unitaria, non segue più la ricerca degli ‘altri doveri’ di Vittorini. Non è per forza un male, anche se sembrano prevalere delle letterature di solo intrattenimento, neo rusticane. Ma capisco la vostra amarezza. Eppure non voglio pensarci ora, portatemi in giro tra queste nuvole basse accagliate tra le rocche.”
Era felice, quella sera, aveva trovato forse ciò che era venuto a cercare, chissà. Camminammo a lungo, a braccetto. Ad un certo punto, la nebbia ce li nascose, lui e Liborio, scomparsi. Riapparvero dopo qualche minuto, ma sono sicuro che per loro erano passati anni, all’indietro, tanto felici e vivi erano i loro sguardi.
“C’era Vittorini appoggiato ad un portone” ci disse Consolo guardando Liborio. “Era lì che si stava accarezzando i baffi e io gli ho detto se voleva venire a conoscervi, giovani e affiatati come i Dioscuri. Ma era impegnato, doveva raggiungere altri amici. Ci ha detto che tornerà. Aspettatelo, tornerà.”
Liborio e Consolo ripresero la passeggiata.
Noi guardavamo lontano, nonostante la nebbia. O forse proprio grazie a lei.

 


28 settembre 2024

PENELEPE RITROVATA

 


Odissea, Libro XXIII, 300-309, traduzione di Rosa Calzecchi Onesti

Ma i due, quand'ebbero goduto l'amore soave,
godettero di parlarsi, uno all’altra dicendo,
lei quanto in casa soffrì, la donna bellissima,
 costretta a vedere la folla sfacciata dei pretendenti,
che a causa sua, numerose le vacche e le pecore grasse
sgozzavano, e molto vino si attingeva dai vasi;
e lui, il divino Odisseo, quante pene inflisse
ai nemici, e quante sventure dovette subire lui stesso,
tutto narrava: lei godeva a sentire, né il sonno
cadde sui loro occhi, finché tutto fu detto.

Marilù OlivaL'Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre, Milano, Solferino 2020

Nel talamo nuziale scorrono come fiumi le parole del racconto: io gli riporto quanto ho patito subendo la presenza degli odiosi Proci, che attingevano dagli orci vino senza fine e facevano sgozzare bestie senza criterio. Lui mi narra ciò che gli è successo e ogni tanto ancora gli scendono le lacrime. Tremo con lui inorridita quando ascolto delle tempeste crudeli, del terribile Ciclope cannibale, dell'orrenda Scilla e della stoltezza bestiale dei defunti compagni, periti per loro misera colpa. Parole fiatate sottovoce riempiono la stanza come una dolce melodia, finalmente la rassicurazione della voce amata, la carezza dolcissima del ritorno svelato. Discorriamo interrompendoci soltanto per baciarci e per concederci il piacere a lungo negato, srotoliamo i giochi d'amore senza la fretta della giovinezza, consapevoli di ciò che ricordiamo l'uno dell'altro, poi riprendiamo a confidarci, ventre contro ventre, bocca contro orecchio, braccia intrecciate, finché un sonno irresistibile non ci sorprende ancora abbracciati. 



SIMONE DE BEAUVOIR INCOMPRESA

 


BEAUVOIR DIFFERENZIALISTA?

Posted on settembre 27, 2024

Deborah Ardilli

Un pezzo apparso sul Foglio del 27 settembre lamenta, ohibò, un’«incredibile falsificazione ideologica» perpetrata ai danni di Simone de Beauvoir. L’autore del trafiletto allarmato, Guido Vitiello, intende risvegliare l’indignazione del pubblico denunciando la cooptazione di Beauvoir nei ranghi del costruttivismo radicale: un’appropriazione che, secondo l’opinionista, sarebbe un fatto recente, dovuto all’ignoranza dei testi da parte di una generazione rotta alla frequentazione di instagram e tendenzialmente allergica al consumo librario.

