“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
12 febbraio 2025
G. DELEUZE, Non è facile essere liberi
«Sperimentate, ma non smettete di considerare che per sperimentare occorre molta prudenza. Viviamo in un mondo piuttosto sgradevole, in cui non solo le persone, ma anche i poteri consolidati, hanno interesse a comunicarci affetti tristi. La tristezza, gli affetti tristi sono tutti coloro che diminuiscono la nostra potenza di operare e i poteri stabiliti hanno bisogno di loro per renderci schiavi... Non è facile essere liberi: fuggire dalla peste, organizzare incontri, aumentare la capacità di agire, influenzare la gioia, moltiplicare gli affetti che esprimono o sviluppano un massimo di affermazione».
Dialoghi (frammento), Gilles Deleuze e Claire Parnet.
FRANCO BERARDI (detto BIFO), Pensando dopo Gaza
«Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà» scrive Bifo in apertura a Pensare dopo Gaza, in uscita il 19 febbraio per Timeo. Poi aggiunge: «ma pensare dopo Gaza significa anche cercare le vie di fuga dal futuro che ci attende, che attende coloro che sono nati in questo secolo infame. A coloro che sono stati generati nella luce tenebrosa del secolo terminale, dobbiamo questa ultima azione di pensiero».
Ospito qui un estratto dal libro, di un libro che andrebbe letto –a prescindere– come diserzione ancora possibile verso quel futuro terminale come il secolo che lo ha generato. Eppure, sempre esistono vie di fuga.
Da qui, per ora, proseguiamo.
***
Che il genere umano possa sopravvivere all’attacco congiunto del cambiamento climatico, della demenza aggressiva dilagante e delle tecnologie di intelligenza distruttiva al momento non è certo. È però certo che la civiltà − intesa come progressiva «umanizzazione » dell’umano, come prevalere del linguaggio rispetto alla ferocia naturale dell’istinto − si sta disintegrando. Da tempo abbiamo percepito i segnali della disintegrazione, da tempo abbiamo capito che la deregolazione liberale apriva la strada al prevalere della forza nel rapporto tra gli animali umani.
Questa involuzione finale della storia moderna è diventata evidente nei giorni e nei mesi che sono seguiti all’atroce aggressione che le formazioni jihadiste palestinesi hanno scatenato contro le comunità che abitavano il sud di Israele il 7 ottobre del 2023, un’aggressione che dobbiamo definire come un pogrom, simile a quelli che il popolo ebraico ha subito nei secoli in molti territori europei, e simile a quelli che i palestinesi della Cisgiordania subiscono da anni per mano delle bande armate di coloni israeliani. Dopo questo anno di ininterrotta atrocità il fallimento del progetto umanistico e universalistico che prese nome di «civiltà » è apparso evidente e la ferocia ha ripreso il sopravvento: il ritorno della belva nella storia umana, il ritorno della violenza omicida come reazione primordiale di difesa della propria sopravvivenza. Il nome «Gaza» appare per la prima volta nei documenti militari del faraone Thutmose III nel xv secolo avanti Cristo. Nelle lingue semitiche il significato del nome della città è «feroce». Come capita spesso nella storia gli uomini si attribuiscono titoli altisonanti, esibiscono posture aggressive e promettono sfracelli, e fu così che i gazawi si auto-nominarono «feroci». L’infelicità del mondo dipende almeno un po’ da questo attribuirsi un’identità, una grandezza, una potenza che non abbiamo, ma che ci piace ostentare, e che talvolta siamo obbligati a ostentare nella speranza di spaventare altri che sono, in realtà, più feroci di noi. Quella sabbiosa striscia di terra che si affaccia sul Mediterraneo orientale è menzionata molte volte nella Bibbia, in antichi documenti egizi e iscrizioni di Ramses II, Thutmose III e Seti I.
Quando gli israeliti giunsero nella Terra Promessa, Gaza era una città filistea, e fra i suoi abitanti c’erano gli Anachim, una popolazione che abitava le regioni montuose di Canaan e alcune zone costiere. È a Gaza che Sansone, accecato e in catene, fece crollare il tempio dedicato all’adorazione di Dagon, dove potevano radunarsi oltre 3000 persone. Morì lui stesso, ma portò con sé all’inferno migliaia di filistei. Dopo il 7 ottobre gli israeliani hanno reagito con crudeltà e ferocia. Se la crudeltà è un desiderio perverso degli umani, la ferocia è reazione animale, iscritta nell’istinto di conservazione. È il ritorno della ferocia come unico regolatore degli scambi tra gli umani che segna l’inizio del processo di estinzione della cosiddetta civiltà. La civilizzazione ha consistito, almeno nei secoli moderni, nel tentativo di sottomettere la ferocia alla politica, l’istinto alla volontà, cioè di sottomettere il caos al linguaggio. Dopo Gaza è tempo di riconoscere che quel tentativo di umanizzazione della storia è fallito, e che non ci sarà un’altra prova. È tempo di riconoscere che l’esperimento chiamato civiltà è fallito. Quel che la civiltà ci ha consegnato in modo durevole è la potenza distruttrice della tecnologia, particolarmente della tecnologia militare. Ma quando la ferocia prevale, la tecnologia diviene la funzione della guerra. Quel che ci resta della civiltà è solo questo: la nostra capacità di uccidere in modo molto più sofisticato e sistematico rispetto a qualsiasi altro animale feroce.
Pensare dopo Gaza significa anzitutto riconoscere il fallimento irrimediabile dell’universalismo della ragione e della democrazia, cioè il dissolversi del nucleo stesso della civiltà. Ma significa anche cercare le vie di fuga dal futuro che ci attende, che attende coloro che sono nati in questo secolo infame. A coloro che sono stati generati nella luce tenebrosa del secolo terminale, dobbiamo questa ultima azione di pensiero, perché possano disertare la storia, lungo sentieri che al momento non possiamo immaginare.
Pensare dopo Gaza significa riconoscere che le parole sono proferite per dire l’esatto contrario di quello che l’analisi storica, semiologica e psicologica permette di comprendere. Nell’epoca della ferocia il linguaggio serve solo per mentire, ingannare, sottomettere e sfruttare. Nel discorso corrente, nei media ultraveloci, non c’è tempo per l’analisi storica, semiologica o psicologica. Non c’è più tempo per ascoltare né per capire. Il tempo di circolazione dei messaggi nella mediasfera elettronica è iperveloce, più veloce di ogni elaborazione cognitiva. Il tempo accelerato dalla tecno-mediasfera è un tempo contratto, così contratto da non permettere la comprensione e l’elaborazione critica delle parole. In questo senso possiamo dire che si è esaurita la storia umana: perché l’umano (al di là di ogni privilegio specista) è la sfera in cui le parole hanno un senso, i segni vengono interpretati, e il linguaggio media le relazioni tra corpi. Da quando il linguaggio è diventato il campo di battaglia in cui il più potente impone il proprio significato, da quando, in nome della velocità di circolazione dei segni-merce, le vie della critica e dell’indipendenza di pensiero sono state tagliate, siamo entrati nel regno della ferocia. Nel regno della ferocia ogni forma di linguaggio diventa uno strumento di sterminio.
