Riprendo dalla rivista DIALOGHI MEDITERRANEI la bella recensione di Nicola De Domenico dell'ultimo libro di Aldo Gerbino
Gli sguardi paralleli di Aldo Gerbino
di Nicola De Domenico
È la prima volta che Aldo Gerbino colloca 18 intense prose
poetiche a fronte di 18 immagini di opere non destinate ad una esposizione
temporanea né finemente riprodotte come tributo di collaborazione di un
artefice amico ad una nuova plaquette (Non è tutto. Diciotto testi
per un catalogo. Con una Premessa di Paolo Ruffilli ed una Chiosa di Aldo
Gerbino, Milano, Il Club di Milano-Spirali, 2018).
La collezione dell’autorevole poeta-scienziato e critico
d’arte – in parte riprodotta in scala ben leggibile nel piccolo formato, in
parte miniaturizzata come marca di citazione – è una galleria privata ideale,
una soggettiva epitome di figure, che compongono una retrospezione
autobiografica del professore che a Palermo ha creato e ordinato la Quadreria
Mediterranea dello Steri, sede del Rettorato dell’Università statale, la cui
realtà museale, di recente purtroppo inquinata da acquisizioni non
sufficientemente meditate, manterrà comunque, almeno nel prossimo futuro,
l’impronta originaria della sua appassionata iniziativa di inventariazione e
ricollocazione, in un ambiente di gran decoro, delle tele già esistenti in più
uffici dell’Ateneo, e della contemporanea promozione di donazioni di gran
pregio. E appunto dai dipinti della quadreria provengono alcuni importanti
pezzi del repertorio di Non è tutto, che, nell’ordine in cui appaiono al
lettore, sono il retro della tela di C’est n’est pas tout (sic) di
Filippo del Pisis (1949), cui segue a distanza la foto di Brai del dipinto
stesso, particolari isolati del quale figurano sulla copertina, scomposti ed
evidenziati quali programmatici grafismi; Renato Guttuso, La Vucciria (1974);
Enzo Nucci, Finestra sul Mediterraneo (2010).
Filippo De Pisis, Cest n’est pas
tout, 1949.
Un secondo gruppo cospicuo è rappresentato da disegni di
Bruno Caruso, venuto a mancare il 4 novembre dello scorso anno: Il falco sul
teschio (1980), El caballero de triste figura (Don Quijote) (1999), Cervantes
a Napoli (1999). Caruso fu e resta artista carissimo a Gerbino, che non ha
riserve a riconoscere quanto gli deve di ispirazione la totalità dei testi
affidati a questo suo inusuale catalogo.
Ai disegni di Caruso s’aggiungono altri dipinti
d’ispirazione fra metafisica e surreale, tra cui un Ceccotti e un Attardi. Se
però non fosse per alcune grandi opere classiche, che fungono da allegoresi
unificante, le altre immagini della personale galleria di Gerbino, quelle non
caratterizzate da un disegno dal tratto vigoroso ed esatto di un Guttuso o
Caruso o dalla traccia più spessa di un Garbari, parrebbero estranee alla
raccolta, nella quale si isolerebbero come paesaggi colti in vaghe luminosità o
incerte atmosfere crepuscolari, talora alternanti azzurro ed oro, ora
trascorrenti dal blu al nero (Levasti, Nucci, Modica, Guccione).
Simmetricamente disposto a inizio e fine della galleria
ideale è il grande affresco allegorico del Trionfo della Morte di
Palermo, esemplare di un genere didascalico-edificante bene attestato nell’arte
italiana tardo-medievale, che mette in scena una Morte dedita all’attività
venatoria, che ha dismesso la falce livellatrice del tempo, eguagliatrice dei
ceti quando giunge l’ora, per armarsi invece d’arco e turcasso e trafiggere di
sorpresa, verosimilmente coi dardi delle pestilenze periodicamente ricorrenti
nell’età media, giovani nel fiore degli anni, fanciulle dalle candide braccia,
che godono dei piaceri della caccia e dei ludi d’amore, resi più eccitanti
dall’intrattenimento/differimento attraverso la musica ed i versi eletti.