Come correggere, allora, il duplice delitto di lesa filologia e abuso ideologico? Quale alternativa teorica e politica suggerire alle «transfemministe instagrammabili» che suscitano l’irritazione di Vitiello? La soluzione elaborata dal collaboratore del Foglio per salvare l’onore della filosofa prevede due mosse. In primo luogo, si tratta di procedere a un’accurata selezione di passi del Secondo sesso volti a dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che, per Beauvoir, la biologia è un fattore determinante e la differenza tra uomini e donne è fondata in natura. Dopodiché, la raccomandazione è di abbinare la lettura di queste frasi — rigorosamente astratte dal contesto —  a quella del recente volume di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, Donna si nasce (e qualche volta lo si diventa). Sommando le due operazioni, e agitando bene, il risultato è il seguente: la chiave del riscatto di Beauvoir dalla barbarica violenza esegetica di cui è vittima consisterebbe nel…  trasformarla in una militante della differenza sessuale.

Bien joué, bella trovata davvero il beauvoirismo differenzialista! Più instagrammabile di così, d’altronde, era difficile pensarla.

Certo, sarebbe un’ingenuità imputare esclusivamente al Foglio e alle sue firme questo ennesimo contributo alla banalizzazione della storia e della teoria femminista. In ogni caso, ha senso porsi una semplicissima domanda: a chi e a che cosa serve una Beauvoir risciacquata, o meglio annegata, nelle acque del differenzialismo? La prima funzione, intenzionale, è palese: intascarsi un santino da spendere nella critica da destra al transfemminismo, alla woke, al “gender” e via discorrendo. La seconda, forse meno direttamente percepibile ma sempre collocata a destra, chiama in causa la ricerca di una giustificazione filosofica della disuguaglianza: di genere, in questo caso. Ma si sa, e lo sappiamo anche grazie a Beauvoir, che il meccanismo è facilmente trasferibile e riciclabile quando si tratta di legittimare la subordinazione di altri gruppi minoritari.

È questo, non altro, il senso del richiamo a una differenza “originaria” e alle sue invalicabili frontiere: indicare un limite insuperabile — naturalmente fondato, ontologicamente inaggirabile, candidato a ogni sorta di valorizzazione — alle pretese di uguaglianza sostanziale avanzate dai gruppi subalterni. E nascondere, con il pretesto di quel limite collocato al di fuori dell’azione della società, le forme di sfruttamento e discriminazione sistematica che dobbiamo invece all’organizzazione della produzione, degli scambi e dei consumi. La cultura di destra (che, quando si tratta di rapporti sociali di sesso, continua a impregnare di sé tutto lo spettro ideologico e politico ) è così: crede, o finge di credere, che l’ordine e le sue articolazioni siano dati, e non socialmente e politicamente costruiti. Ridicolizza il «costruttivismo radicale» per scoraggiarci a pensare che le istituzioni della moderna società patriarcale e capitalista siano, appunto, istituite; e, in quanto tali, bisognose di un sovrappiù di razionalizzazione ideologica quando si diffonde la percezione del fatto che la loro persistenza contraddice in modo flagrante i principi di libertà e uguaglianza di cui le nostre società si gloriano.   

Ora, senza darsi l’illusione di poter convincere chi non ha alcun interesse a essere convinto, è almeno possibile indicare alcuni elementi da tenere in considerazione per formarsi un giudizio sull’evoluzione e sul lascito di Beauvoir meno spericolato di quello proposto dal Foglio. E, soprattutto, per evitare le figure di guano in cui rischia di incappare chi, deplorando ai quattro venti l’ignoranza altrui, trascura di porre rimedio alla propria.

Anche tralasciando osservazioni sulla pertinenza di una lettura ultraselettiva di un testo stratificato ed enciclopedico come Il secondo sesso, va segnalato almeno un banale dato di fatto, cioè che Beauvoir non muore nel 1949, subito aver dato alle stampe il suo capolavoro. Soprattutto, importa ricordare che, nel corso della sua lunga traiettoria, la filosofa ha effettivamente avuto modo di porsi il problema della corretta interpretazione del suo pensiero, con esiti di segno opposto a quelli che le vengono attribuiti da Vitiello.