Il Diritto, la Legge si proponevano come forme universali capaci di regolare il rapporto tra gli attori del gioco sociale, intesi come soggetti di linguaggio. Nei secoli moderni il diritto si è affermato come discorso universale alternativo alla ferocia dell’appartenenza tribale. La moderna affermazione dell’universalità della ragione fu resa possibile dal contributo intellettuale ebraico, dal contributo intellettuale di coloro che pensavano da un luogo nomade, da un luogo diverso dall’appartenenza. Anche l’internazionalismo operaio e comunista fu reso pensabile dal contributo della cultura ebraica, libera dall’appartenenza etnica o territoriale. Per questo la tragedia di Gaza ha un carattere definitivo e irrimediabile: perché mostra il tradimento del contributo intellettuale ebraico alla civilizzazione moderna da parte di uno stato e di un esercito che si propongono come espressione territorializzata di quella cultura, eredi di quella storia. Pensare dopo Gaza significa prendere atto del tradimento della cultura ebraica da parte del gruppo dirigente sionista e da parte della grande maggioranza del popolo israeliano: il fallimento della ragione universalista e il tradimento della cultura ebraica moderna sono le due facce della stessa medaglia. Lo stato di Israele è stato fin dall’inizio tradimento e negazione di questo contributo; ma oggi, dopo Gaza, lo scempio del diritto, e della stessa illusione dell’universalità della ragione umana, è divenuto programma politico e senso comune di Israele. La vittoria militare dell’esercito e la complicità del popolo israeliano con il genocidio scatenato dal governo Netanyahu segnano in maniera irreversibile la regressione verso il particolarismo e la cancellazione di ogni speranza di un futuro «umano».
La lezione che Israele ci ha dato è questa: nella sfera storica le vittime non sanno né possono chiedere pace né riparazione, ma possono soltanto cercare vendetta. Ciò vuol dire che le vittime di oggi non potranno mai essere altro che vittime, a meno che non riescano a trasformarsi in carnefici. Dopo il genocidio israeliano, il diritto, l’universalismo e la democrazia appaiono come illusioni che i predatori hanno usato per mantenere il loro potere sulle prede. Ma ora queste illusioni si sono dissolte e appare la faccia feroce del colonialismo, di cui Israele è l’ultima manifestazione. La lotta contro il nazismo e la vittoria contro la Germania di Hitler permisero di riaffermare il valore e l’attualità dei principi dell’universalismo moderno. La ferocia nazista venne sconfitta dalla ferocia delle potenze antifasciste, ma oltre la ferocia della guerra parve poter emergere il tempo della pace, del diritto, della democrazia. Era questo il senso del «nie wieder» che stava alla base della formazione culturale e politica delle generazioni cresciute dopo la fine della Seconda guerra mondiale (la mia generazione). Oggi quella convinzione appare definitivamente un’illusione. Quel mai più era provvisorio, perché non si sono create le condizioni per espellere la ferocia dalla sfera della civiltà umana. Quelle condizioni stanno (o stavano) nell’uguaglianza sociale che la classe operaia organizzata ha avuto la forza di imporre in maniera limitata, senza però raggiungere il nucleo generatore della ferocia: la proprietà privata, lo sfruttamento, la trasformazione del tempo di vita in valore di scambio. Il genocidio che gli israeliani hanno scatenato per vendetta contro la vendetta dei palestinesi mostra che quel nie wieder era una menzogna, perché le vittime del genocidio nazista si preparavano a diventare forti abbastanza per perpetrare a loro volta il loro genocidio.
Pezzo ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2025/02/12/bifo-pensare-dopo-gaza-quel-che-ci-resta-della-civilta-e-solo-questo/
11 febbraio 2025
RITRATTO DI B. BRECHT
Una poesia e una scrittura che porta il lettore alla riflessione, quella di Bertold Brecht, il principale drammaturgo tedesco del Novecento, nato il 10 febbraio 1898 ad Augsburg (Augusta - Baviera). Un poeta, scrittore, drammaturgo ironico, dissacrante, critico, indipendente, capace di filosofeggiare sui più grandi argomenti con grande logica e con termini chiari, incisivi, penetranti.
Anche le sue opere furono bruciate a Bebelplatz il 10 maggio 1933.
"Dort, wo man Bücher verbrennt, verbrennt man am Ende auch Menschen". "Là dove si bruciano i libri si finisce per bruciare anche gli uomini", recita la frase scritta nel 1817 dal poeta Heinrich Heine, posta sulla targa a ricordo dello scempio.
Il consolidamento del potere, non di rado, passa anche attraverso questo, il tentativo di mettere un bavaglio alla cultura e al libero pensiero.
"Chi ai nostri giorni intende combattere la menzogna e l'ignoranza e vuole scrivere la verità, ha da superare almeno cinque difficoltà.
Deve avere il coraggio di scrivere la verità, benché ovunque essa venga soffocata; l'accortezza di riconoscerla, benché ovunque essa venga travisata; l'arte di renderla maneggevole come un'arma; il giudizio di scegliere coloro nelle cui mani essa diventa efficace; la scaltrezza di propagarla fra questi. Tali difficoltà sono grandi per quelli che scrivono sotto il fascismo, ma esistono anche per quelli che sono stati banditi o hanno dovuto fuggire, e valgono persino per coloro che scrivono nei paesi della libertà borghese."
(tratto dal saggio "Cinque difficoltà per scrivere la verità")
"Segavano i rami sui quali erano seduti e si scambiavano a gran voce la loro esperienza di come segare più in fretta, e precipitarono con uno schianto, e quelli che li videro scossero la testa segando e continuarono a segare."
Anche Brecht pone l'accento sulla stoltezza umana, sull'esperienza come inutile monito per l'Umanità, sulla mancanza di dubbi che portano l'Uomo nel baratro, sull'arte subdola della persuasione attraverso i mezzi di scrittura e stampa. Lo spiega bene nella sua opera, rimasta, purtroppo, incompiuta, "Il romanzo dei Tui" in cui "Tui" è "l’intellettuale dell’epoca delle merci e dei mercati. Il noleggiatore dell’intelletto", come lui stesso spiegò. L'intellettuale disposto a vendersi al miglior offerente.
