31 gennaio 2025

LE PAROLE HANNO CESSATO DI COMUNICARE?

Le parole hanno cessato di comunicare. Ogni parola è detta perché non se ne oda un’altra. La parola, anche quando non afferma, si afferma. La parola non risponde né domanda: accumula. La parola è l’erba fresca e verde che copre la superficie dello stagno. La parola è polvere negli occhi e occhi bucati. La parola non mostra. La parola dissimula. Per questo urge mondare le parole perché la semina si muti in raccolto. Perché le parole siano strumento di morte – o di salvezza. Perché la parola valga solo ciò che vale il silenzio dell’atto. C’è anche il silenzio. Il silenzio, per definizione, è ciò che non si ode. Il silenzio ascolta, esamina, osserva, pesa e analizza. Il silenzio è fecondo. Il silenzio è terra nera e fertile, l’humus dell’essere, la tacita melodia sotto la luce solare. Cadono su di esso le parole. Tutte le parole. Quelle buone e quelle cattive. Il grano e il loglio. Ma solo il grano dà il pane. (Josè Saramago – Di questo mondo e degli altri )

LENIN e PUTIN SULL' UCRAINA

LENIN, A DIFFERENZA DI PUTIN, VOLEVA L'AUTODETERMINAZIONE DELL' UCRAINA Vladimir Lenin nel 1920 ,così scriveva sulla Pravda a proposito dell'Ucraina. Putin oggi rimprovera a Lenin di aver in qualche modo contribuito alla nascita di quella nazione ,ma Putin al contrario di Lenin,non è un comunista,non lo é mai stato,anzi é il risultato del tradimento di quei valori che Lenin aveva teorizzato e per i quali aveva combattuto. Ed a tradire Lenin sono stati tanti. «Pravda», 1 gennaio 1920, Vladimir Ilʹič Lenin: «Va da sé che soltanto gli operai e i contadini d'Ucraina possono decidere e decideranno – nel loro congresso nazionale dei soviet – se la nazione ucraina deve fondersi con la Russia o costituire una repubblica autonoma, indipendente, e, in tale caso, con quale legame federativo dovrà associarsi alla Russia. (…) Noi vogliamo un'alleanza liberamente scelta tra le nazioni, un'alleanza che non tolleri alcuna violenza esercitata da una nazione su un'altra, un'alleanza fondata su una fiducia assoluta, su una coscienza netta dell'unità fraterna, un consenso totalmente libero. (…) Inoltre, noi comunisti della nazione 'grande russa' dobbiamo essere concilianti, mentre dobbiamo combattere in modo rigoroso, tra noi, le minime manifestazioni di nazionalismo 'grande-russo', poiché queste sono, in generale, un autentico tradimento del comunismo»

NOI SIAMO MEMORIA

“Noi siamo la nostra memoria, noi siamo questo museo chimerico di forme incostanti, questo mucchio di specchi rotti. ” Jorge Luis Borge

POTERI IN GUERRA TRA LORO

VIVA LA VUCCIRIA!

Viva La Vucciria! Giornata conclusiva con Quatriglio, Tornatore e Buttitta 1-feb-2025 Ascolta «La pittura è un’operazione magica», così si esprimeva lo stesso Renato Guttuso per spiegare quella forza attrattiva insita nell’arte pittorica. Una magia che continua ad affascinare, ad ammaliare e a rapire attraverso le pennellate cariche di colore della tela “La Vucciria” realizzata cinquant’anni fa ma capace di parlare a diverse generazioni. Sabato 1° febbraio, alle ore 18:30, allo Steri – Palazzo Chiaromonte, a piazza Marina, si svolgerà la giornata conclusiva del ciclo di eventi “Viva la Vucciria!”. Costanza Quatriglio, regista e direttrice artistica della sede palermitana della Scuola Nazionale di Cinema - Centro Sperimentale di Cinematografia e Giuseppe Tornatore, premio oscar nel 1999 e, tra i tanti riconoscimenti, insignito dall’Ateneo di Palermo della laurea Honoris causa in Scienze Filosofiche, dialogheranno con Ignazio Buttitta, professore e antropologo anch’egli legato al Maestro bagherese, in un percorso volto a esplorare il significato e l’eredità de “La Vucciria”. Nata dall’idea di esprimere l’essenza della città di Palermo, in realtà, la tela racconta emozioni che travalicano regioni e confini diventando testimonianza di sentimenti universali. L’Università degli Studi di Palermo conclude così il programma di eventi organizzato in collaborazione con Unipa Heritage - il nuovo volto del sistema museale di Unipa - e Coopculture. In occasione dei festeggiamenti per il mezzo secolo di vita del famoso dipinto di Guttuso sono stati diversi gli artisti e gli operatori culturali della città che hanno reso omaggio al quadro donato dal Maestro Guttuso all’Ateneo nel 1974. Oggi il dipinto è pienamente fruibile e, assieme alla sala dei Baroni e alle Carceri dell’Inquisizione spagnola, costituisce il nucleo fondamentale che fa del Palazzo Chiaromonte uno dei luoghi più importanti e visitati della Città con 30 mila visitatori nel 2024. Interverranno: il rettore dell’Università degli Studi di Palermo Massimo Midiri; il presidente del Sistema museale d’Ateneo, Michelangelo Gruttadauria; il delegato del rettore per le attività di Valorizzazione dei beni culturali, storici, monumentali e del brand Unipa, Paolo Inglese. L’evento, al quale sarà possibile partecipare in presenza dietro invito, sarà trasmesso in streaming (link accessibile qui) per garantirne la più ampia diffusione. La sala delle Armi, che custodisce il dipinto, può ospitare un numero ristretto di persone.

IL TEMA DELL' APPESO NELLE OPERE DI ITALO CALVINO

mercoledì 29 gennaio 2025 Il tema dell'appeso in Calvino carta dell'appeso è l'immagine che chiude la storia dell'Orlando pazzo per amore nel libro di Calvino " Il barone rampante (1957) Dall'albero più alto Cosimo nella smania di godere fino in fondo quel diverso verde e la diversa luce che ne traspariva e il diverso silenzio, si lasciava andare a testa in giù e il giardino capovolto diventava foresta, una foresta non della terra, un mondo nuovo. Il castello dei destini incrociati (1973) Le più tristi previsioni furono confermate dalla carta che venne poi, cioè l'arcano dodicesimo, detto Il Penduto, dove si contempla un uomo in brache e camicia, legato a testa in basso, appeso per un piede. Riconoscemmo nell'appeso il nostro giovane biondo: il brigante l'aveva spogliato d'ogni avere, e lasciato a penzolare da un ramo, a testa in giù. Nell'ultima carta si contempla il paladino legato a testa in giù come L'Appeso. E finalmente ecco il suo viso diventato sereno e luminoso, l'occhio limpido come neppure nell'esercizio delle sue ragioni passate. Cosa dice? Dice: - Lasciatemi così. Ho fatto tutto il giro e ho capito. Il mondo si legge all'incontrario. Le città invisibili (1971) Bersabea Si tramanda a Bersabea questa credenza: che sospesa in cielo esista un'altra Bersabea, dove si librano le virtù e i sentimenti più elevati della città, e che se la Bersabea terrena prenderà a modello quella celeste diventerà una cosa sola con essa. L'immagine che la tradizione ne divulga è quella d'una città d'oro massiccio, con chiavarde d'argento e porte di diamante, una città-gioiello, tutta intarsi e incastonature, quale un massimo di studio laborioso può produrre applicandosi a materie di massimo pregio. Fedeli a questa credenza, gli abitanti di Bersabea tengono in onore tutto ciò che evoca loro la città celeste: accumulano metalli nobili e pietre rare, rinunciano agli abbandoni effimeri, elaborano forme di composita compostezza. Credono pure, questi abitanti, che un'altra Bersabea esista sottoterra, ricettacolo di tutto ciò che loro occorre di spregevole e d'ingegno, ed è costante loro cura cancellare dalla Bersabea emersa ogni legame o somiglianza con la gemella bassa. Al posto dei tetti ci si immagina che la città infera abbia pattumiere rovesciate, da cui franano croste di formaggio, carte unte, resche, risciacquatura di piatti, resti di spaghetti, vecchie bende. O che addirittura la sua sostanza sia quella oscura e duttile e densa come pece che cala giù per le cloache prolungando il percorso delle viscere umane, di nero buco in nero buco, fino a spiaccicarsi sull'ultimo fondo sotterraneo, e che proprio dai pigri boli acciambellati laggiù si elevino giro sopra giro gli edifici d'una città fecale, dalle guglie tortili. Nelle credenze di Bersabea c'è una parte di vero e una d'errore. Vero è che due proiezioni di se stessa accompagnino la città, una celeste e una infernale; ma sulla loro consistenza ci si sbaglia. L'inferno che cova nel più profondo sottosuolo di Bersabea è una città disegnata dai più autorevoli architetti, costruita coi materiali più cari sul mercato, funzionante in ogni suo congegno e orologeria e ingranaggio, pavesata di nappe e frange e falpalà appesi a tutti i tubi e le bielle. Intenta ad accumulare i suoi carati di perfezione, Bersabea crede virtù ciò che è ormai un cupo invasamento a riempire il vaso vuoto di se stessa; non sa che i suoi soli momenti d'abbandono generoso sono quelli dello staccare da sé, lasciar cadere, spandere. Pure, allo zenit di Bersabea gravita un corpo celeste che risplende di tutto il bene della città, racchiuso nel tesoro delle cose buttate via: un pianeta sventolante di scorze di patata, ombrelli sfondati, calze smesse, sfavillante di cocci di vetro, bottoni perduti, carte di cioccolatini, lastricato di biglietti del tram, ritagli d'unghie e di calli, gusci d'uovo. La città celeste è questa e nel suo cielo scorrono comete dalla lunga coda, emesse a roteare nello spazio dal solo atto libero e felice di cui sono capaci gli abitanti di Bersabea, città che solo quando caca non è avara calcolatrice interessata. La foresta-radice-labirinto (1981) La fiaba racconta di un re, Clodoveo, che sta ritornando dalla guerra alla sua città, ma si perde con tutto il suo esercito nell'inestricabile foresta che è cresciuta intorno all'abitato. Una foresta che è come un labirinto con le radici che sembrano rami e i rami che sembrano radici. Altri si perdono insieme a lui e al suo fedele scudiero Amalberto e al suo esercito: la sua seconda moglie Ferdibunda e il ministro Curvaldo, che stanno tramando una congiura contro il re, la buona figlia Verbena e il suo innamorato Mirtillo.