Ecco cosa dichiara Beauvoir nel 1966, nel libro-intervista di Francis Jeanson, Simone de Beauvoir ou l’entreprise de vivre. Suivi de deux entretiens avec Simone de Beauvoir: «Sono radicalmente femminista, nel senso che riduco radicalmente la differenza in quanto dato provvisto di un’importanza intrinseca […] certamente esistono molte false interpretazioni del mio femminismo. Solo, quelle che ai miei occhi sono false, sono quelle che non sono radicalmente femministe: non mi si tradisce mai quando vengo tirata verso… il femminismo assoluto, se vuole. Al contrario, se si cerca di sollecitarmi per farmi dire… ecco vedete, c’è appunto una “specificità femminile” che fa sì che la donna (indipendentemente dalla cultura, dalla civiltà, dall’educazione e dalle strutture del mondo) non potrà mai essere la simile dell’uomo, allora…».

Anche questa sarà un’«incredibile falsificazione ideologica» indotta dall’influenza del “gender” e dal transfemminismo? Un auto-fraintendimento di dimensioni tali da gettare il dubbio sulla capacità di intendere e volere della diretta interessata? Ai posteri l’ardua sentenza. A noi il compito elementare di discernere: l’esistenza di una specificità, di una differenza radicata nell’ordine naturale precedente la cultura, la civiltà, l’educazione, le strutture del mondo e tale da determinare la divisione sociale tra uomini e donne è postulata da Guaraldo e Cavarero e da loro ancorata, in linea con le posizioni storicamente espresse dal pensiero della differenza sessuale, alla facoltà di generare. Immagino che il Foglio, come tutta l’ideologia dominante, concordi.

Ma certamente non concordava Beauvoir. Che oltretutto, di lì a poco, sarà chiamata a misurarsi con un fatto imprevisto al momento della redazione del Secondo sesso: la nascita del movimento di liberazione delle donne in Francia. Di fronte all’esplosione femminista degli anni Settanta, Beauvoir sceglie di situarsi dalla parte del «femminismo assoluto», cioè di stringere contatti con la corrente féministe révolutionnaire che rifiuta in toto il discorso della differenza sessuale e polemizza duramente con le sue esponenti, per altro esplicitamente schierate su posizioni anti-femministe.

Alle giovani révolutionnaires, portatrici di un progetto che alla fine degli anni Quaranta non poteva essere minimamente contemplato, “Momone” — così l’avevano soprannominata le ragazze del MLF — apre le colonne di Les Temps Modernes. Ascolta, impara, si mette generosamente a disposizione. E, nel 1977, accetta di assumere la direzione onoraria di Questions féministes, la rivista del femminismo materialista francofono. Ovviamente nessuna può pretendere che dalle parti del Foglio sappiano di che cosa si tratti, considerando che a malapena ne prendono atto i manuali di filosofia femminista più in voga nel nostro paese, magari con  il pretesto fornito dall’affiliazione disciplinare delle intellettuali, prevalentemente sociologhe e antropologhe, che hanno animato quell’esperienza.

A ogni buon conto, l’autrice del Secondo sesso mette il proprio prestigio a disposizione di un’iniziativa animata da figure come Christine Delphy, Nicole-Claude Mathieu, Colette Guillaumin e Monique Wittig. Dopo lo scioglimento del collettivo redazionale di Questions féministes, troviamo ancora Beauvoir alla direzione di Nouvelles Questions féministes, la più longeva rivista femminista di lingua francese, presso la quale il costruttivismo sociale continua a essere di casa.

Tutte le intellettuali che hanno gravitato intorno a queste riviste sono state ben consapevoli dei limiti di cui risentiva l’impostazione fenomenologica del Secondo sesso. Limiti che, evidentemente, non sfuggivano nemmeno a Beauvoir, convinta, a un certo punto della sua vita, che una ipotetica (e mai realizzata) riscrittura dell’opera del 1949 avrebbe dovuto avere un taglio più materialista. Tutte, in altre parole, hanno avuto chiaro che quella del Secondo sesso è stata, per usare le parole di Françoise Armengaud, filosofa vicina a Nouvelles Questions féministes, una «rottura epistemologica incompiuta»: da lì si poteva e si doveva partire per una critica all’ideologia differenzialista e ai suoi presupposti naturalisti, ma lì non ci si poteva fermare.