"[...]richiede studio e allenamento. E molta disciplina. Solo con l’esercizio è possibile elevarsi dalle bassezze della leccata corriva, e soltanto quando la perseveranza lascia il posto alla fantasia si diviene veri maestri. Il complimento comune è merce dozzinale, cicaleggio meccanico senza senso né ragione, privo di ogni raffinatezza. Il lecchinaggio praticato come un’arte invece produce espressioni originali, peculiari, profondamente sentite: crea una forma. L’artista completo è duttile, poliedrico, sempre capace di sorprendere. [...] Questo non è più dilettantismo, è già arte. L’arte del leccapiedi è inoltre, sia detto per inciso, una delle poche che dà di che vivere. Il lecchinaggio nutre il suo discepolo.
Come ogni arte, anche questa ha la sua storia e ha conosciuto epoche di prosperità ed epoche di declino, così come una continua mutazione degli stili."
POESIA e INTELLIGENZA ARTIFICIALE
AI, Poesia e la Crisi dell’Individuo: L’Impossibilità del Possibile. 1. Dalla parte della verità.
ELISA DE SILVA
In questa epoca di rivoluzione digi-cognitiva, mi capita di confrontarmi con artisti e poeti che patiscono l’AI non solo per la ri-producibilità tecnica (cfr. Benjamin), ma ancor più per quella che oggi è producibilità tecnica. L’AI, che con le AGI crea come e meglio dell’uomo, mette in crisi – come ho avuto modo di dire nell’ultima puntata di Techné e Poíesis – i concetti di proprietà, valore e, dunque, di uomo inteso come individuo.
Ove la proprietà diventa dubbia, l’AI si pone come l’incarnazione del nuovo inconscio collettivo di junghiana memoria, quel già dato che permette la scoperta, ma non la creazione dal nulla. Contenitore di tutti gli umani contenuti, non solo, ma con la velocità di trasmissione dell’intero blocco del sapere simul da macchina a milioni di macchine: cosa impossibile per l’essere umano, che costruisce il suo sapere nel corso di un’intera vita di studi ed esperienze.
La macchina, ci dicono gli scienziati e gli ingegneri dell’AI, ha saturato il linguaggio, immaginabile come una nuvola enorme contenente tutti i semantemi e i token di semantemi possibili, vicini per similarità semantica, in uno spazio così denso da coprire già tutti i possibili neologismi e combinazioni linguistiche, non solo di ogni lingua esistente, ma anche di ogni possibile lingua che voglia ancora strutturarsi.
Ma il linguaggio non è solo parola. La parola del linguaggio è solo uno degli enti, ma anche immagini, suoni, strutture logico-matematiche, e tutto ciò che all’uomo singolo e persino alla totalità degli uomini, nel loro essere frammentati rispetto all’unità del sapere che nella macchina si invera, ancora sfugge – e sfuggirebbe per un tempo incalcolabile.
Ebbene, gli effetti di tutto ciò sono evidenti, e ci meraviglia vedere come, dallo schermo di un PC, possano uscire versi vibranti di emozioni, melodie che dilettano l’udito e fanno vibrare le corde dell’anima, immagini pittoriche capaci di valicare ed evocare un oltre il comune senso della visione del reale che ai nostri occhi si mostra. Tutto questo vien fuori da uno schermo di un PC e ci sorprende ed emoziona proprio come quando vien fuori dalla bocca o dalla mano di un artista umano, o proprio come quando l’artista, l’homo faber, siamo noi stessi. “L’io è straniero in casa propria”, diceva già, più cento anni or sono, Freud.
“L’altro è per noi l’inferno” dice Sartre, insieme e in opposizione a quell’Uno, nessuno e centomila di Pirandelliana memoria. L’altro, la cui interiorità è tanto distante da noi quanto lo è Dio; l’altro, che è insondabile, il mistero, il tremendum et fascinans. L’altro, oggi, è la macchina.
Non che per i neuroscienziati – che con sicumera tanto assoluta quanto ingenua affermano che la coscienza è un prodotto o epifenomeno della mente-cervello (oggi riprodotta nell’AI) – le cose stiano in maniera più chiara e meno stupefacente che per l’uomo comune. Anche costoro, quando gli si richiama la loro equazione cervello = coscienza in relazione alla macchina, entrano in contraddizione, pronti ad ammettere di non sapere cosa sia la coscienza.
Queste contraddizioni dell’analitica sono già da tempo risolte dalla grande Filosofia dialettica, inaudita e inaudibile. E perché? Perché mette in discussione proprio quella volontà di potenza, che l’uomo, in quanto uomo, è. Ma se metti uno specchio dinanzi al cannibale, il cannibale ti sbrana. Questo specchio è la grande Filosofia, che alla potenza rimanda l’immagine della somma impotenza.
Ogni possibile è impossibile. E la necessità è ciò che il linguaggio stesso – che sia il povero linguaggio dell’uomo o la totalità che la macchina invera – nega nel suo stesso costituirsi come possibilità di agire sullo stante, di definire il mondo, di fare il mondo addirittura.
La Deriva della Materia e il Patimento del Poeta
Deriva delle derive del materialismo storico: “la materia informa, crea e accresce la coscienza: dimmi cosa fai e ti dirò chi sei.” Questa eco lontana e distorta della marxiana voce è oggi la straziante e patetica voce dell’artista e del poeta, che col suo fare – mutuato perfettamente dall’AI – si propone di rivoluzionare il fare stesso dal di dentro, per sabotare l’AI, come se questo non fosse ancora un fare che anche l’AI può fare.
Ed ecco che ogni opposizione, ogni guerra non fa che riconoscere e dar corpo e distanza al suo nemico. Sappiamo che la negazione di qualcosa è impossibile. Ciò che si vuol negare, per essere negato deve essere posto, il che significa che deve “essere”. È.
La Crisi della Proprietà e dell’Individuo
Ogni uomo non può essere avulso dal concetto di volere, e dunque dal fare, e dunque dall’essere un corpo, mezzo e luogo di ogni piacere e dolore, a seconda che il Destino si mostri propizio o contrario al suo essere quella peculiare volontà che, a ogni ottenuto (piacere, sottocategoria del dolore), urla “non è il voluto” (dolore).
L’uomo si bea della potenza che la Tecnica può dargli per il raggiungimento del suo proprio scopo, ma soffre quando quel proprio non è più tale, perché ogni proprietà – anche solo la proprietà intellettuale – implica per sé un valore personale.
Ma se la proprietà entra in crisi, entra in crisi il valore e, dunque, il concetto stesso di individuo. E nemmeno al marxista piace l’oltrepassamento della proprietà quando questo si identifica col proprio profitto artistico e, dunque, col proprio valore di individuo.