EMILIA PEREZ: IL FILM DI JACQUES AUDIARD

Attraverso i generi. Emilia Pérez di Jacques Audiard di minima&moralia pubblicato venerdì, 31 Gennaio 2025 · di Marco Arienti Nel finale di Emilia Pérez una folla di messicani porta in processione una statua della protagonista intonando un canto in spagnolo sulla melodia di Les passantes, celebre canzone francese di Georges Brassens (tradotta peraltro in italiano da Fabrizio De André con la cover Le passanti), nella quale una serie di donne passa nuovamente, appunto, sotto lo sguardo di un uomo che le ha incrociate per qualche breve attimo della sua vita, e che ora le riunisce, le ricorda, le re-immagina e infine le riporta a una nuova categoria, un nuovo genere, quello della “passante”. Una bella trovata finale per un film, questo di Jacques Audiard, pieno di ibridazioni e sincretismi spericolati, animato da un’energia noncurante che mira a riscrivere le immagini, far scontrare i poli (anche il maschile e il femminile, certo) e generare nuove configurazioni. Non si tratta di un’opera a tema: ambientata in un Messico in buona parte ricostruito in studio (ma estremamente variegato, tra tribunali, discoteche, sobborghi e ville di lusso), maneggia in maniera abbastanza superficiale questioni complesse riguardo al percorso di transizione di genere e alla condizione interiore ed esteriore delle persone transgender – anche se, vale la pena notarlo, la scena in cui l’avvocata Rita Moro Castro riceve nella toilette delle donne la prima minacciosa telefonata della sua futura datrice di lavoro, appena dopo aver indossato un tampone, “trolla” sottilmente il bathroom argument transfobico, che vede le donne cis nei bagni pubblici potenzialmente esposte alle aggressioni di chiunque affermi, con cattive intenzioni, di identificarsi nel genere femminile. Dal punto di vista dei contenuti, quindi, si può comprendere la delusione per l’occasione mancata di offrire un ritratto trans più sfumato e fuori dagli stereotipi. I film (e i prodotti culturali in generale) sono però da valutare per quello che sono, invece che per quello che potrebbero (o peggio, dovrebbero) essere, e nel caso di Emilia Pérez adottare la chiave di lettura del cinema testimoniale rischia di essere fuorviante. Ad Audiard, infatti, occuparsi di identità di genere serve piuttosto da dispositivo narrativo per operare, quasi come il chirurgo incaricato dell’intervento di Emilia, sull’identità dei generi cinematografici. I diversi codici filmici convocati dal regista sono compressi in un unico corpo filmico, sformati e adulterati nel gioco delle loro interazioni reciproche; al tempo stesso però ognuno di essi, sostenuto dall’ossatura di una storia forte e trascinante con tutti i climax nei momenti giusti, rimane pienamente riconoscibile nei suoi tratti essenziali, che anzi ne escono quasi esaltati. Così, il musical si fa prosaico (nel recitar cantando dei numeri in clinica o nello studio del medico), bizzarro e autoriferito (la Jessi di Selena Gomez che si fa un reel mentre canta, specchiandosi nella videocamera del cellulare), esibendo senza mascheramenti la propria natura artificiosa e fondamentalmente fasulla (il brano “Mi camino”, interpretato sempre da Gomez, è messo in scena in un video-karaoke in cui addirittura si sbagliano le parole). Il gangster movie, coreografato (il caricamento dei fucili) e dominato dalle donne, rivela al di là della violenza la propria matrice passionale, che lo accomuna al melodramma; quest’ultimo, a sua volta contagiato dal musical, è ricondotto alla sua radice etimologica di “dramma cantato”, dove i sentimenti sono spettacolo, più che psicologia. Del cinema cosiddetto “civile”, infine, si prova a mettere in discussione non solo l’afflato edificante e dimostrativo, con Emilia che anche dopo il cambio di sesso e la conversione a benevola patrona dei desaparecidos mantiene attitudini possessive e manipolatorie verso i figli e l’ex moglie, ma pure il feticcio della vocazione a un preteso “realismo”, qui filtrato in molte scene attraverso la presenza di media (tele)giornalistici oppure, di nuovo, attraverso l’elemento musicale stesso. Il film d’altronde è in qualche modo tutto pervaso dell’aura dell’artefatto: Emilia Pérez è in fondo una spudorata pantomima postmoderna, come sembra suggerire già la primissima inquadratura di un gruppo di mariachi coi sombreros illuminati dalle lucine. Come la sua eroina divisa tra due vite, anche Emilia Pérez è una creatura ancipite: un esempio di ottimo cinema dall’anima classicamente narrativa (il consenso riscontrato nella stagione dei premi non è casuale) che però, per quanto ben lontano dall’avanguardia, si apre a sperimentazioni e innovazioni nei suoi moduli di riferimento. Da una parte sceglie di ancorarsi alla tradizione dei generi canonici, ma dall’altra, allo stesso tempo, cerca di contaminarli e sconvolgerli per stare dentro a una contemporaneità fluida (usiamo pure quest’aggettivo), in cui gli steccati tra i segni cadono e i significati si rimescolano tra loro. Una forma che si adegua alla materia del racconto, assumendo la transizione come propria principale cifra espressiva.

30 gennaio 2025

TODO MODO 3

"Tu sei come i tuoi elettori, cinico e feroce. Segui il tuo mandato fino in fondo. Tanto noi due cadremo insieme, tu con i tuoi ricchi impostori che ti tengono al governo, solo per proteggerli dai poveri. Io con il mio stupido gregge innocente e peccatore che aspetta da me solo il viatico per l'altro mondo." Elio Petri, ispirato da Leonardo Sciascia, sui leaders democristiani del suo tempo - Todo Modo (1976)