Va per altro sottolineato che, pur non rimettendo mano al Secondo sesso, Beauvoir non rinuncia a intervenire nelle dispute teoriche e politiche di quegli anni. È lei a firmare, nel 1982, l’introduzione a Chronique d’une imposturedu MLF à une marque commerciale, una raccolta di testi e documenti di denuncia, da parte di militanti femministe, dell’appropriazione e del deposito del marchio commerciale MLF operata Psychanalyse et Politique, il gruppo di Antoinette Fouque, la maggiore ideologa di lingua francese, insieme a Luce Irigaray e Hélène Cixous, del pensiero della differenza sessuale. Ed è sempre Beauvoir, nel 1984, a scrivere un articolo, incluso nell’antologia curata da Robin Morgan Sisterhood Is Global, per smentire la falsificazione ideologica (quella sì) veicolata dall’invenzione del “French Feminism” e ricordare al pubblico anglofono che, in Francia, «la teoria è stata prodotta quasi esclusivamente dalle femministe radicali», cioè appunto dalle materialiste, e perciò radicalmente costruttiviste, di Questions féministes.

Non bastasse questo a togliere fondatezza alla lettura che Vitiello pretende di dare, vale la pena ricordare che il fronte differenzialista, dal canto suo, non mancherà di reagire agli interventi beauvoiriani. E lo farà con la proverbiale eleganza di chi non esita a cogliere l’attimo della massima visibilità mediatica possibile per assestare l’affondo finale. Nell’aprile del 1986, neanche il tempo dei funerali, mentre personalità e gruppi femministi di tutto il mondo trasmettono alle redazioni di Les Temps modernes e Nouvelles Questions féministes messaggi di cordoglio per la scomparsa di Beauvoir, Antoinette Fouque sceglie le colonne di Libération per pubblicare un intervento dal titolo “Moi et elle” . In quelle righe, la psicoanalista parla della morte di Beauvoir come di una liberazione: «questa morte forse accelererà l’ingresso delle donne nel XXI secolo».

Ma liberazione da cosa? Da un femminismo fondato, è sempre Fouque a scrivere, su un «universalismo intollerante, assimilatore, astioso, sterilizzante, riduttore di ogni altro», con cui è urgente chiudere i conti per lasciare spazio «al pluralismo, alle differenze feconde che, come ognuno sa hanno origine, si informano, cominciano dalla differenza dei sessi». Meno volgari i toni, ma identica la sostanza del necrologio firmato da Luce Irigaray per la tedesca Tageszeitung, poi ripreso in Je, tu, nous (1990). In quella sede, Irigaray chiarisce per l’ennesima volta che, dal suo punto di vista, le pretese di uguaglianza avanzate dal femminismo poggiano su una critica superficiale della cultura. E che per scongiurare la neutralizzazione della differenza sessuale a cui puntano le legittime eredi di Beauvoir, occorre procedere a rifondare diritti e doveri sociali di ciascun sesso sulla base della loro irriducibile differenza. Sarà un fraintendimento anche questo? Sbagliava Irigaray a credere di non potersi decentemente rifare a Beauvoir per rilanciare un modello di convivenza basato sul sinistro principio separate, but equal?  

Non è sorprendente che dalle parti del Foglio, e non solo lì, l’elogio della differenza sessuale equivalga a una musica celestiale. Evitino almeno di scandalizzarsi se, a questo mondo, esiste ancora qualcuna in grado di comprendere dove porta quella strada.

 

A destra Simone de Beauvoir insieme alle militanti del MLF in occasione della giornata di denuncia dei crimini contro le donne. Parigi, 13 maggio 1972.

Foto di Mariza de Athayde, in Feminist Revolution.

PEZZO  RIPRESO  DA:  https://manastabalblog.wordpress.com/2024/09/27/beauvoir-differenzialista/

 


IL FANTASMA DEL MATRIARCATO

 