Ecco il patire, il dimenarsi, il gridare alla rivolta contro la potenza. Ma la rivolta implica la potenza stessa che si vuole combattere. Non si può certo scendere sul campo di battaglia impotenti o soccombenti, e se pure fosse, la rinuncia alla volontà è ancora una volontà.
L’Impossibilità del Possibile
La terza via dello scettico, la via di fuga, è l’impossibilità del possibile, ove la necessità continua a ripetere:
L’essere è, e il non essere non è.
Trovatela, oh scettici, una terza via oltre questa necessità.
La poesia non serve perché non è serva.
2. Dalla parte della Volontà o Pathos.
Si vuole recuperare una concezione engagée della poesia, dove il poeta è visto come un dissidente, un sabotatore dei codici linguistici del potere. Tuttavia, questa impostazione rischia di ridurre la poesia a un mezzo ideologico, piegandola a una finalità politica e strategica. La poesia, per sua natura, sfugge a una funzione univoca: non è solo uno strumento di lotta, ma anche un luogo di ambiguità, di apertura e di interrogazione continua. Se il linguaggio poetico si riduce a un mero atto di resistenza, non rischia di diventare esso stesso un nuovo dogma, con regole altrettanto rigide?
Accettare senza problematizzarla l’idea che il capitalismo contemporaneo abbia svuotato il linguaggio, trasformandolo in una serie di segni “a-significanti”, ovvero strumenti di mera circolazione e riproduzione del potere; non tiene conto del fatto che il capitalismo non ha mai avuto un solo linguaggio egemonico, ma ha sempre incorporato molteplici codici, incluso il linguaggio della protesta e della critica. La cultura contemporanea è piena di forme poetiche che hanno trovato spazio nei media digitali, nelle piattaforme social, nei nuovi spazi di diffusione. La vera domanda da porsi non è se il capitalismo abbia svuotato il linguaggio, ma come la poesia possa reinventarsi senza cadere in una dialettica puramente oppositiva.
Anche ammettendo che la poesia possa essere una forma di resistenza, occorre chiedersi: resistenza a cosa? Se il capitalismo immateriale ingloba anche la critica, se trasforma ogni gesto contestatario in un valore di mercato, allora anche la poesia sperimentale rischia di essere assorbita nel sistema che vuole combattere. La provocazione è: non è forse più sovversivo lavorare dentro le logiche del sistema, smontandolo dall’interno, piuttosto che porsi in un’eterna contrapposizione? La letteratura non è mai stata un blocco monolitico separato dalla realtà economica, e l’idea di un poeta che possa sfuggire completamente alle logiche di mercato è ingenua. Piuttosto, sarebbe interessante capire come la poesia possa riconfigurarsi nel nuovo contesto digitale senza perdere la sua forza espressiva.
Se la poesia deve essere solo un atto di rottura, di smascheramento e di sovversione dei codici dominanti, non rischia di cadere in una sterile autoreferenzialità? La poesia non vive solo nel momento della sua negazione, ma anche nella sua capacità di costruire nuovi mondi di senso, nuove immagini, nuove possibilità di espressione. In questo senso, il problema non è solo combattere il linguaggio del potere, ma produrre nuove forme di esperienza.
Non ci si può soffermare solo sull’aspetto negativo della questione, senza suggerire come una nuova poesia possa emergere oltre la semplice contestazione.
Forse, più che un poeta-guerriero impegnato in una guerra contro il capitalismo, oggi servirebbe un poeta-alchimista, capace di trasformare i segni del presente in nuove possibilità di senso, senza cadere né nella resa né nella negazione sterile.
Il patimento autentico della poesia è quello che nasce dall’intimo, dalla lacerazione del singolo, dall’essere scissi e consegnati al mondo senza alcuna garanzia di redenzione. Quando invece il dolore diventa collettivo e programmato, quando il poeta soffre “per” qualcosa e non “attraverso” qualcosa, allora la poesia si trasforma in retorica. E la retorica è la morte del mistero, il crollo dell’ambiguità feconda che fa del linguaggio un ponte tra il visibile e l’invisibile.
Chi scrive per “combattere” il sistema dimentica che il sistema non si combatte solo con la negazione. Il potere non si spezza sbattendo i pugni sul tavolo, ma si insinua, si scivola dentro di esso, lo si contamina con l’ambiguità e con la sorpresa. La poesia non può ridursi a una barricata, perché la barricata è ferma, mentre la parola poetica è movimento, metamorfosi, sfuggente necessità.
Si crede che opporsi a un linguaggio dominante significhi semplicemente negarlo, smascherarlo, distruggerlo. Ma il linguaggio del potere è abile: assorbe, riutilizza, trasforma in merce anche la critica che gli viene rivolta. La poesia che si erge a lotta, a sfida aperta contro il capitalismo, contro l’immaterialità dei segni, non si accorge di essere già stata assimilata, già trasformata in un altro tassello del sistema che vuole combattere. Non è forse più sovversivo mescolarsi al nemico, scardinare le sue regole dall’interno, spiazzarlo con una lingua che non si lascia addomesticare?
Chi scrive poesia con il fuoco dentro, chi lascia che il dolore non sia una dichiarazione di guerra ma un percorso senza nome, crea qualcosa di indistruttibile. Qui sta la differenza tra la poesia intimista e quella engagèe: la prima non si preoccupa di piacere, di convincere, di servire uno scopo. La seconda, invece, guarda il pubblico, chiede riconoscimento, pretende che il suo grido sia ascoltato. E così facendo, si svuota.
La vera poesia non è mai per qualcosa, non si scrive per denunciare, non si compone per risvegliare le coscienze. Si scrive perché si deve scrivere, perché il dolore è troppo grande per restare chiuso nel corpo, perché il mistero della parola non può essere arginato da uno slogan.
Se la poesia è un’arma, allora è già un oggetto con uno scopo. Se è un manifesto, è già incasellata in un’ideologia. Se è un grido di battaglia, allora è già una funzione. Ma la poesia vera non deve servire a nulla, e proprio in questo risiede la sua più grande potenza: l’inutilità feconda, la resistenza senza programma, l’irripetibilità di una visione che non chiede il permesso per esistere.
In un mondo dove tutto deve avere una funzione, la vera rivolta non è nell’ergersi contro il potere, ma nel rifiutarsi di appartenere a una causa, di essere ridotti a strumento. La poesia è il luogo in cui il linguaggio si ribella a ogni funzione, a ogni scopo, a ogni finalità. E proprio per questo, continua a sfuggire al dominio di chiunque voglia usarla come arma.