Trionfo della morte, XV sec., Palazzo Abatellis, Palermo
A questa immagine, la prima d’una galleria di reperti
disposti in rigorosa successione lineare, corrisponde il commento ammonitorio,
che a noi «per poco tempo incolumi spettatori», a noi, «impietosa umanità
dell’oggi, già corrotti nel lagunare stambugio del corpo», tocca di meditare
sull’«impervio incendio del mondo» e sulle «grida pervase dal raccapriccio». In
questi termini l’invito edificante a non distogliere la mente dalla fine nostra
incombente ricapitola i temi essenziali e costanti dell’opera grafica
sterminata di Bruno Caruso, che il palermitano Trionfo studiò,
attualizzò, variò, usandolo come vivaio d’immagini, e addirittura copiò in un
olio su tela nel 1999, che Aldo Gerbino riproduce miniaturizzato in coda, nel
corpo della sua postfazione.
Alla cavalcata del destriero dalle orbite cave seguono
immediatamente due raffigurazioni topiche del corpo morto: come ancora per poco
asettico oggetto della Lezione di anatomia del dottor Tulp di Rembrandt
(1632), ma nella rielaborazione grafica a suo tempo predisposta da Gerbino per
un breve testo epigrammatico di Sanguineti e come ripugnante materia in
decomposizione dell’anatomista e virtuoso ceroplasta barocco Gaetano Giulio
Zumbo, autore dell’impressionante diorama La pestilenza (1695 circa) del
museo zoologico della Specola.
La composita e ideale galleria personale messa assieme
dall’istologo ed embriologo presidente dell’Accademia delle Scienze Mediche di
Palermo, in quanto corrisponde a un’intenzione non immediatamente palese nelle
singole opere, fra loro tanto distanti e disparate per genere e distanza
cronologica, apparirebbe indubbiamente priva di coerenza e unità senza
l’illustrazione ecfrastica che, quasi autobiograficamente, ripercorre talune
tappe fondamentali di un processo continuo di acquisizione di cognizioni e
percezioni, che ha come filo conduttore la pratica e la memoria visiva,
l’emozione oggettivata nell’esperienza tattile e sensuale di un collezionismo
instancabile e accanito.
Gaetano Zumbo, La peste, 1695, part.
Ma l’illustrazione di cui dico si vale della procedura
indiretta dell’allusione erudita, che non conferma affatto l’individuazione
nella «sicilitudine», da parte del prefatore Ruffilli, dell’ispirazione
fondamentale di Gerbino, che, se questa davvero fosse la sua genesi di poeta e
critico d’arte, quasi non avrebbe sussistenza al di là dell’Oreto ed oltre il
Lilibeo, né fuori dell’orizzonte del pure assai culto pirronismo sciasciano,
precipitosamente scambiato con la razionalità di una Aufklärung
d’importazione, che sarebbe la radice di Gerbino scienziato.
Se le immagini del Trionfo della Morte aprono e
chiudono la galleria ideale delle figure, due strofe di Proust dedicate agli
stilemi rococò-edonistici di Watteau, nella raccolta Les plaisires et les
jours del 1896, sono offerte come chiave interpretativa per orientare il
lettore fra i 18 testi e le 18 immagini: una volta nella traduzione di Fortini,
nella pagina delle citazioni in esergo che precede la galleria, ed una seconda
volta, in francese, in epigrafe alla chiosa conclusiva intitolata Distanze,
che, proprio a partire da Proust, enuncia il principio di una poetica della non
compiuta equivalenza dei modi figurativi e verbali per comunicare un oggetto
dato, in quanto esso è intenzionato direttamente da una percezione emotivamente
connotata, e in quanto la stessa percezione lo coglie per intenzione obliqua,
non nel suo esserci-là ma in quanto è per così dire idealizzato, immaginato
mediante la «distanza» da un sentire affidato alla memoria selettiva.