Anna Maria Guadagni, Il matriarcato che avanza, Il Foglio, 28 settembre 2024

L’Ottocento è forse stato il secolo di maggior circolazione del fantasma del matriarcato. Ma l’esistenza di una antica organizzazione familiare e sociale dominata dalle donne l’aveva già teorizzata Thomas Hobbes nel “Leviatano” due secoli prima, ipotizzando un’epoca in cui la paternità dei figli era nota solo su indicazione delle madri: da questo discendeva il loro potere, che finì nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Lì le donne l’avrebbero ceduto in cambio di un nuovo patto sociale, il matrimonio. Nel Settecento, con lo studio etnologico delle società primitive, si individuò nella discendenza matrilineare la chiave del potere femminile. Il gesuita Joseph-François Lafitau, che aveva vissuto con le tribù irochesi del Nordamerica studiandone i costumi, aveva notato che per questa ragione quel popolo riconosceva alle donne un ruolo più importante. Anche Livingstone notò qualcosa del genere presso alcune tribù africane. Nell’Ottocento, Henry Lewis Morgan, etnologo e antropologo americano, descrisse una successione di stadi nello sviluppo delle civiltà: dalla promiscuità dell’orda primitiva al gruppo famigliare a discendenza matrilineare, per arrivare alla famiglia patriarcale prima poligamica e poi monogamica come forma più alta e progredita. L’etnologo evoluzionista scozzese John Mclennan, autore nel 1866 di “Primitive marriage”, scrisse che al tempo dell’organizzazione matrilineare vigeva la poliandria, più uomini per una sola donna, orrore.

Per tutti, in sostanza, l’avvento del patriarcato segnava l’inizio della civiltà e l’uscita dalla barbarie. A mettere in discussione questa visione, nel 1861, fu il giurista svizzero Johann Jakob Bachofen. Anche per lui, tutte le società avevano attraversato una serie di fasi storiche: dalla primitiva promiscuità, quando gli uomini sottomettevano le donne con la forza, passando per il matriarcato, età in cui le donne imposero il matrimonio monogamico e una visione religiosa del mondo, assumendo il potere dentro e fuori dalla famiglia, per arrivare al diritto paterno come ultimo stadio, rigettando la legge delle madri. A differenza di altri, Bachofen, che pure considerava la nascita del patriarcato inevitabile e necessaria alla creazione dello stato, pensava alla società matriarcale come a un’epoca felice, di fratellanza tra gli umani e di sintonia con la natura.

Le tesi di Bachofen furono accolte da Engels che le riprese ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”: erano in sintonia con l’idea marxista per cui la famiglia, il concetto di proprietà e le forme sociali e giuridiche corrispondenti sono storiche e mutano nel tempo. Ma l’ipotesi di un periodo matriarcale ha trovato ascolto anche a destra, piacque a Evola per l’identificazione della civiltà con il principio virile. Mentre la psicoanalisi di orientamento junghiano colse nell’archetipo della Grande Madre un elemento indispensabile a nutrire la cultura cercando l’equilibrio tra valori maschili e femminili.

Sono solo tracce del percorso di una parola nei secoli a noi più vicini. A destrutturarlo ha pensato Eva Cantarella, storica e giurista del mondo antico, nei suoi lavori sul matriarcato: dalla voce dell’enciclopedia Treccani al saggio su Quaderni di Storia n. 28 - 1988, alle introduzioni alle opere di Bachofen; l’edizione più recente è “Il potere femminile. Storia e teoria”, Mimesis 2021.

Eva Cantarella mostra come Bachofen fosse innovativo per la sua epoca e, insieme, fuori strada. Innovativo perché utilizzò il mito come fonte di conoscenza: ciò che i miti raccontano può non essere accaduto, ma è stato pensato. Fuori strada perché suppose nei miti la proiezione di una realtà più antica. Al contrario, oggi gli antichisti ritengono che il mito possa anche rappresentare l’opposto della realtà, cioè il mondo capovolto, l’impensabile.

IL "PROCESSO" INVOCATO DA PIER PAOLO PASOLINI

 