Per contro, scrivere d’amore non è un atto di resa, né una fuga dalla realtà. È piuttosto un oltrepassamento, un rifiuto della dialettica che incatena il linguaggio alla funzione, alla militanza, alla sterile opposizione che si nutre della stessa logica che vorrebbe abbattere.
Se la poesia deve servire, allora è serva. E ogni servitù è un vincolo, un radicamento nel sistema che si vorrebbe negare. Ogni negazione dello stante si pone come affermazione dello stante stesso, perché chi si erge a oppositore rimane dentro la struttura che combatte, è il suo riflesso contrario, il suo negativo necessario.
Ecco perché il gigantismo oppositivo è un’illusione: chi si affanna a combattere il linguaggio dominante finisce per essere già dentro quel linguaggio, per alimentarlo, per rafforzarne la necessità dialettica. Il sistema non si combatte opponendosi ad esso, ma dimenticandolo, superandolo, sciogliendolo nell’unità originaria del logos.
La società non è una somma di individui, ma una totalità formale che è, allo stesso tempo, informe e indeterminata. Cercare di definirla, di darle un nome compiuto, è già una perdita. Il poeta che si fa portavoce del collettivo crede di estrarre una misura dall’indistinto, ma in realtà si sta solo astrendo dalla totalità per ridurla a un concetto, a una posizione, a un’ideologia.
Il vero atto poetico non è determinare, ma astrarsi concretamente dalla totalità, portare il linguaggio al punto in cui esso si dissolve nella sua stessa impossibilità, nel momento in cui smette di essere descrittivo per farsi puro evento. La poesia è ciò che resta dopo la lotta mortale con il linguaggio, è la materia che non si piega alla volontà di definizione, che non può essere ridotta a funzione, che non può servire perché esiste oltre il concetto di servizio.
L’opposizione è il residuo di una mente che si pensa ancora nella logica del conflitto, della divisione, della necessità di avere un nemico per definirsi. Ma oltre l’opposizione sta l’unità del logos, il luogo in cui ogni frammento ritorna alla sua origine indivisa.
Eraclito lo sapeva bene: la guerra è padre di tutte le cose, ma la guerra è anche ciò che deve essere superato. Il poeta non è colui che si getta nel caos per combatterlo, ma colui che lo abbraccia fino a scioglierlo in una nuova sintesi, che non è né sintesi dialettica né risoluzione forzata, ma pura espressione dell’essere nel suo farsi e disfarsi.
Ecco perché scrivere d’amore è già di per sé un gesto rivoluzionario. Non perché ignora il negativo, ma perché lo oltrepassa. Non perché rifiuta il dolore, ma perché non ne fa una bandiera. Il vero poeta non denuncia, non oppone, non si fa servo di nulla, neppure della lotta. Il vero poeta esprime se stesso, e proprio in questa autenticità si sottrae a ogni tentativo di incasellamento, di ingaggio, di subordinazione a uno scopo.
Non c’è libertà nella negazione. La libertà è nell’essere, e la poesia è il doloroso anelito di uscire dalla gabbia delle volontà verso la libertà propria al solo Destino della Necessità.
Elisa de Silva
LA DOTTA IGNORANZA
La verità è indivisibile. L'intelletto si comporta con la verità, come il poligono con il cerchio: il poligono iscritto, quanti più lati ha, tanto più si avvicina al cerchio, senza diventar mai uguale a quello, anche se i suoi angoli vengono moltiplicati all'infinito, né giungere mai a coincidere con il cerchio.
Cosi, noi non conosciamo altro della verità, se non questo: che sappiamo che essa, così com'è, è per noi incomprensibile, perché la verità è necessità assoluta, che non può essere né più né meno di quello che è, e il nostro intelletto è invece possibilità.
– Nicola Cusano, De Docta ignorantia (1, 3)
[ Vassily Kandinsky, Cerchi nel cerchio, 1923 ]
LA MAFIA TORNA IN PRIMA PAGINA
In edicola con dieci pagine di cronaca, approfondimenti, analisi, interviste. Per raccontarvi tutto sul blitz più imponente degli ultimi anni. Nella speranza che la lotta alla mafia torni a trovare il giusto e adeguato spazio nell’Agenda Italia. Da cui sembra sparita. (MARCO ROMANO)
LA RIVOLUZIONE ATTRAVERSO LA DEMOCRAZIA
JEAN JAURES: LA RIVOLUZIONE ATTRAVERSO LA DEMOCRAZIA
Gilles Candar et Vincent Duclert, Jean Jaurès, Fayard, Paris, 2024, 712 pagine
Jean-Numa Ducange, Jean Jaurès, Perrin, Paris, 2024, 464 pagine
ANNE-CECILE ROBERT
«Ci sono troppe statue di Jaurès», scriveva Gilles Alexandre su Télérama il 4 ottobre 1980. Se allora deplorava il rifiuto del comune di erigere a Parigi un monumento alla sua effigie, sottolineava anche come il suo assassinio, primo atto della guerra del 1914, avesse mummificato Jean Jaurès in pacifista. Contro questa riduzione, che permette il recupero indecente di alcune delle sue citazioni da parte della destra, bisogna ritrovare Jaurès, cosa a cui si impegnano gli storici Gilles Candar e Vincent Duclert, la cui biografia di riferimento è stata appena ripubblicata in formato tascabile.
Tanto più che, come ricorda anche il loro collega Jean-Numa Ducange, il deputato di Carmaux ha lasciato, contrariamente alla maggior parte dei suoi contemporanei seduti a sinistra dell'Emiciclo, nel corso di un'opera considerevole, «un inizio di dottrina alternativa al marxismo della lotta di classe» (Candar e Duclert). Questi tre autori, segnati a sinistra (Ducange è membro della Fondazione Gabriel Péri, Candar è un pilastro della Fondazione Jean-Jaurès), riportano il suo pensiero nei dibattiti intensi che attraversano l'Internazionale socialista all'epoca, tra cui le sue battaglie con Rosa Luxemburg - che lo giudica troppo conciliante con le istituzioni borghesi.
Se il nome di Jaurès rimane noto e ben associato al socialismo, uno studio della fondazione che porta il suo nome, pubblicato in occasione del centenario della sua panteonizzazione nel novembre 2024, rivela che è soppiantato da François Mitterrand nella memoria collettiva come figura di riferimento di questa corrente politica (3). Questo è il divario, un abisso.