FESSI E FURBI OGGI

Guido Vitiello Fessofurbomachia Leggo sul nuovo Todomodo, la rivista degli Amici di Leonardo Sciascia, un saggio di Euclide Lo Giudice su un tema che mi pare della massima urgenza storica, ossia il ruolo del cretino e dei suoi fratelli (lo stupido, l’imbecille, il fesso) nella vita nazionale. Nel 1982, per una strenna Giuffrè, Sciascia firmò una breve prefazione al Codice della vita italiana (1917) di Prezzolini, soffermandosi sul primo articolo: “I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi”. Il fesso di Prezzolini paga il biglietto in ferrovia e dichiara al fisco il suo vero reddito; il furbo ha per segni distintivi la pelliccia, l’automobile e le molte donne. Sciascia non poteva che apprezzare l’identificazione tra fessaggine e onestà: il buon fesso in un contesto di furbi, ricorda Lo Giudice, figura spesso nei suoi romanzi, e la frase che suggella il fallimento del professor Laurana in A ciascuno il suo è appunto: “Era un cretino”. Qualche timida speranza Sciascia la affidava a una constatazione statistica, ossia che i fessi sono più numerosi dei furbi: “Solo che, come gli schiavi di Seneca (‘se gli schiavi si contassero…’), non si contano. E possiamo farcene idea, della schiacciante maggioranza che i fessi verrebbero a formare, solo che avessero consapevolezza del loro numero, dai tanti che quotidianamente e ovunque rimpiangono di non esser furbi”. Se ne deduce che i fessi dovrebbero acquisire la marxiana coscienza di classe, costituire qualcosa come un Fesso collettivo in grado di rovesciare il dominio oligarchico dei furbi. Impresa disperata perché, diceva ancora Prezzolini, il fesso in generale è stupido: se non lo fosse, avrebbe cacciato i furbi da un pezzo. Sembrano divertimenti da letterati, ma c’è chi li prende tremendamente sul serio, e la fessofurbomachia è stata per molti la chiave di lettura dell’ultimo ventennio. Mani Pulite come primizia tradita della rivoluzione dei fessi; Berlusconi come restauratore dell’Ancien Régime dei furbi; poi, una lunga guerra fratricida tra i due clan accampati sulla penisola. Certo, non tutti attingevano alla fonte prezzoliniana, politicamente un po’ torbida, lasciando che a sguazzarci fossero gli scugnizzi grillini sotto l’occhio di qualche zio montanelliano. Altri preferivano rifarsi all’apologo di Italo Calvino sull’onestà nel paese dei corrotti, che poggia sulle stesse premesse. Il punto di approdo ormai autoparodistico di questa antropologia è un’Amaca della settimana scorsa dove Michele Serra impartiva una sospirosa paternale a un giovane panettiere torinese che, avendo parcheggiato in doppia fila, si ribellava al vigile. Eppure, se l’ultima stagione italiana è magistra di qualcosa, è che la fessofurbomachia non genera che abbagli. Quasi non c’è fesso, sotto i nostri cieli, che non si presenti foderato da uno spesso strato di furbizia (è la cifra di intere carriere machiavelliche o togliattiane); e il furbo marcia volentieri sotto le insegne dell’onesta fessaggine, può perfino mettersi alla testa del partito dei fessi (è il caso di Di Pietro, prima che lo soppiantasse la superspecie geneticamente modificata dei furbofessi grillini). Abbandoniamo dunque gli schemi semplici, e sforziamoci di immaginare un nastro di Möbius dove la furbizia trascolora insensibilmente nella fessaggine, che a sua volta si rovescia in furbizia, in una ricorsività infinita. Sono lo yin e lo yang del Tao nazionale, dove ciascun principio contiene il seme del proprio opposto. Questo Prezzolini non lo capì, e neppure Sciascia. Lo capì Dino Risi, e con In nome del popolo italiano celò la grande intuizione sotto le spoglie ingannevoli di una fessofurbomachia tra Gassman e Tognazzi. Pochi se ne accorsero. Ma per l’uscita del film in Polonia, nel 1974, Jerzy Flisak disegnò una locandina stilizzata dove, su fondo bianco, un omino rosso e un omino verde sono intrecciati alle spire di un serpente dell’Eden, che quasi ne fa gemelli siamesi. Quando ci decideremo a mettere in solaio il tricolore di Longanesi con il motto “tengo famiglia”, sappiamo già con che sostituirlo. (Guido Vitiello)

TSUNAMI D' ORRORE

Tsunami di orrore Franco Berardi Bifo 30 Gennaio 2025 Quali effetti è destinato a produrre sulla mente in formazione la normalità dell’orrore, questa normalità del nazismo che ai tempi di Hitler nascondeva le torture, mentre ai tempi di Netanyahu le rivendica come segno di superiorità? Gaza in questi giorni. Foto di Gaza FREEstyle L’assassinio di Hind Rajab da parte dei nazisti dell Israeli Defense Force rimarrà forse come uno dei simboli del precipizio di disumanità che sta trascinandoci verso l’orrore assoluto. Il 29 gennaio 2024 un carro armato israeliano colpì un’auto nella quale Hind Rajab, anni sei, viaggiava con alcuni parenti. I parenti morirono subito, ma Hind sopravvisse al primo attacco e telefonò alla Mezzaluna rossa chiedendo disperatamente aiuto. I soccorritori che furono mandati ad aiutarla furono uccisi dall’esercito israeliano. Hind rimase per due ore nell’abitacolo dell’auto fin quando uno dei 335 colpi sparati non la colpì uccidendola. Se esistesse una classifica della ferocia umana l’esercito israeliano si avvicinerebbe a ottenere il primo posto, contendendolo alle SS hitleriane. Ma la gara rimane aperta, e non possiamo escludere sorprese nella fase finale della gara, quella in cui il Demente in Capo Donald Trump promette di battere tutti nello sprint. Intanto trentamila migranti verranno detenuti nel campo di concentramento di Guantanamo, nel quale per più di venti anni sono stati detenuti islamisti accusati di terrorismo, anche se alcuni di loro non hanno mai avuto un processo. Il governo fascista di Roma, invece, libera un libico sul quale la Corte Penale internazionale indaga per torture, stupri, omicidi, deportazioni e traffico illegale di esseri umani. La Libia è il campo di concentramento e sterminio finanziato dal governo di Roma. L’Albania aspira a diventarlo. Ogni giorno la demenza senile della razza bianca produce nuove mostruosità. Alcune appaiono talmente deliranti da rasentare il comico. Comico e tragico in effetti si stanno intrecciando sulla scena globale in un precipizio di orrore che sembra non avere altro scopo se quello di eccitare i sentimenti di sadismo di una popolazione affetta da psicosi incurabile. Mentre disegniamo una mappa del precipizio il panorama cambia continuamente: poiché si sprofonda a grande velocità, non c’è appiglio che possa fermare la caduta, e il buio si infittisce. Il genocidio messo in atto dall’entità sionista è il punto di irradiazione di un genocidio che si estende verso ogni area del pianeta. La maggioranza dei giovani di tutto il pianeta hanno manifestato contro il genocidio, e hanno espresso il loro disgusto per l’orrore spaventoso che ogni giorno appare sullo schermo, ma dobbiamo attenderci che la mutazione cognitiva coinvolga in qualche maniera la stessa percezione dell’orrore. L’interazione con l’automa connettivo digitale produce al tempo stesso una fragilità emotiva (snowflake generation, l’ha chiamata qualcuno) e una perdita di sensibilità. Infantilismo e cinismo insieme. Il genocidio di Gaza si svolge in contemporanea (e va compreso come complementare) alla formattazione transumana degli organismi intelligenti. Nel quadro di questa formattazione viene progressivamente evacuata la sensibilità e quindi la coscienza come facoltà di discriminazione etica. L’umano è fuori formato, inadeguato a comprendere le condizioni transumane. Quando gli organismi intelligenti si formavano in congiunzione con il corpo dell’altro, l’atrocità provocava una reazione di orrore negli organismi sensibilizzati e perciò coscienti. La coscienza etica non era che una manifestazione della sensibilità congiuntiva. Ma la sensibilità congiuntiva si sta affievolendo, rimpiazzata dalla insensibilità connettiva. Questo annuncia la Terminazione del genere umano. Ancor più che il collasso climatico è proprio la psicosi da de-sensibilizzazione che annuncia il suicidio prossimo dell’umanità. Gli organismi intelligenti cresciuti in ambiente connettivo possono perdere la percezione dell’orrore perché il corpo dell’altro appare sempre più come un fantasma virtuale e sempre meno come estensione sensibile del corpo proprio. L’organismo formattato connettivamente tende a divenire insensibile alla sofferenza, all’atrocità, perché vien meno l’empatia per il corpo dell’altro, quando l’altro è registrato come stimolo neuro-semiotico, piuttosto che come corpo sensibile. Lo tsunami di orrore che Israele ha riversato sull’attenzione globale si mescola con lo tsunami di orrore che si va diffondendo alla frontiera tra il sud e il nord del mondo, dove eserciti di migranti si spostano cercando salvezza e trovano respingimento, violenza, campi di concentramento, schiavismo e cani poliziotto aizzati dalle guardie di frontiera. Quali effetti è destinato a produrre sulla mente in formazione questa normalità dell’orrore, questa normalità del nazismo che ai tempi di Hitler nascondeva le torture, mentre ai tempi di Netanyahu le rivendica come segno di superiorità?