28 settembre 1975, il Corriere della sera pubblica il testo di Pier Paolo #Pasolini "Perché il Processo".
" [...]Ci sono inoltre delle cose che i cittadini italiani vogliono sapere, pur senza aver formulato con la sufficiente chiarezza, io credo, la loro volontà di sapere: fatto che si verifica là dove il gioco democratico, appunto, è falso; dove tutti giocano con il potere; e dove la cecità dei politici è ormai ben assodata.
Gli italiani vogliono dunque sapere ancora cos’è con precisione la «condizione» umana - politica e sociale - in cui sono stati e sono costretti a vivere quasi come da un cataclisma naturale: prima, dalle illusioni nefaste e degradanti del benessere e poi dalle illusioni frustranti, no, non del ritorno della povertà, ma del rientro del benessere.
Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, che limiti ha, che futuro prevede, la «nuova cultura» - in senso antropologico - in cui essi vivono come in sogno: una cultura livellatrice, degradante, volgare (specie nell’ultima generazione).
Gli italiani vogliono ancora sapere che cos’è, e come si definisce veramente, il «nuovo tipo di potere» da cui tale cultura si è prodotta: visto che il potere clerico-fascista è tramontato, e ormai esso ad altro non costringe che a «lotte ritardate» (la condanna a morte degli antifranchisti, i rapporti tra la vecchia e la nuova generazione mafiosa nel Mezzogiorno ecc.).
Gli italiani vogliono ancora sapere, soprattutto, che cos’è e come si definisce il «nuovo modo di produzione» (da cui sono nati quel «nuovo potere» e, quindi, quella «nuova cultura»): se per caso tale «nuovo modo di produzione» - introducendo una nuova qualità di merce e perciò una nuova qualità di umanità - non produca, per la prima volta nella storia, «rapporti sociali immodificabili»: ossia sottratti e negati, una volta per sempre, a ogni possibile forma di “alterità” [...]"
📰 "Perché il Processo. Tribuna aperta" sul "Corriere della Sera", domenica 28 settembre 1975, p.2.
📷 Pier Paolo Pasolini a Venezia per le Giornate del Cinema Italiano, 1973 © Graziano Arici/Tutti i diritti riservati

NB: L'articolo di Pasolini, apparso sul Corsera nel settembre del 1975, venne integralmente pubblicato post mortem nel 1976 nel libro "LETTERE LUTERANE" da Einaudi.

LEONARDO SCIASCIA SUGLI INTELLETTUALI

 

Foto di Angelo Pitrone


"L’intellettuale in Europa aveva un potere ed io credo che il vertice di questo potere sia stato esercitato da Zola e dai firmatari dell’appello di Zola al momento del processo Dreyfus. Poi è venuto l’inquinamento partitico, l’impegno devoluto alla sinistra: e ha molto inquinato, questo potere dell’intellettuale. Oggi il potere è in tutte altre mani, il potere è la televisione, il potere è la casa di moda. L’intellettuale non ha più nessun potere, comunque io continuo a scrivere come se ci credessi".

LEONARDO SCIASCIA

ALCUNE IMMAGINI DI "EREDITA' DISSIPATE" AL MUSEO MANDRALISCA DI CEFALU'

 













27 settembre 2024

"VERMIGLIO" AL CINEMA 1 e 2


 

Un gran film d' altri tempi. Sembra scritto da Ermanno Olmi. (fv)

Di seguito la recensione del critico cinematografico ROBERTO CHIESI:

VERMIGLIO di Maura Delpero

Il passato è un luogo dove tutto si svolge in modo diverso. Il passato in un mondo remoto e ormai estraneo alla nostra contemporaneità come il piccolo borgo contadino della provincia di Trento dove è ambientato "Vermiglio" (2024), secondo film di Maura Delpero, è un'altra dimensione, dove i gesti, le parole, il senso stesso del tempo vengono vissuti in un altro modo perché chi lo viveva apparteneva ad un'altra cultura. L'autrice, dopo avere dolorosamente perduto il padre, che di quei luoghi era originario, ha voluto rievocare quell'universo e lo ha fatto intessendo una narrazione "inattuale", anomala nel cinema italiano di oggi, che aderisce completamente alla natura e alla cultura degli abitanti. Se la rievocazione ha una tonalità nostalgica, Delpero non ha però voluto edulcorare nulla, anzi: ha raccontato una comunità dove, nel 1944, l'autorità del padre è assoluta e ha il potere di decidere quale figlia avrà il privilegio di studiare e quale, invece, sarà relegata alle incombenze domestiche, nonostante il suo schietto desiderio di crescere culturalmente. Le figlie femmine sono discriminate in quanto femmine fin dalla nascita ma anche i figli maschi non hanno diritto di parola e, per esistere, devono per forza ribellarsi: il padre, che oltretutto è il maestro di scuola, ha già deciso per lei e anche per ogni figlio. In questo mondo lento, dominato dal passare delle stagioni, segnato dalle fatiche quotidiane, gelato dalla neve, arriva un intruso, un soldato siciliano e provoca l'innamoramento di una delle figlie del maestro-padre padrone. Questo è l'elemento romanzesco, che avrà conseguenze drammatiche e che Maura Delpero adotta come veicolo per mostrare quali dinamiche psicologiche, sentimentali e anche sociali determina tale intrusione di un individuo venuto da un altro universo (la Sicilia). al tempo stesso, l'autrice - con amore e tenerezza per i personaggi, soprattutto le donne e i bambini - osserva il loro vivere in quel microcosmo immutabile, dipendente in tutto e per tutto dalla natura e dalla religione che gli abitanti hanno adattato a loro stessi. "Vermiglio" ha un tessuto figurativo (la fotografia dai colori freddi è di Michail Kričman) ispirato dal desiderio di resuscitare quel mondo contadino nel nitore dei suoi dettagli e della sua fisicità, senza ometterne le asprezze. E' un film di contemplazione: questo è il suo pregio e al tempo stesso il suo limite maggiore, perché nasce da un tale rispetto per i ritmi del piccolo mondo arcaico che filma, da riprodurne anche la monotonia, la ripetitività, riducendo la narrazione ai particolari minimali, che diventano incommensurabili.