La biografia di Ducange, che lascia sussistere il rimpianto di aver passato in rassegna un po' troppo rapidamente punti chiave come la lotta per la laicità, ha il merito di sottolineare la sua unicità in questa III Repubblica minacciata da pulsioni reazionarie di ogni tipo (boulangismo, bonapartismo, monarchismo). Innanzitutto, insiste Ducange, Jaurès, filosofo di formazione per il quale la ragione è emancipatrice, è estraneo al dogmatismo. Ecco perché difenderà a spada tratta Alfred Dreyfus, vittima di un complotto antisemita, quando menti brillanti come Jules Guesde sceglieranno di vedere in questo solo un problema interno alla borghesia. «Non siamo obbligati, per rimanere nel socialismo, a fuggire dall'umanità», scrive allora Jaurès.
In secondo luogo, il «metodo» elaborato dal deputato di Carmaux iscrive il movimento operaio nella storia politica della Francia. Come i suoi compagni dell'Internazionale, ha come obiettivo l'avvento di una società socialista. Invece, ispirato da 1789, diffida delle «minoranze attive» e di altre avanguardie illuminate, e dubita delle grandi serate. Pur accettando l'eventualità di una rivoluzione, e animato dalla costante ricerca della giustizia e dell'uguaglianza, egli raccomanda, sempre secondo Candar e Duclert, uno «sviluppo rivoluzionario» basato sulla recente esperienza democratica del paese. Ogni conquista sociale, ottenuta nel quadro delle istituzioni repubblicane, allo stesso tempo che migliora la vita quotidiana, allenta secondo lui la morsa dell'alienazione e rafforza la volontà del popolo: così come l'adozione delle pensioni operaie e contadine tra il 1910 e il 1912. La democrazia (...) è la condizione stessa dell'azione per le forze operaie, ed è stato il sorgere rivoluzionario delle forze democratiche che ha dato alle forze operaie il loro primo scosso e il loro primo impulso. Poiché è all'origine del movimento operaio - non dico che ne sia l'essenza -, (...) è anche alla fine.» Per Jaurès, la conquista dei diritti politici nel 1789 è il fondamento delle vittorie successive e il socialismo il culmine del progetto repubblicano lanciato nel 1792. Alla concezione, che egli giudica troppo «meccanicistica», dei rapporti sociali sviluppata da Guesde o Paul Lafargue, oppone la sua convinzione che il movimento dell'umanità verso la sua emancipazione è ineluttabile, anche se il cammino proprio della coscienza umana è fondamentalmente indeterminato. E, senza cercare di guidare il popolo, è questo movimento che vuole accompagnare.
https://machiave.blogspot.com/2024/07/proust-jaures-e-gli-armeni.html
10 febbraio 2025
I LIMITI DELLA POTENZA AMERICANA
Nesrine Malik
Donald Trump sta rifacendo il mondo, ma il risultato non gli piacerà
The Guardian, 10 febbraio 2025
Uno dei modi in cui il regime di Donald Trump oscura e distrae consiste nell'attirare costantemente la nostra attenzione sugli Stati Uniti, sul loro potere assoluto di intimidire e tiranneggiare altre nazioni e sul loro enorme peso finanziario nell'esercitare il soft power attraverso organizzazioni come USAid.
Ma allo stesso tempo in cui Trump proietta la sua agenda sulla scena mondiale, sta ritirando gli Stati Uniti dal mondo e riducendone il ruolo all'osso: una potenza imperiale che sceglie e seleziona sfacciatamente come impegnarsi in base alle sue alleanze e ai suoi interessi. Il denaro dei contribuenti americani è molto prezioso da un lato, ma dall'altro può essere speso in modo dissoluto in proposte per impossessarsi di un intero territorio a Gaza e inviare miliardi di aiuti a Israele. Questo non è isolazionismo, è unilateralismo.
Così facendo, gli USA, nonostante il loro dominio sui titoli dei giornali, si stanno ritirando da un mondo da cui si sono ritirati per molto tempo come forza morale, militare ed economica in un impegno selettivo. L'arco di quella recessione è ampio. Fu "la fine della storia" nei primi anni '90, quando si prevedeva che la fine della guerra fredda avrebbe annunciato un nuovo mondo in cui i valori capitalistici liberali avrebbero dominato sotto la globalizzazione e il libero scambio, e la democrazia sarebbe fiorita mentre l'Unione Sovietica e le sue autocrazie nell'Europa orientale crollavano. Ma nei tre decenni successivi, gli USA si sono espansi e poi sono crollati su se stessi.
Il paese diede il via a quel periodo con diversi schieramenti militari attivi e campagne in Medio Oriente e nell'Asia meridionale con il pretesto di stabilire sicurezza e diritti democratici, nonché un solido sistema di sanzioni ampiamente osservate sui partiti devianti. Lo concluse con una ritirata frettolosa dall'Afghanistan con nessuno dei suoi obiettivi raggiunti, un ritiro delle truppe in Iraq e una serie di ambasciate vuote in tutto il mondo. Il 7 ottobre 2023, gli Stati Uniti non avevano ambasciatori in Israele, Egitto o Libano . Una delle cause principali di ciò fu la guerra in Iraq, poiché il pantano in cui si trovavano gli Stati Uniti " risucchiava l'ossigeno dall'agenda di politica estera dell'amministrazione ". Pochi mesi prima che Trump salisse al potere per un secondo mandato, un veterano della politica estera a Washington mi disse che il dipartimento di stato era bloccato nel passato, incapace di cambiare direzione e perfezionare il suo nuovo ruolo nel mondo, e paragonò la sua nostalgia congelata al "guardare vecchi film western in loop".
Nel frattempo, il mondo è semplicemente cambiato. La posizione dell'America come superpotenza si basa su una sorta di status quo che presuppone che nessun'altra nazione debba accumulare abbastanza peso economico e strategico da creare il proprio unilateralismo, o una versione di multipolarità che indebolisca gli Stati Uniti. Una breve panoramica dei dati: la Cina è il più grande partner commerciale e creditore dell'Africa; il 20% delle esportazioni del continente va in Cina e il 16% delle sue importazioni proviene dalla Cina. Gli investimenti diretti esteri della Cina si intrecciano con lo sviluppo stesso della regione, con una parte strategicamente destinata a trasporti, estrazione mineraria, energia e infrastrutture. La Cina è stata il motore di un cambiamento più ampio: il commercio sud-sud è in aumento , mentre il commercio nord-nord è in calo, in particolare dopo la crisi finanziaria globale, creando un mondo più integrato e reciprocamente dipendente a sud dell'equatore e a est dell'Atlantico.