IL POTERE DELL' UNO

giovedì 30 gennaio 2025 Il potere dell'uno di MICHELE CILIBERTO Se risaliamo il tempo lungo della storia, scopriamo che la democrazia si è più volte tramutata in tirannide. Ciò significa che il governo dei molti è destinato per sua natura a cedere il passo al governo dell’uno? E che tipo di potere è la tirannide? Questi gli interrogativi che hanno alimentato la riflessione politica da Tacito a Machiavelli, da Bodin a Spinoza e che sono tornati oggi di grande attualità. Negli Annali Tacito racconta che l’imperatore Tiberio fu costretto dalle circostanze, contro il suo volere, a diventare un tiranno per porre fine definitivamente a discordie e guerre civili. Secoli dopo, all’inizio dell’età moderna, sembrò ripetersi una storia simile quando in tutta Europa le repubbliche cedettero il passo al principato. Così, la ricostruzione di Tacito, da poco riscoperto, divenne il modello sul quale i filosofi moderni imbastirono la loro riflessione intorno al tema della tirannide. Savonarola e Machiavelli, Guicciardini e Bodin, Shakespeare e Spinoza ne mostrarono però i limiti. I due poli di questo confronto ideale furono Tacito e Spinoza poiché proposero due concezioni opposte del potere e, di conseguenza, due posizioni antitetiche nei confronti del governo di uno solo: se per Tacito era una necessità ineluttabile, per Spinoza era un male da evitare a tutti i costi. È significativo, però, che unanime fu l’interpretazione della tirannide: un potere opaco, ‘velato’, dai contorni e dalle finalità occulte. Un potere che oggi sembra tornare a stendere la propria ombra sulla nostra società. (presentazione editoriale del libro di Ciliberto) -------------------------------------------------- Nella recensione scritta da Luciano Canfora per il Corriere della Sera l'antitesi tra Tacito e Spinoza rimane in ombra, mentre quello rappresentato dalla tirannide è visto come un problema insolubile. Il filosofo olandese è nominato appena e collegato solo all'idea di libertà. Nel testo della recensione la democrazia non è mai nominata. Compare una volta sola l'aggettivo "democratica", tra virgolette. Ed ecco il problema senza soluzione: a fronte dell'uno che, pur dotato di efficacia nella conduzione degli affari pubblici, tende ad abusare del suo potere, e spesso ne abusa, si viene a trovare la massa dispersa e confusa di un popolo ondivago, incapace di adottare una politica e di metterla in atto. Già al tempo di Spinoza, tuttavia, non si afferma solo l'idea di libertà, torna in auge la democrazia come regime auspicabile. Canfora poi si riferisce per lo più alla tirannide quando ragiona sul potere dell'uno, ma in una articolazione importante del suo discorso tira fuori invece il dispotismo, che era un po' un'altra cosa. Viene trascurato l'atteggiamento del popolo che non è lo stesso nei due casi: adesione sia pure parziale per la tirannide, rifiuto per il dispotismo. Luciano Canfora, Anatomia del tiranno, Corriere della Sera, 30 gennaio 2025 Al tempo nostro, che indulge così spesso alla guerra lessicale contro i «despoti» altrui, giova l’ammonimento di Thomas Hobbes nel De cive: il tiranno è il sovrano come è visto dai suoi nemici. Ben venga dunque un libro di studio su materia così bistrattata nella cronaca corrente. L’ha scritto uno studioso dell’età del Rinascimento, Michele Ciliberto, e sarà presto in libreria. Quando Concetto Marchesi decise, ormai più che quarantenne, e già professore ordinario di Latino a Messina, di laurearsi in Giurisprudenza onde avere un mestiere di riserva nel caso il fascismo gli avesse tolto la cattedra, scelse come argomento della tesi «Il pensiero politico e giuridico di Tacito». E a Tacito dedicò, poco dopo (1924), un libro importante ancora oggi dopo un secolo dalla sua pubblicazione. Del pensiero politico di Tacito aveva parlato anche a Milano, al Circolo filologico, alla fine del ’23, in una conferenza cui diede molto rilievo il «Corriere della Sera». Il suo tema era «il potere dell’uno», il principato come risoluzione del problema politico. Bene ha fatto dunque Michele Ciliberto, nell’imminente saggio laterziano Il potere velato. Tirannide, eguaglianza, libertà da Tacito a Spinoza, a porre in relazione Tacito, come letto da Marchesi, con la riflessione di Guicciardini sullo stesso tema. Tema che è al centro di una più che bimillenaria riflessione sul problema insolubile della «migliore forma di governo»: almeno a partire dal dialogo erodoteo a somma zero (III, 80-82), al termine del quale la soluzione monarchica si afferma (e magari appare anche proficua), ma con l’inganno. Ciliberto mette a frutto anche Pace e libertà nel mondo antico di Arnaldo Momigliano (lezioni a Cambridge gennaio-marzo 1940) edite in italiano nel 1996. Nello stesso torno di tempo, Momigliano recensiva sul «Journal of Roman Studies» l’importante libro di Ronald Syme The Roman Revolution (1939): un libro che, in prefazione, alludeva all’opportunità di optare per la pax anche a costo di sacrificare la libertas. Il che a Momigliano in fuga dall’Italia razzista non molto piacque. Ma a questo punto si impone la questione della qualità del princeps. Marchesi, partendo da Tacito prospettava apertamente la soluzione del «buon» principe (dispotismo illuminato): soluzione aleatoria — egli osservava interpretando Tacito — perché il princeps può essere Nerva ma può anche essere Nerone o Domiziano, o caso molto più complicato — Tiberio. E quanto ad Augusto, lo stesso Tacito dava un giudizio ancipite (Annali I, 9-10). Di Tiberio, Marchesi si ricorderà nel 1956 nel fuoco delle polemiche retroattive sull’opera di Stalin: «Tiberio, grande e infamato imperatore di Roma, ebbe come giudice Cornelio Tacito, a Stalin, meno fortunato, toccò Nikita Krusciov» (intervento all’VIII Congresso del Pci, dicembre 1956). Ciliberto si spinge oltre Guicciardini, fino a Spinoza e alla sua idea di libertà. Ma la culla, gli incunaboli della discussione dell’insolubile problema erano nell’esperienza greca. In Tucidide che rivaluta il governo di Pisistrato e deride la confusione, tipica della propaganda «democratica», tra oligarchia e tirannide. E soprattutto nel cimento dei due maggiori storici tra V e IV secolo a.c., Tucidide e Teopompo, rispettivamente alle prese con le due figure «demoniche» del potere; Alcibiade e Filippo il Macedone. Ad un certo punto della sua riflessione, Tucidide, che approderà alla fine anche lui alla soluzione del buon princeps (cioè Pericle: II, 65), affronta il caso Alcibiade e constata che gli Ateniesi, togliendo il comando a lui (che pur aveva ricondotto Atene alla vittoria) perché «per la sua vita privata lo ritenevano aspirante alla tirannide», mandarono in rovina la città (VI, 15). Il caso di Teopompo, soggiogato dalla figura inquietante di un facitore di storia quale Filippo il Macedone, è perfetto. Polibio, cui dobbiamo la conoscenza di quella pagina memorabile di Teopompo, non capiva e pensava di cogliere Teopompo in contraddizione: «Sarebbe da biasimare — scriveva — soprattutto Teopompo, il quale — dopo aver detto all’inizio della sua opera che l’Europa non aveva mai generato una personalità della statura di Filippo il Macedone — poi per il resto dell’opera lo descrive come immorale: intemperante, ingiusto, fedifrago etc.» (VIII, 9). Quella di Teopompo era la scelta che fu poi di Ibn Haldun, massimo storico arabo, il quale nell’anno 1400 si recò da Tunisi fino a Damasco «per vedere Tamerlano» da vicino: per vedere da vicino il grande «despota» vincente. Quasi mezzo secolo fa un grecista italiano di mente moderna, Diego Lanza, scrisse un libro che riguarda il teatro ateniese del grande secolo (Il tiranno e il suo pubblico, Einaudi 1977) ma che è di fatto un libro sul potere, e sulla rappresentazione del potere sulla scena, che ad Atene significava l’intera città: molto prima di Re Lear. Il problema è ancora lì.

ALMASRI E' IL NIPOTE DI MUBARAK...