Il verso cardine di Proust su Watteau recita: Le vague
devient tendre, et le tout près, lointain, presentando un doppio effetto di
divergenza della percezione dell’indeterminato atmosferico, da una parte e,
dall’altra, di ciò che è talmente vicino da essere quasi palpabile.
L’indefinito della luce crepuscolare, col suo palpitare instabile di chiari e
scuri, che dura fino al definirsi netto di un’alba o di un tramonto, evoca
tenerezza verso le figurine umane di uno dei tanti dipinti di Antoine Watteau,
trasfigurate dalla distanza come da una mascherata arcadica. L’estraniamento
del tout près, il suo distanziarsi, rende accettabile il gesto d’amore
più mendace (le geste d’aimer plus faux) ma nondimeno circonfuso di spleen
e seducente levità. La distanza giustifica, in altri termini, i riti mondani
che sdrammatizzano, legittimando la più disimpegnata fatuità, un eros tutto
affidato all’intrattenimento (barques, goûters, silences et musique) da
amanti che sanno bene «che l’amore ha bisogno d’essere abbellito con sapienza»
(L’amour ayant besoin d’être orné savamment). Implicita ma leggibile in
filigrana è insomma la gaia scienza psicologica che condanna il greve amore
romantico (e cristiano).
Bruno Caruso, Il falco sul
teschio, 1980
Questo commento di Proust, vero e proprio fil rouge
della Chiosa, è generalizzato e rivalutato da Gerbino in «principio di
distanza», che punta con decisione su di una scelta insieme tecnica e
stilistica della lettura proustiana di Watteau, che dallo sfondo (le
lointain nel lessico francese della pittura), dal «lontano» di un tableau,
fa nascere le atmosfere che in tenue continuità di coloriti cangianti assorbono
e sfocano le figure in proscenio. Così inteso, il «principio di distanza» può
valere come la lezione fondamentale di Bruno Caruso, quale si palesa nella «sua
volontà di scardinare la precisione della realtà con la distanza procurata dal
sogno, di phantàsmata ricreati dalla storia, nella doglianza della
vita». Nella sua dimensione emotiva la distanza è «doglianza», distaccato
disincanto dello spleen, che Caruso visse denunciando in disegni e
colore la «sublimata umana epopea» della violenza e iniquità della storia, tal
quale poté anche apparire al delirio vendicatore del malinconico Cavaliere
dalla triste figura, incarnazione di una giustizia irrealizzabile dalla sua
spada.
In maniera diversa Filippo De Pisis, primario centro
ispiratore della galleria ideale, visse solo da appartato dandy la
doglianza «nella carne», sofferenza lacerante rinnegata dal sarcasmo delle sue
mascherate. «Ho sempre apprezzato – osserva a proposito Gerbino – l’immagine di
quella “cipria di baci intorno a bocche stanche” [Proust, Watteau cit.]
in cui pertinacemente gioca a nascondino il comptulus di turno, cioè il
‘civettuolo’, il vanesio, lo sfarfallante soggetto qui equipaggiato da
inconsapevole funzione lenitiva e che ritrovo intatto nel finis dell’esistenza
del pittore e poeta ferrarese».
Attraverso l’esibizione di immagini di De Pisis ma
soprattutto in forza dell’approfondimento analitico di queste, il principio di
distanza si specifica in tesi dell’incompletezza e insufficienza delle singole
arti a esprimere adeguatamente uno stesso inesauribile oggetto. Una nostalgia
latente del Gesamtkunstwerk wagneriano, che certamente fu criterio
ideale di integrazione delle arti del Proust dei Plaisirs? Forse.
In ogni caso l’insufficienza delle singole arti a
rappresentare adeguatamente un medesimo oggetto, o la percezione di esso, è
detta chiaramente dal titolo dei diciotto testi per un catalogo, Non
è tutto, e dai particolari dell’omonima tela di De Pisis riprodotti sul
bianco della copertina: il vaso di fiori in quanto pittorica natura morta e la
penna e il calamaio, che rinviano a quelle parole e a quella scrittura che
l’olio su tela non riesce a dire.