ROBERTO CHIESI

 

26 settembre 2024

IL GRAMSCI DI PASOLINI SECONDO PAOLO DESOGUS

 


PALERMO RICORDA DANILO DOLCI

 


MARCIA MONDIALE PER LA PACE

 


Foto di Mundo sin Guerras y sin Violencia – Costa Rica

Una marcia mondiale per la pace


Laura Tussi
26 Settembre 2024

La terza Marcia Mondiale per la pace e la nonviolenza inizierà a San José de Costa Rica, il 2 ottobre 2024, Giornata internazionale della nonviolenza, attraverserà i cinque continenti e si concluderà in Costa Rica il 5 gennaio 2025. La Marcia Mondiale è un progetto di informazione sulla situazione internazionale riguardo ai conflitti armati, alla violenza e alla discriminazioni in atto nel mondo, e propone la riduzione progressiva delle spese militari dei vari paesi e lo smantellamento degli arsenali nucleari.

A quattordici anni dalla prima Marcia Mondiale per la pace e la nonviolenza, le ragioni che l’avevano motivata, si sono rafforzate. Oggi, la Terza Marcia è ancora più necessaria per denunciare la pericolosa situazione mondiale caratterizzata da conflitti crescenti, creare coscienza, valorizzare le azioni positive, dare voce alle nuove generazioni e alla cultura della nonviolenza in tutte le sue forme e aspetti.

Viviamo in un mondo in cui la disumanizzazione sta crescendo, e nemmeno le Nazioni Unite sono più un riferimento nella risoluzione dei conflitti internazionali. Un mondo devastato da numerose guerre, in cui lo scontro tra le potenze dominanti ed emergenti colpisce prima di tutto le popolazioni civili. Una realtà sempre più disumanizzata e disumanizzante con milioni di migranti – in fuga da disastri ambientali, guerre, terrorismo, manovre economiche – che richiedono asilo e accoglienza. Un mondo con milioni di migranti, rifugiati e sfollati ambientali e profughi costretti ad attraversare confini permeati di ingiustizia e morte, e in cui le guerre e i massacri trovano giustificazione in dispute per risorse sempre più limitate. Un mondo nel quale la concentrazione del potere economico nelle mani di pochi compromette, persino nei paesi ricchi, ogni speranza di realizzare una società basata sul benessere per tutti.

In sintesi, è un mondo in cui la giustificazione della violenza, in nome della “sicurezza”, porta alla crescita di scontri bellici di proporzioni incontrollabili. L’occidente cosiddetto civilizzato persegue, invece di risolvere le guerre e le migrazioni forzate, una politica di riarmo guerrafondaia.