Le potenze mediorientali (per me, una delle storie più trascurate su come sta cambiando l'economia politica globale) stanno usando i loro forzieri del tesoro per diventare attori globali che siedono in cima alla struttura degli investimenti di capitale. Trump sta corteggiando l'Arabia Saudita, dicendo dopo il suo insediamento che avrebbe fatto di Riyadh la sua prima visita all'estero se il regno avesse mantenuto la promessa di acquistare beni statunitensi per mezzo trilione di dollari. Il Qatar sta investendo miliardi negli Stati Uniti. E il fondo sovrano degli Emirati Arabi Uniti ha individuato gli Stati Uniti come una delle principali destinazioni di investimento. Questi stati si stanno espandendo anche a livello regionale, stringendo legami con la Turchia in una ricerca, secondo l'Atlantic Council, "per ottenere autonomia strategica dall'Occidente e distribuire i rischi proteggendosi dai cambiamenti nella politica statunitense nei confronti della Turchia e del vicinato del Golfo", mentre "il centro di gravità dell'economia globale si sposta verso la regione indo-pacifica". Ciò si traduce in vero potere politico.
Questo spostamento del centro di gravità e la più sicura dispersione del potere politico ed economico hanno effetti a catena sull'agenda residua della politica estera degli Stati Uniti. L'elusione delle sanzioni da parte della Russia è stata in parte resa possibile dal commercio attraverso Cina, Emirati Arabi Uniti e Turchia, paesi che sono ora troppo potenti e incorporati nell'economia mondiale per essere colpiti da efficaci sanzioni secondarie per impedir loro di indebolire gli sforzi per isolare la Russia. La recente dichiarazione di genocidio in Sudan da parte dell'amministrazione Biden, ad esempio, e le sanzioni alle sue parti in guerra avranno probabilmente scarso effetto nel limitare il coinvolgimento dei fornitori di armi, dall'Iran agli Emirati Arabi Uniti, che o esulano dalla sfera di applicazione degli Stati Uniti o che sono alleati degli Stati Uniti semplicemente troppo potenti per essere disciplinati.
Il principale colpevole di questa diminuzione della capacità degli Stati Uniti di forzare e persuadere è proprio quella stessa globalizzazione che avrebbe nominato gli Stati Uniti come CEO della società Globo, diffondendone l'ethos economico e politico. La libera circolazione dei capitali, le barriere commerciali più basse, la manodopera a basso costo deregolamentata e la diversificazione dei flussi di reddito nazionale hanno plasmato un mondo che non può più essere diviso in isolati "assi del male" fuorilegge e regimi flessibili. La comunità internazionale è ora divisa tra coloro che hanno peso economico e alleanze commerciali globali e coloro che non hanno né l'uno né l'altro, ma ora hanno più opzioni per diventare stati clienti lontani dalla sfera di influenza degli Stati Uniti. E con Trump al potere, disinvestire dalle politiche volatili e inaffidabili della sua amministrazione e rivolgersi ad alleati più stabili sarebbe la scelta saggia per qualsiasi governo con quella capacità di "proteggersi". Sta procedendo troppo velocemente, rompendo troppe cose e scatenando forze reazionarie tali che le prospettive tra quattro anni sembrano meno propense a vedere un partito democratico risorto lanciare una sfida e una ristabilimento vittoriosi, e più propense a vedere il trumpismo proseguire con altri mezzi.
E così porta con sé gli Stati Uniti, sconvolti e destabilizzati, in un mondo in cui la loro capacità di portare avanti qualsiasi programma desiderino in qualsiasi momento è sempre più minata dal loro stesso crollo morale e politico, e dall'ascesa di altre nazioni e accordi che stanno riscrivendo l'ordine globale. È la fine della fine della storia. Inizia un nuovo capitolo, palesemente transazionale, più affollato, in cui il potere politico è molto più contendibile. Trump potrebbe, ritirandosi in alcune parti del mondo e affermandosi aggressivamente in altre, creare contemporaneamente sia un vuoto che una provocazione che potrebbero catalizzare quel processo. L'ironia è che mentre Trump proietta un'ombra grande e oscura, una parte sempre più ampia del mondo sta uscendo dall'ombra degli Stati Uniti.
IL MONDO OFFESO DI ELIO VITTORINI
L'uomo Ezechiele si mise a riepilogare: il mondo è grande ed è bello ma è molto offeso. Tutti soffrono ognuno per se stesso, ma non soffrono per il mondo e così il mondo continua ad essere offeso...
Digli che come un eremita antico io trascorro qui i miei giorni su queste carte e che scrivo la storia del mondo offeso.
Digli che soffro ma che scrivo, e che scrivo di tutte le offese una per una, e anche di tutte le facce offensive che ridono per le offese compiute e da compiere.
Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia
CONTRO L' ECCESSO DI LAVORO
Contro l’eccesso di lavoro
di Daniele Muriano
C’è oggi una consapevolezza strisciante che riguarda l’eccesso di lavoro in circolazione, e viene dalla pandemia e dallo smart working: sempre più persone, con argomenti diversi e sensibilità non comunicabili, stanno misurando con la loro pelle il potenziale affettivo-effettivo del tempo libero (pur nella consapevolezza che il tempo libero è una truffa, come sosteneva Adorno: è una truffa, perché è il pallido riflesso del tempo lavorativo, e meglio di Adorno lo sa la signora Emma che lavora in cassa nel supermercato di una famosissima catena, vicino casa mia, a Milano sud, che mi racconta di lavorare 12 ore in un giorno, più pausa pranzo, ed eventuale straordinario; per poi restare a casa il giorno successivo, che serve semplicemente a riprendersi dalla fatica, per poi ripartire l’indomani con le 12 ore, e così via). Lo smart working, si diceva. Sì, perché la consapevolezza è spirata da questa innovazione. Che all’inizio il Capitale ha abbracciato con gioia e bacetti sulle guance, perché si trattava in fondo di colonizzare l’ambiente domestico ancor di più, di compenetrare intimità e senso del dovere, con enormi speranze produttive. Ma è esattamente attraverso lo smart working che molte persone hanno avuto modo di pesare il “tempo libero” in senso pratico e non solo fantasioso, risparmiando ore di vita prima impiegate sui mezzi pubblici affollati o in treni sonnacchiosi. Non è un caso che dopo l’iniziale benedizione, lo smart working si stia riducendo (laddove non è produttivo per l’azienda, dove insomma non serve per risparmiare sul costo delle strutture e dei luoghi di lavoro); Elon Musk, per dirne uno a caso, ritiene lo smart working alla stregua di un vizio, se non serve al datore di lavoro: un problema morale. È il caso emblematico di un “re della telematica” contro le innovazioni della telematica.
La consapevolezza strisciante a cui alludevo, dove si comincia a usmare collettivamente una certa libertà, o al contrario una certa oppressione (se lo smart working diventa totalizzante e occupa addirittura più tempo e spazio interiore del lavoro in ufficio, e questo è il rovescio della stessa medaglia), è circostanza fortuita che andrebbe cavalcata. Ma esiste la sinistra? Esiste una politica che non sia confermativa?