Il disprezzo per le regole è totale. Davvero questi governanti si credono al di sopra della legge ed evocano complotti inesistenti di fronte a un pasticcio come il rimpatrio su volo di Stato di un criminale internazionale? Davvero credono di potere coprire impuniti gli indicibili accordi con la Libia, anche quelli preesistenti - così, per dovere di cronaca - stipulati dal governo di centrosinistra di Paolo Gentiloni, ministro Marco Minniti. Dunque: spedire un avviso di indagine per capire - lo farà il tribunale dei ministri - chi abbia deciso cosa e se nel farlo abbia commesso reato, è lesa maestà. Per la quale ci si affanna ad attribuire in libertà patenti di sinistrismo a un procuratore che semmai risulta politicamente più orientato a destra - almeno nella militanza associativa - e a un avvocato che non ha difeso mafiosi, ma collaboratori di giustizia. E che ha militato nel Msi e in An e poi anche in IdV, non esattamente la stessa cosa di Autonomia operaia. Viene da chiedersi se la nostra intelligence operi con la stessa approssimazione nel fornire informazioni alla presidente del Consiglio. Perché, se fosse così, forse tutto, anche il caso Almasri, sarebbe più chiaro. ENRICO BELLAVIA

SIETE STATI VINTI IL GIORNO IN CUI VI SIETE MESSI SULL' ATTENTI E AVETE COMINCIATO A DIRE SI

Ecco gli elmi dei vinti, abbandonati in piedi, di traverso e capovolti. E il giorno amaro in cui voi siete stati vinti non è quando ve li hanno tolti, ma fu quel primo giorno in cui ve li siete infilati senza altri commenti, quando vi siete messi sull’attenti e avete cominciato a dire sì. BERTOLT BRECHT

29 gennaio 2025

PARTINICO OGGI

A Partinico sembra che qualcuno ricordi ancora il recente passato. Ma, come notavamo qualche anno fa, malgrado i cambiamenti prodotti dallo "sviluppo senza progresso" - di cui parlava Pasolini - Partinico, come il resto della nostra isola, non è molto cambiata. Il "sistema di potere clientelare-mafioso", denunciato da Danilo Dolci negli anni sessanta del secolo scorso, è ancora ben vivo. (fv) Banditi a Partinico, ieri e oggi di Francesco Virga E’ stato finalmente ristampato dall’ Editore Sellerio di Palermo un libro di Danilo Dolci degli anni cinquanta, difficile da trovare perfino nelle maggiori biblioteche . L’opera, che aveva suscitato un clamore straordinario, s’ intitolava Banditi a Partinico ed era stata pubblicata nel 1955 da Laterza. La nuova edizione è corredata dalle originali fotografie di Enzo Sellerio che ne rafforzano il valore documentario, espunte dalla prima per ragioni economiche, e risulta arricchita anche per la bella postfazione di Paolo Varvaro. Il libro “scritto dalle cose e da tutti”, come Danilo amava definire i suoi libri-inchiesta, si articola in due parti. La prima, corredata anche da sommari dati statistici, ha il carattere dell’analisi sociologica che documenta lo stato di miseria e di abbandono in cui viveva gran parte della popolazione tra Partinico e Trappeto in quegli anni. La seconda, più descrittiva ed emotivamente coinvolgente, raccoglie alcune esemplari storie di vita di persone residenti nella zona che raccontano, con il loro povero ma espressivo linguaggio, le loro amare esperienze ( alcune di queste storie saranno successivamente riprese in Racconti siciliani). Ci pare utile riproporre dei passi della Prefazione di Norberto Bobbio alla prima edizione che aiutano a capire la forza d’impatto che ebbe il libro: “Vorrei che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia, hanno una cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie nazionali magari remote o per flagellare terribilmente i vizi dei cattivi cristiani. Sono pagine che scuotono sia la pigra sicurezza dei ripetitori compiaciuti di formule patriottiche sia il sussiego moralistico degli accusatori secondo le leggi stabilite. (…) Quante volte ciascuno di noi ha rimuginato un lungo e complicato discorso sulla situazione della nostra società e delle nostra cultura, e sui rapporti tra questa società e questa cultura, quali si sono rivelati in modo drammatico negli anni dopo la caduta del fascismo. Queste pagine di Danilo Dolci lo abbreviano singolarmente, portandoci in mezzo alle cose, a quelle cose che non conoscevamo o volevamo non conoscere o fingevamo di non conoscere. E sono, da un lato, la miseria, la fame, la follia, la disperazione di un piccolo quartiere di una cittadina della Sicilia; dall’altro, l’indifferenza, l’incuria, il cinismo, la prepotenza di coloro, grandi e piccoli, che reggono le sorti dello Stato. Sono due facce della stessa medaglia .” Le belle ed appassionate parole di Bobbio, oltre a fornire la chiave per leggere nel modo migliore l’opera dell’anomalo sociologo triestino, sono preziose anche per ricostruire il dibattito culturale di quel tempo: “Per molti di noi il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati l’occasione per la scoperta di un’Italia segreta e nascosta, dell’Italia non ufficiale, di cui la cultura dominante, tutta affaccendata in polemiche filosofiche o ideologiche o di scuola ( contro il positivismo, contro il pragmatismo, contro l’irrazionalismo, contro l’attivismo e via con mille altri nomi astratti) ci aveva poco o nulla parlato, e di cui la politica dei politici aveva spudoratamente negato l’esistenza. Si cominciò a guardare l’Italia non più dall’alto in basso, ma di sotto in su, dal punto di vista dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di storia etico-politica, (…) per la semplice ragione che le loro gesta o non valevano la pena di essere narrate o se venivano tramandate non era attraverso quel segno dell’individuazione che è il nome proprio, ma attraverso nomi collettivi come contadini, braccianti, plebe, massa, soldati, banditi. Proprio per questa scoperta il Cristo si è fermato a Eboli ebbe quella risonanza e quell’influsso che ognuno oggi è disposto a riconoscergli, ed ha un’importanza non soltanto letteraria ma storico-culturale o politica (…).” Certamente tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Partinico e la Sicilia non sono più quelli descritti da Danilo Dolci mezzo secolo fa. Non esiste più la fame e la miseria di allora. Persistono, comunque, tante altre forme di miseria e, soprattutto, insieme all’immarcescibile sistema di potere clientelare-mafioso, di cui un illustre storico aveva incredibilmente annunciato la fine solo qualche anno fa, sopravvive una classe dirigente (e non mi riferisco solo alla classe politica) parassitaria, arrogante e insipiente che mostra ogni giorno di più di non essere all’altezza del suo compito. FRANCESCO VIRGA