In questo scenario, il prossimo gennaio ricorre l’entrata in vigore del Trattato di Proibizione delle armi nucleari (TPNW). Come festeggiare il suo terzo anniversario mentre continuano ad aumentare gli stati che lo ratificano e siamo già giunti al secondo confronto tra di loro? Perché l’Italia e tutte le nazioni sotto il controllo Nato non ratificano il TPNW? Per queste ragioni la Marcia Mondiale si fa portavoce del TPNW, nonostante tutti gli ostacoli imposti dal sistema di guerra e dall’establishment belligerante e di militarizzazione dei popoli.

Dopo le due marce mondiali del 2009-2010 e del 2019-2020 che hanno percorso i cinque continenti, la terza Marcia Mondiale per la pace e la nonviolenza è dunque prevista per il 2024 e il 2025. La presenza di Rafael de la Rubia, ideatore della Marcia e coordinatore delle prime due edizioni, ha consentito di promuovere alcuni incontri anche in Italia per lanciare la Marcia. Il primo di questi incontri si è svolto in febbraio a Bologna al Centro di documentazione delle donne.

La prima Marcia, partita dalla Nuova Zelanda il 2 ottobre 2009 e terminata a Punta de Vacas il 2 gennaio 2010, ha aggregato intorno al progetto più di duemila organizzazioni. Data l’importanza dei temi e il forte valore simbolico che fin da subito ha acquisito la prima Marcia, si è pensato per la seconda di cambiare paradigma e di tentare di organizzare una nuova marcia a partire dalle attività di base, senza un’organizzazione centralizzata. La riuscita della Marcia in America Latina ha consentito di verificare che questo tipo di approccio funziona, con le attività di base e senza una organizzazione centralizzata. Così è partito il  progetto della seconda Marcia Mondiale. Partita da Madrid il 2 ottobre 2019 e conclusa sempre della capitale spagnola l’8 marzo 2020, la Marcia ha coinvolto più organizzazioni locali della precedente ed é durata diversi giorni di più, malgrado i problemi generati, soprattutto in Italia, dall’inizio della pandemia Covid19.

La nonviolenza resta prima di tutto un processo da portare avanti ogni giorno in tanti modi diversi: i tanti e positivi incontri a supporto della Marcia, promossi con associazioni e istituzioni nel 2023, sono un’ottima base per portare avanti quel cammino.


Scritto con la collaborazione di Alessandro Capuzzo.

W. BENJAMIN E A. GRAMSCI ALLA RICERCA DELLA STORIA DEI VINTI

 


Walter Benjamin sapeva, come Antonio Gramsci, che è più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati. Alla memoria dei senza nome Benjamin e Gramsci hanno consacrato le loro opere.

La critica di W. Benjamin allo “storicismo scientista” e positivista non sfiora neppure da lontano lo storicismo gramsciano. Se Gramsci avesse conosciuto il geniale critico ebreo-tedesco si sarebbe immediatamente riconosciuto in tanti dei suoi saggi.

Anche per Gramsci, infatti, il “materialismo storico” lavora sul non detto e sul non visibile, con gli scarti e gli scartati; anche Gramsci si pone il problema di salvare la memoria dei vinti per questo, in uno dei suoi ultimi Quaderni del carcere, riesce ad indicare i contorni e ad abbozzare il metodo da seguire per scrivere la storia delle classi subalterne ossia di coloro che stanno “ai margini della storia”

FRANCESCO  VIRGA





W. BENJAMIN E' ANCORA VIVO

 



Nella notte tra 26 e 27 settembre 1940 moriva. #walterbenjamin. Cosa ci resta di #walterbenjamin ottantadue anni dopo? Ci resta l’amicizia. È solo l’amicizia (di Gershom Scholem, Theodor W. Adorno e #hannaharendt, prima di tutto) che ci consente oggi di possedere una traccia di #walterbenjamin.
Sarà proprio Adorno (con la consulenza scientifica di Scholem) a promuovere, nel 1955 in Germania, la prima raccolta di scritti di #walterbenjamin; sarà #hannaharendt di nuovo nel 1968, proponendo una seconda antologia di suoi scritti, questa volta in inglese, a far sì che, finalmente il mondo intellettuale – oltre la cerchia ristretta dei suoi amici di un tempo – presti attenzione a #walterbenjamin. Non è molto e non cambia il finale, ma consente che #walterbenjamin parli ancora a noi e con noi.

David Bidussa