Firenze,
San Lorenzo - Donatello, Pulpito della resurrezione (1465), particolare
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La gioia e la fatica d'ogni giorno
Tomaso Montanari
Forse un artista più grande di
Donatello non ha mai camminato per le vie dell’Italia. Di sicuro nessuno ha mai
usato meglio la propria libertà: una libertà conquistata faticosamente, pezzo a
pezzo. Da vecchio, a ottant’anni, Donatello può fare quello che vuole. Può
immaginare la storia più famosa del mondo - quella di Gesù - come nessuno ha
osato fare fino a lui. E può fermare queste sue fantastiche e liberissime
immaginazioni non in un disegnetto schizzato a lapis, come accade a tutti gli
artisti, ma nel più nobile dei materiali: il bronzo.
Lo fa in una serie di rilievi che
formano due pulpiti per la sua amatissima Basilica di San Lorenzo, nel cuore di
Firenze.
La scena più impressionante racconta
l’episodio che da solo dà senso a tutta la religione cristiana: la resurrezione
di Cristo. E cioè il fatto che Gesù, all’alba del terzo giorno che trascorreva
nella tomba, dopo esser morto in croce, tornò alla vita. Il più grande trionfo
della storia dell’umanità: la sconfitta della morte. «O morte, dov’è la tua vittoria?
Dov’è ora il tuo pungiglione?», griderà poi san Paolo, con la voce di tutte le
generazioni.
Dunque, quando un artista - non
importa se pittore o scultore - doveva rappresentare la resurrezione,
raffigurava Gesù come un condottiero vincitore, come un atleta che era arrivato
primo, come un ginnasta che schizza fuori dal sepolcro mentre i soldati romani
dormono ignari. Un Gesù che sembra non esser mai stato morto: quasi che fosse
stata tutta una messinscena.
Donatello no. Il suo Gesù è vero
uomo, oltre che vero dio. Come vero dio è risorto davvero: ma come vero uomo
era morto sul serio. Donatello ce lo mostra appena uscito dal sepolcro. Ancora
completamente coperto dal sudario e dalle bende funebri: una specie di mummia
che cammina, come nei nostri film dell’orrore. Morire e risorgere: una fatica
terribile. Tutta la sofferenza del mondo, tutta la stanchezza del mondo: e ora
non ha nemmeno la forza di sbendarsi. Prima deve riprendere fiato, con un piede
appoggiato al suo sarcofago. Chiunque, vedendo questo Cristo fragile e
umanissimo, può credere che la resurrezione lo riguardi personalmente.
Quella carne stanca è la nostra
carne stanca. Quell’affanno è il nostro affanno. Nulla di bello riesce senza
fatica, al mondo: nemmeno la resurrezione.
E, su un incredibile sfondo di
architetture di vimini, i soldati dormono come pupi siciliani caduti dal
chiodo. Chiusi nelle loro armature non si accorgono di nulla. Proprio come noi.
TOMMASO MONTANARI, L'ora d'arte, Einaudi 2019