IL GIOVANE GRAMSCI A TEATRO RECENSISCE "CASA DI BAMBOLA" DI IBSEN

src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhIhlaOQPlnCYaaTV9JDcaGWofukOrv3NCzDwi-UgVgHqPkWyF13TC0kh98r7T0JRz-OhIREq3vIOezmvdzuGx7dyp6TOlbM3Q8D_rDPiIs00Nsfrql9T5gRdLRPuDQj6YaJSjG81jIB2YgDKEBhYF3GsRbW2kgYR-amyQP2MawYLFYaqB5kFJo7Pe7n9M/s400/475320869_3019325531548824_6281603181342953914_n.jpg"/>
Anche Arbasino ha ammirato le recensioni che il giovane Gramsci scrisse sull'edizione torinese de L'AVANTI negli anni della prima guerra mondiale. Sopra abbiamo abbiamo inserito alcune pagine della recensione della celebre opera di IBSEN. Di seguito ne trascriviamo una parte. Questa recensione 50 anni fa colpì anche me, al punto tale che ne parlai nella mia tesi di laurea: Emma Gramatica [nella foto allegata], per la sua serata d’onore, ha fatto rivivere, dinanzi a un pubblico affollatissimo di cavalieri e di dame, Nora della "Casa di bambola", di Enrico Ibsen. Il dramma evidentemente era nuovo per la maggioranza degli spettatori. E la maggioranza degli spettatori se ha applaudito con convinzione simpatica i primi due atti, è rimasta invece sbalordita e sorda al terzo, e non ha che debolmente applaudito: una sola chiamata, più per l’interprete insigne che per la creatura superiore che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo. Perché il pubblico è rimasto sordo, perché non ha sentito alcuna vibrazione simpatica dinanzi all’atto profondamente morale di Nora Helmar che abbandona la casa, il marito, i figli per cercare solitariamente se stessa, per scavare e rintracciare nella profondità del proprio io le radici robuste del proprio essere morale, per adempiere ai doveri che ognuno ha verso se stesso prima che verso gli altri? Il dramma, perché sia veramente tale, e non inutile iridescenza di parole, deve avere un contenuto morale, deve essere la rappresentazione di un urto necessario tra due mondi interiori, tra due concezioni, tra due vite morali. In quanto l’urto è necessario il dramma ha immediata presa sugli animi degli spettatori, e questi lo rivivono in tutta la sua integrità, in tutte le motivazioni da quelle più elementari a quelle più squisitamente storiche. E rivivendo il mondo interiore del dramma, ne rivivono anche l’arte, la forma artistica che a quel mondo ha dato vita concreta, che quel mondo ha concretato in una rappresentazione viva e sicura di individualità umane che soffrono, gioiscono, lottano per superare continuamente se stesse, per migliorare continuamente la tempra morale della propria personalità storica, attuale, immersa nella vita del mondo. Perché allora gli spettatori, i cavalieri e le dame che l’altra sera hanno visto svilupparsi, sicuro, necessario, umanamente necessario, il dramma spirituale di Nora Helmar, non hanno a un certo punto vibrato simpaticamente con la sua anima, ma sono rimasti sbalorditi e quasi disgustati della conclusione? Sono immorali questi cavalieri e queste dame, o è immorale l’umanità di Enrico Ibsen? Né l’una cosa né l’altra. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume alla morale più spiritualmente umana. È avvenuta semplicemente una rivolta del nostro costume (e voglio dire del costume che è la vita del pubblico italiano), che è abito morale tradizionale della nostra borghesia grossa e piccina, fatto in gran parte di schiavitù, di sottomissione all’ambiente, di ipocrita mascheratura dell’animale uomo, fascio di nervi e di muscoli inguainati nella epidermide voluttuosamente pruriginosa, a un altro costume, a un’altra tradizione, superiore, più spirituale, meno animalesca. Un altro costume, per il quale la donna e l’uomo non sono più soltanto muscoli, nervi ed epidermide, ma sono essenzialmente spirito; per il quale la famiglia non è più solo istituto economico, ma è specialmente un mondo morale in atto, che si completa per l’intima fusione di due anime che ritrovano l’una nell’altra ciò che manca a ciascuna individualmente: per il quale la donna, non è più solamente la femmina che nutre di sé i piccoli nati e sente per essi un amore che è fatto di spasimi della carne e di tuffi di sangue, è una creatura umana a sé, che ha una coscienza a sé, che ha dei bisogni interiori suoi, che ha una personalità umana tutta sua e una dignità di essere indipendente. Il costume della borghesia latina grossa e piccola si rivolta, non comprende un mondo così fatto. L’unica forma di liberazione femminile che è consentito comprendere al nostro costume, è quella della donna che diventa "cocotte". La "pochade" è davvero l’unica azione drammatica femminile che il nostro costume comprenda; il raggiungimento della libertà fisiologica e sessuale. Non si esce fuori dal circolo morto dei nervi, dei muscoli e dell’epidermide sensibile. Si è fatto un grande scrivere in questi ultimi tempi sulla nuova anima che la guerra ha suscitato nella borghesia femminile italiana. Retorica. Si è esaltata l’abolizione dell’istituto dell’autorizzazione maritale come una prova del riconoscimento di questa nuova anima. Ma l’istituto riguarda la donna come persona di un contratto economico, non come umanità universale. È una riforma che riguarda la donna borghese come detentrice di una proprietà, e non muta i rapporti di sesso e non intacca neppure superficialmente il costume. Questo non è stato mutato, e non poteva esserlo, neppure dalla guerra. La donna dei nostri paesi, la donna che ha una storia, la donna della famiglia borghese, rimane come prima la schiava, senza profondità di vita morale, senza bisogni spirituali, sottomessa anche quando sembra ribelle, più schiava ancora quando ritrova l’unica libertà che le è consentita, la libertà della galanteria. Rimane la femmina che nutre di sé i piccoli nati, la bambola più cara quanto è più stupida, più diletta ed esaltata quanto più rinunzia a se stessa, ai doveri che dovrebbe avere verso se stessa, per dedicarsi agli altri, siano questi altri i suoi familiari, siano gli infermi i detriti d’umanità che la beneficenza raccoglie e soccorre maternamente. L’ipocrisia del sacrifizio benefico è un’altra delle apparenze di questa inferiorità interiore del nostro costume. Nostro costume. Cioè costume che ha importanza nella storia attuale, perché è il costume della classe che è della storia stessa protagonista. Ma accanto a esso è un altro costume in formazione, quello che è piú nostro, perché è della classe cui apparteniamo noi. Costume nuovo? Semplicemente costume che si identifica meglio con la morale universale, che aderisce tutto alla morale universale, tale perché profondamente umana, perché fatta di spiritualità piú che di animalità, di anima piú che di economia o di nervi e muscoli. Le cocottes potenziali non possono comprendere il dramma di Nora Helmar. Lo possono comprendere, perché lo vivono quotidianamente, le donne del proletariato, le donne che lavorano, quelle che producono qualcosa di piú che non siano i pezzi d'umanità nuova e i brividi voluttuosi del piacere sessuale. Lo comprendono, per esempio, due donne proletarie che io conosco, due donne che non hanno avuto bisogno né del divorzio né della legge per ritrovare se stesse, per crearsi il mondo dove fossero meglio capite e piú umanamente se stesse. Due donne proletarie le quali, col consentimento pieno dei loro mariti, che non sono cavalieri ma lavoratori semplici e senza ipocrisie, hanno abbandonato la famiglia, e sono andate con l'uomo che meglio rappresentava l'altra loro metà, e hanno continuato nella antica dimestichezza, senza che perciò si creassero le situazioni boccaccesche che sono un retaggio piú proprio della borghesia grossa e piccola dei paesi latini. Esse non avrebbero grossolanamente riso della creatura che la fantasia di Ibsen ha messo al mondo, perché avrebbero riconosciuto in lei una sorella spirituale, la testimonianza artistica che il loro atto è compreso altrove, perché essenzialmente morale, perché aspirazione di anime nobili a una umanità superiore, il cui costume sia pienezza di vita interiore, escavazione profonda della propria personalità e non vile ipocrisia, solletico di nervi ammalati, animalità grassa di schiavi diventati padroni. Antonio Gramsci (22 marzo 1917, in l' "Avanti!", ed. torinese).

UN ANTICO POEMA D' AMORE

L’Iperode, poema d’amore in quindicimila versi di Raffaele K. Salinari Il poema, la poesia in generale, è sempre stata la forma prediletta per la comunicazione delle Cose Ultime, una sorta di simbologia in versi che coniuga musicalità e logos, come nella Creazione. È, infatti, questa potenza vibrazionale, che si carica di ritmo ad ogni verso, a creare una vera e propria onda che, alla fine, sommerge l’io del lettore inducendolo in uno stato di coscienza amplificata, sottile, in cui, forse, è possibile cogliere l’essenza dell’Essere. La ricerca dell’essenza amorosa, della sua potenza ricongiungitiva al Tutto, è l’eterno tema del poema L’Iperode, di Lorenzo Bernardo, edito per La Scuola di Pitagora (pag. 630, € 40), che si immette nel solco di questo espediente artistico antichissimo, che forse nasce prima ancora della parola scritta, come mitologia del racconto, aura percepibile di qualcosa che altrimenti resta invisibile. Gli ascendenti classici vanno da Omero a S. Giovanni della Croce, da Rumi sino alle Elegie Duinesi di Rilke, passando per il grande poema di Dante, tutti impegnati nel trovare nel verso il solvente universale dell’anima personale in un mare di amore angelicato che attraverso un singolo soggetto amato, catalizza alchemicamente la trasmutazione verso quel “fondersi senza confondersi” con la Sorgente che rappresenta il compimento della Grande Opera di tutti i mistici. Ma la via amorosa è ardua, forse la più impervia, fatta di improvvisi lampi di luce accecante attraverso i quali si svela la possibilità, e lunghi momenti di oscurità, da percorrere sino in fondo, senza paura, senza che la fede nell’amata smetta un solo momento di illuminare l’anima in cammino. Questo è il tema portante dell’Iperode che sdoppia e duplica, per così dire, la ricerca dell’essenza divina come ce la descrive apofaticamente San Giovanni della Croce nella sua «notte oscura». Nel Prologo scritto da Giovanni a commento delle immagini poetiche, è interessante notare come egli stesso, per poter spiegare e far comprendere il significato di questa «notte oscura» attraverso cui l’anima deve passare per giungere alla luce divina della perfetta unione con Dio, dichiara che: «Occorrerebbero una scienza e un’esperienza superiori alla mia. Difatti sono tante le difficoltà e così dense le tenebre, spirituali e temporali, che ordinariamente le anime fortunate sogliono attraversare per raggiungere questo sublime stato di perfezione, che non bastano né la scienza umana per comprenderle né l’esperienza per descriverle. Solo chi passa per questa prova potrà darne una valutazione, ma non parlarne». Lorenza Bernardo, invece, coglie la sfida del dire poeticamente, poieticamente, e traccia la lunga strada in versi che condurrà l’amante verso la piena identità con l’amato, al Rebis Filosofico che, come ci ricorda Rilke nelle Elegie, a tutti gli amanti sarebbe possibile se solo (solo!) fossimo consapevoli di ciò che stiamo vivendo. Pezzo ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2025/01/29/liperode-poema-in-quindicimila-versi/

28 gennaio 2025

ANGELO MARIA REPELLINO: UN POETA D' ALTRI TEMPI

Porto in me un paesaggio ferroviario con luce minerale di limone, con arance accecanti e lunghi fili di canutiglia e bracci di binario. Dentro la mia notte infuria un treno, un hidalgo spocchioso, uno spaccone. Va da Lercara Friddi a Magazzolo con gelatine di rosse poltrone, buffe chiome di fumo e di fenòlo, lanternacce bistrate di carbone. Un Fracassa, un cocciuto capitano, una stufa che sfiata fiamme e ruggine, perfido uccello dagli occhi di zafferano, disperato arcangelo che fugge. Angelo Maria Ripellino, “Lo splendido violino verde”, Einaudi, 1976.