Dal «fondo comune delle arti» (così Montale recensendo nel
1954 le poesie di De Pisis) non si perviene alla loro identità, ancorché
vagheggiata dall’illusione dell’autosufficienza di ciascuna. Fra la traccia del
pennello e quella della penna resta adesso, per un Gerbino che non trova più,
come ancora pochi anni fa, identità fra il «fondo comune delle arti» ed il
fondo di ciascuna di esse, talché le immagini e i testi a fronte corrispondenti
si comporterebbero come il mote enunciato nella copla, o cuarteta
o redondilla, e la sua glosa, forma poetica castigliana presente
nel capitolo 18 della seconda parte del Don Chisciotte, che nel medio
omogeneo della lingua dice la stessa cosa due volte: in forma liricamente
contratta e nel suo più esteso commento, parimenti rimato e incorporante come
clausole strofiche i versi illustrati. Adesso, avendo approfondito il principio
di distanza, Aldo scorge fra l’immagine e il testo a fronte «improvvisi salti
semantici capaci di dare uno stimolo, di ‘accelerare il pensiero’ (Brodskij)».
Dunque convergenza ponderatamente perseguita e non più identità.
Giuseppe Modica, Bagnanti,
2005
Naturalmente questa maniera di concepire la composizione per
contiguità di segni di differente natura, l’accoppiamento speculare di verba-picta
e spazialità, non può essere un ritorno agli inserti di testo biblico o
di massime edificanti direttamente o ai margini dello spazio pittorico delle
iconografie musive o affrescate dei luoghi del culto cristiano di un Medioevo
che imporrà i suoi stereotipi ben oltre i confini della Rinascenza. Il Trionfo
della Morte di Palermo, al quale non manca nessuna delle icone allegoriche
obbligatorie, non contiene bensì tali testi ma si può dire che li presupponga,
data la frequenza di cartelli e cartigli in tante delle opere trecentesche, o
posteriori, che ci sono pervenute: dall’affresco di Bartolo di Fredi in San
Francesco di Lucignano (Arezzo) a quello del Borlone per l’Oratorio dei
Disciplini di Clusone (Bergamo), due dipinti di grandi dimensioni che hanno a
soggetto la Morte come cacciatrice, non come ministra del Tempo, e presentano
la raffigurazione della caccia col falco, esattamente come nel capolavoro
palermitano. La saggezza semisapienziale cui si ispirano queste raffigurazioni
venatorie della cavalcata della Morte sono mirabilmente compendiate dal Libro
di Sidrac: «Che ène morte? Morte ène sonno eternale, paura delli ricchi,
desiderio delli povari, cacciatrice di vita, risolvimento di tutti».
Chiarito tutto ciò, possiamo congedarci dal lettore di
questa recensione per invitarlo a leggere i testi a fronte di Aldo Gerbino. Ma
non senza una doverosa postilla sul loro stile «apocalittico».
Non è l’accadere della morte il tema proposto da Aldo
Gerbino ma il corpo morto, considerato a partire dalla sua presenza non
solo virtuale nel putrido «stambugio del corpo», contemplato nella universale marcescenza
dei fiori recisi di De Pisis, simbolo, da freschi e tonici, di effimero lirismo
sessuale. E torna con insistenza il corpo morto: quello degli ortaggi e delle
carni diversamente offerte al consumo da Rembrandt e Guttuso, quello dei corpi
ignudi in abbandono di donne rideste da «tante morti apparenti», per non dire
della più cruda putrefazione dei corpi offerti allo sguardo osservatore dal
ceroplasta Zumbo, che si dilata in generale dissoluzione della luce nei
bagliori incerti dei crepuscoli. E poi, ancora? Poi, infine, il compiersi della
dissoluzione del corpo vivente nel suo definitivo ritorno alla materia
inorganica, che lo restituisce al cosmo. Ma il compiersi è senza fine.
Testo ripreso da Dialoghi Mediterranei, n. 38, luglio 2019
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