GRIDI DI PACE

Un grido di pace Andrea Guerrizio 28 Gennaio 2025 Torino, piazza Castello, ottobre 2024. Foto di Acmos “Un successo di partecipazione che non ha eguali tra tutti i bandi recenti emanati dal Dipartimento, a testimonianza che è sempre crescente e qualificato l’interesse dei giovani per l’impegno di pace e che il 2025 è l’anno in cui auspichiamo venga finalmente stabilizzata l’esperienza dei Corpi Civili di Pace, dopo che la sperimentazione è giunta alla quarta annualità”. Con questa parole Laura Milani, presidente della CNESC (Conferenza Nazionale Enti di Servizio Civile, che raggruppa alcune tra le più grandi realtà che promuovono il servizio civile in Italia ha salutato il brillante risultato dell’ultimo bando per i Corpi Civili di Pace. Dei 632 giovani che hanno presentato domanda per una delle 82 posizioni messe a bando da 5 degli Enti facenti capo alla CNESC (Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Caritas Italiana, CESC Project, CIPSI e Focsiv), 404 si sono candidati per 43 posizioni nelle aree di conflitto, a rischio di conflitto o post-conflitto, 183per 35 posizioni nelle aree di emergenza ambientale in Paesi esteri e 45 per le 4 posizioni della stessa area in Italia. I Paesi coinvolti sono 12: Argentina, Cile, Ecuador, Bolivia, Perù, Guatemala, Mozambico, Senegal, Tanzania, Ruanda, Giordania, Grecia e Romania. Un piccolo ma importante segnale di speranza; la stabilizzazione dell’istituto dei Corpi Civili di Pace “Nel decimo anniversario della Risoluzione ONU 2250 “Giovani, Pace, Sicurezza” sarebbe un bel regalo della politica agli italiani – prosegue Laura Milani – perché rafforzerebbe un paradigma di sicurezza coerente con l’articolo 11 della Costituzione, basato sul ruolo centrale dei civili nella prevenzione e trasformazione nonviolenta dei conflitti, un ruolo che, con la legge 145/2016, è entrato definitivamente nella legislazione italiana. È una novità quasi assoluta nel panorama europeo e mondiale, perché prevede la presenza dei Corpi Civili di Pace nell’ambito della partecipazione dell’Italia alle missioni internazionali”. Andrea Guerrizio ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura

STORIA DEL "GIORNO DELLA CIVETTA"

Leonardo Sciascia pubblicò questo romanzo nel 1961. Allora, nelle parole dell’autore stesso, «sulla mafia esistevano degli studi, studi molto interessanti, classici addirittura: esisteva una commedia di un autore siciliano che era un’apologia della mafia e nessuno che avesse messo l’accento su questo problema in un’opera narrativa di largo consumo». La stessa parola mafia era usata con tutte le cautele e quasi di malavoglia. Eppure noi sappiamo che proprio in quegli anni avveniva la radicale trasformazione che spostò la mafia dal mondo agrario a quello degli appalti, delle commesse e di altre realtà «cittadine», non più regionali ma nazionali e internazionali. Lo scrittore Sciascia irrompe dunque in questa realtà come nominandola per la prima volta. Basta leggere la pagina iniziale del Giorno della civetta per capire che essa finalmente cominciava a esistere nella parola. Sciascia sottopose il testo a un delicato lavoro di limatura, riducendolo ai tratti essenziali con l’arte del «cavare»: e, visto a distanza di anni, tale lavoro si rivela più che mai un’astuzia dell’arte. Qui infatti Sciascia ha scoperto, una volta per tutte, quel suo inconfondibile modo di narrare che non si concede ambagi e volute, ma fissa lo sguardo sempre e soltanto sulle nervature del significato, fossero anche in un minimo gesto o dettaglio. In questo senso, se Il giorno della civetta è diventato il romanzo più popolare di Sciascia, è anche perché lo rappresenta in una forma che, nel più piccolo spazio, raggiunge la massima densità. Quanti sono interessati ad approfondire le proprie conoscenze sulle idee che aveva Leonardo Sciascia sulla mafia possono leggere, oltre al mio libro EREDITA' DISSIPATE, il saggio https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/la-mafia-secondo-leonardo-sciascia/

ITALO CALVINO SUL SUICIDIO DI CESARE PAVESE

A Isa Bezzera - Milano Torino, 3 settembre 1950 [Pavese si era suicidato il 27 agosto] Non so se hai modo di leggere i giornali italiani, ed è probabile che la notizia ti sia sfuggita e che Pavese sia poco più di un nome, per te. Ma per me Pavese era parecchio: non solo un autore preferito, un amico dei più cari, un collega di lavoro da anni, un interlocutore quotidiano, ma era un personaggio dei più importanti nella mia vita, era uno cui devo quasi tutto quello che sono, che aveva determinato la nia vocazione, indirizzato e incoraggiato e seguito sempre il mio lavoro, influenzato il mio modo di pensare, i miei gusti, fin le mie abitudini di vita e i miei atteggiamenti. [...] Tu, come tutti, chiederai: - Ma perché si è ucciso? - Chi lo conosceva è stato agghiacciato dalla notizia, ma non stupito: Pavese s'era portato dietro questo suicidio fin da ragazzo, con la sua solitudine, le sue crisi di disperazione, la sua insoddisfazione a vivere, tutto mascherato da quel suo piglio schivo e risentito. Ma io credevo che fosse, malgrado tutto questo, durissimo e coriaceo, una trincea; uno da ricordarsene tutte le volte che ci si dispera, per farsi coraggio: "Però Pavese tien duro". Invece non ce l'ha fatta. é perciò la sua morte è stata un brutto colpo. Ora che era all'apogeo della sua fortuna letteraria (e dell'euforia di questi suoi ultimi mesi io diffidavo moltissimo) ha avuto una crisi di depressione e il suo pur resistentissimo sistema nervoso non l'ha più sostenuto ed ha avuto un collasso. Questo è tutto quel che possiamo capire: ogni altra cosa che ti capiterà di leggere o di sentire è pettegolezzo o speculazione. Già in una poesia scritta in aprile*, la sua decisione era irrevocabile, e in molte delle cose che ci ha detto negli ultimi tempi: solo ora ce ne accorgiamo. Ma è tutta la sua vita e la sua opera che ora acquista un significato nuovo; nuovo per noi: lui, forse, lo sapeva da prima. * Last blues to be read some day ‘T was only a flirt you sure did know- some one was hurt long time ago. All is the same time has gone by- some day you came some day you’ll die. Some one has died long time ago- some one who tried but didn’t know. [traduzione] Era solo un flirt tu certo lo sapevi – qualcuno fu ferito tanto tempo fa. E’ tutto lo stesso. Il tempo è passato – un giorno venisti un giorno morirai. Qualcuno è morto tanto tempo fa – qualcuno che tentò ma non seppe. 11 aprile 1950 ----------------------------------------------------------------- Si può aggiungere questa altra poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi – questa morte che ci accompagna dal mattino alla sera, insonne, sorda, come un vecchio rimorso o un vizio assurdo. I tuoi occhi saranno una vana parola, un grido taciuto, un silenzio. Cosí li vedi ogni mattina quando su te sola ti pieghi nello specchio. O cara speranza, quel giorno sapremo anche noi che sei la vita e sei il nulla. Per tutti la morte ha uno sguardo. Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Sarà come smettere un vizio, come vedere nello specchio riemergere un viso morto, come ascoltare un labbro chiuso. Scenderemo nel gorgo muti. 22 marzo 1950 https://machiave.blogspot.com/2024/09/pavese-suicida-un-racconto.html

ABBASSO CAMICIE NERE

In ricordo del coraggioso contadino antifascista, che - in pieno periodo fascista - sul suo attrezzo di lavoro (u trincigghiu) incise le parole “Abbasso camicie nere” - “Corleone 1939”. L’attrezzo è stato trovato casualmente al mercato delle pulci a Palermo dall’arch. Marta Garimberti, che me l’ha donato per farne a mia volta dono alla Camera del lavoro di Corleone, dove tutt’ora si trova esposto. Grazie, Marta! Grazie, anonimo coraggioso corleonese! DINO PATERNOSTRO

STIAMO PER PUBBLICARE UN NUOVO LIBRO IN MEMORIA DI FRANCESCO CARBONE

Ecco in anteprima la copertina del nuovo libro (fv)

H. ARENDT e M. HEIDEGGER

LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO IGNORATO DA HEIDEGGER In termini generali Hannah Arendt ha ottenuto un ampio riconoscimento in quanto filosofa e pensatrice autorevole in grado di gettare luce su aspetti fondamentali del suo tempo storico. E tuttavia se si guarda alla sua esperienza personale, il quadro appena tracciato comporta una pesante eccezione: il suo antico maestro Heidegger, da lei sempre tenuto in grande stima, al di là delle rimostranze di natura politica e morale, non volle mai prendere atto di ciò che lei aveva prodotto come pensatrice. Può essere interessante allora fare il punto su questo aspetto particolare del rapporto tra i due. Vediamo cosa succede quando Hannah Arendt pubblica il suo libro di maggiore risonanza: Le origini del totalitarismo. Siamo nel 1951. L'anno prima si è riaperto il dialogo tra il maestro e l'allieva dopo un lungo silenzio. Gli ultimi scambi di corrispondenza tra i due risalivano a due decenni prima. Al di là delle cautele manifeste, il coinvolgimento sentimentale è grande. Scrive Heidegger all'amica, il 19 marzo 1950: "Hannah, Il dono del ritorno e del raccogliersi di cinque lustri sgomenta il mio pensiero incessantemente. In esso tu, da più lontano oltre il mare sei vicina e presente anche solo pensando alle cose più amate qui e a tutte le cose che ti appartengono". In una lettera successiva del 14 luglio 1951 troviamo un accenno al libro che Hannah ha appena pubblicato, Le origini del totalitarismo, appunto. Il volume da lei spedito è arrivato a casa del maestro. Ed ecco la reazione: "Ti siamo grati per il tuo libro, che non mi è possibile leggere perché non conosco abbastanza l'inglese. Elfride [la moglie] vorrebbe leggerlo attentamente in futuro; ma per adesso il periodo che attraversiamo e la situazione in casa sono troppo inquieti". Poco dopo, nella stessa lettera Heidegger si mette a parlare invece di un un suo libro da poco uscito in una seconda edizione, Kant e il problema della metafisica: "Sarebbe bello se tu ponessi i tuoi "importuni" interrogativi al libro su Kant. Le domande diventano così rare, e i dogmi aumentano continuamente". Intanto, nel 1955 esce la traduzione tedesca del volume sul totalitarismo: Elemente und Ursprünge totaler Herrschaft, Europäische Verlagsanstalt, Frankfurt am Main. In quel periodo la corrispondenza tra il maestro e l'allieva si interrompe per riprendere solo nel 1959. Il 17 dicembre di quell'anno, Martin scrive ad Hannah per annunciare l'arrivo degli ultimi due suoi scritti: "Cara Hannah, Per tramite dell'editore Nesle ti arriveranno i miei due ultimi scritti. Il libro sul linguaggio potrà ricordarti i nostri colloqui relativi a questo "oggetto", che oggetto non è affatto". Del libro pubblicato da Hannah sul totalitarismo evidentemente non si parla più. Antonia Grunenberg avanza il sospetto che Heidegger quel testo non lo abbia neppure mai preso in mano: "Blücher [il marito di Hannah] intuì che il filosofo non avrebbe mai letto il libro, alla cui edizione tedesca era stata aggiunta una prefazione scritta da Jaspers". Capitolo chiuso. Nel 1960 esce invece un nuovo e importante libro di Hannah Arendt. Un'opera di carattere decisamente filosofico e non una riflessione teorica sulla storia, come era Le origini del totalitarismo. Insomma l'allieva ora si muoveva di nuovo su un terreno più familiare al maestro, come già aveva fatto con l'opera giovanile Il concetto di amore in Agostino. E qui la ferita del mancato riconoscimento si riapre e si rimette a sanguinare. Il nuovo libro era uscito nel 1958 con il titolo The Human Condition. L'edizione tedesca curata dalla stessa autrice compare due anni dopo e si presenta come Vita activa oder Vom tätigen Leben. A quel punto Hannah manda a Martin una lettera in cui scrive: "Ho dato disposizione all'editore di spedirti una copia del mio libro. In proposito vorrei però dirti una cosa. Noterai che il libro non reca nessuna dedica. Se le cose tra noi fossero andate per il verso giusto - intendo dire tra e non per me o per te - ti avrei chiesto di potertelo dedicare; ha cominciato a prendere forma fin dai tempi di Freiburg, e ti è debitore, sotto ogni aspetto, di quasi tutto. Così come stanno le cose, mi è parso impossibile dedicartelo; ma volevo dirti, in un modo o nell'altro, qual è la pura realtà dei fatti". Straordinario omaggio. Come se non bastasse, Hannah ha scritto e tenuto per sé il seguente testo: "De Vita activa: / ho tralasciato la dedica di questo libro. / Come faccio a dedicarlo a te, / l'intimo amico, / cui sono e non sono / rimasta fedele, / sempre per amore". Arendt parla poi della cosa, spiega che di recente aveva subito uno sgarbo da parte di Heidegger, che aveva suggerito a un comune amico di declinare un invito da parte di lei. Aggiungeva tuttavia: "Ancora un anno fa, Heidegger mi ha mandato i suoi scritti pubblicati allora, e con dedica. Di conseguenza gli ho inviato la mia Vita activa. C'est tout". Come era forse prevedibile, Heidegger non reagì in nessun modo all'arrivo del dono. Per Hannah questo fu uno smacco dal quale rimase durevolmente colpita. Tre mesi dopo l'episodio del libro spedito e della lettera caduta nel vuoto, Arendt scrisse a Jaspers una lettera in cui lasciava trasparire tutto il suo disappunto: "Heidegger: sì, è una storia sgradevole. Non ha nulla a che fare con l'elogio [come Jaspers aveva supposto], perché sono stata in contatto con lui dopo. E non credo che c'entri la moglie [...] Io so quanto sia insopportabile per lui che il mio nome appaia in pubblico, che io scriva libri, ecc. Per tutta la vita io l'ho praticamente imbrogliato, comportandomi sempre come se tutto questo non esistesse, e come se, per così dire, non fossi memmeno capace di contare fino a tre, tranne quando si trattava di interpretare le sue stesse cose: allora per lui era sempre molto gradito che si vedesse che sapevo contare fino a tre, e certe volte fino a quattro. Ma improvvisamente l'imbroglio mi è venuto a noia, ed ecco che mi sono presa un pugno sul naso. Per un momento sono stata furiosa, ma ora non lo sono più per niente. Piuttosto sono dell'opinione che in qualche modo me lo sono meritato, cioè tanto per l'imbroglio commesso, quanto per la brusca interruzione della partita". Era un atto di accusa contro l'egocentrismo e la cecità manifestata dall'amico di sempre nei suoi confronti. Viene fuori una verità terribile: al di là delle tante parole spese a vantaggio della loro amicizia Martin Heidegger da ultimo si è servito di Hannah Arendt senza veramente dar prova di un autentico rispetto nei suoi confronti. Sono stati richiamati in proposito altri illustri esempi di un atteggiamento simile: l'sbbandono di Didone da parte di Enea, quello di Sabina Spielrein da parte di Carl Gustav Jung. In tutti questi casi, le giustificazioni alte nulla tolgono alla gravità dell'offesa recata alla persona dell'altro.

27 gennaio 2025

LA MAFIA SEMPRE IN PRIMA PAGINA

 


Mafia, in appello confermata la condanna a 12 anni per l'ex deputato siciliano Ruggirello


Scorta all’inviato di Repubblica Salvo Palazzolo che racconta i boss scarcerati

Salvo Palazzolo nella redazione di Repubblica Palermo
Salvo Palazzolo nella redazione di Repubblica Palermo 

Vigilanza rafforzata attorno al cronista della redazione siciliana del nostro giornale. I messaggi di solidarietà. La presidente della commissione antimafia Colosimo: “Le inchieste di Palazzolo hanno infastidito Cosa nostra”





LA MAFIA IN SICILIA CONTINUA AD OCCUPARE LE PRIME PAGINE DEI GIORNALI.
COME SI SPIEGA IL FATTO CHE STORICI COME FRANCESCO RENDA E SALVATORE LUPO, ALLE SOGLIE DEL 2000, CI ASSICURAVANO CHE "COSA NOSTRA" ERA STATA SCONFITTA E STAVA PER SCOMPARIRE?
(fv)