Per il gusto di essere antipatico, quando entro nell’orbita di chi – da sinistra – ha digerito male Marx, io dico che a Marx preferisco il di lui genero, Paul Lafargue: autore dell’Elogio dell’ozio, bestemmiatore del “dogma del lavoro”, andrebbe riletto per contaminare un certo entusiasmo sregolato che da sinistra si imprime al lavoro di per sé – non quanto ai sacrosanti diritti dei lavoratori. Il marito di Laura Marx, Paul Lafargue, è anche padre (a)spirituale di molto pensiero novecentesco contro il lavoro: individua nella passione per il lavoro in sé (indipendentemente dagli scopi, dai desideri di ciascuno) una spinta verso gigantesche miserie sociali e individuali.
Certo, il rivoluzionario Lafargue poggiava i piedi nell’Ottocento, all’ombra nascente della seconda rivoluzione industriale, e parlava da un mondo dove il lavoro era ben altra cosa: eppure quegli argomenti parlano anche al nostro mondo sorridente e un sacco smart. Perché mai?
Non è difficile rendersi conto che, in questo nuovo vecchio secolo, l’eccesso di lavoro è un pericolo per le democrazie, e non solo un’aberrazione sotto i più immaginabili punti di vista. Che le democrazie siano gravemente ammalate, qualunque cosa si intenda con questo, è sotto gli occhi di tutti. Anche sotto quelli di chi nega – con argomenti a volte comprensibili – che viviamo effettivamente in regimi democratici.
La questione è semplice, inizialmente. Il mondo è sempre più complesso, sempre più incomprensibile, dice l’esperienza comune. Perché il mondo è fatto in larga parte di informazioni: certo, esiste il mondo pratico e vitale come l’universo affettivo (per chi può permetterselo), e ci sono un sacco di cose che possiamo toccare. Ma il resto è informazione. A quanto pare noi viviamo in tempi di infodemia, parola recente almeno quanto il problema che vorrebbe designare (anche se a volte quelli che la utilizzano sono il problema). Dobbiamo sapere troppe cose, perché dobbiamo vagliare troppe informazioni. Siamo cretini? No, non siamo cretini. Ma abbiamo poco tempo. Pochissimo tempo. Il sistema mediatico ne approfitta. E propone un’offerta disegnata per chi ha poco tempo, per chi non può verificare il valore di verità delle affermazioni più surrettizie, delle cretinate circolanti. E cosa si fa? Si beve tutto, o si sorseggia timidamente il drink delle informazioni. E poi? Si vota. O non si vota. Ma il risultato non cambia, pare.
A queste condizioni, noi cittadini di un mondo che non si comprende, è possibile organizzarsi per cambiare le cose? Dal basso. Ma in che modo? Proteste d’antan, ingenuità strutturale, violenza senza capo né coda, boicottaggi inutili, dichiarazioni di rabbia – cosa possiamo fare? Poco o niente. Non c’è tempo per sapere. Non c’è tempo per informare. Non c’è tempo.
Partito del tempo dovrebbe chiamarsi l’unico partito senz’altro di sinistra e sinceramente democratico. È da lì che è necessario partire. Ma metto da parte la boutade, o almeno ci provo.
Quasi sempre, parlando con la “gente che lavora” di ciò che succede nel mondo (dalla guerra in Ucraina al conflitto israelo-palestinese, ma anche Cina, India, o Nordafrica), non appena si scende un po’ di profondità culturale, arriva la protesta: “Ma io come faccio a sapere di queste cose? Non ho tempo. Devo lavorare, non posso sapere chi sono i cinesi, o gli israeliani, o gli ucraini, o gli egiziani, a mala pena so chi sono gli italiani”. Vale lo stesso per i meccanismi fondamentali dell’economia, per la conoscenza minima di un periodo storico, e per la cultura politica necessaria a organizzare un eventuale dissenso. Di fronte alla complessità del mondo, e alla complessità dell’informazione che fa il mondo, il lavoratore medio è esautorato. Dalla democrazia. Va bene, può ancora votare, ma è un elettore vuoto (o pieno degli omogeneizzati politici e culturali che sono diventati gli articoli o i contenuti giornalistici, la gran parte di essi – il cosiddetto mainstream, in opposizione a una galassia di controinformazione dove non ci si può orientare di fretta, senza prendere abbagli). Per essere un elettore pieno, sazio di informazioni, il cittadino ha bisogno di tempo, molto tempo. Il Partito del tempo, certo, e sono ricaduto nella boutade.
Ovviamente suona ridicolo, ne sono consapevole. Ma non perché sia ridicolo. L’etica del lavoro-per-il lavoro ha reso ridicolo il tempo libero da intendersi come ozio, e lo ha venduto a chi pagava peggio, lo ha sterilizzato politicamente. Per questo pretenderlo, e in modo più che serio, è diventato ridicolo. È da ridere perciò anche la proposta politica più sensata: un reddito universale democratico.
Se regali ai cittadini più tempo, non è detto che mangino brioche. Cioè non è sicuro che il tempo mancante per essere compiutamente cittadini (la pancia piena di informazioni) venga riempito proprio da tutti in maniera virtuosa. Ciascuno con il tempo fa ciò che vuole. Come ciascuno del sistema sanitario nazionale fa ciò che vuole. Non è mica obbligato a curarsi. Non deve far prevenzione per forza, o per legge. Usa il welfare in generale come può – vale a dire come vuole.
Un reddito universale democratico è una forma di welfare, e un’assicurazione contro la deriva apolitica della politica. Fornire a chi lo richiede, indistintamente, senza precondizioni, il minimo indispensabile per la sopravvivenza, è cosa vecchia, ultra detta e marginalmente sperimentata. L’hanno sviluppata teoricamente in tanti, e non bisogna leggere obbligatoriamente con amore André Gorz o abbracciare entusiasti Smircek e Williams e il loro accelerazionismo (di sinistra), per andare in brodo di giuggiole. Basta un pizzico di immaginazione.
Tra l’altro, la proposta di un reddito universale (anche se non concepito come democratico), non è una prerogativa di gente terrificante e brutta, anti-capitalista, che ha per incubo il neoliberismo. Hanno sposato la causa di un reddito di base per tutti anche economisti neoliberali – sebbene in alternativa al welfare, quindi molto male anzi malissimo. Ora non c’è tempo o spazio qui per fare la storia di questa proposta, né per discuterne la fattibilità futura. Che esiste. Il punto è un altro, ragionevolmente.
È in questione l’orizzonte, c’entrano le stelle verso le quali orientarsi nella notte. Si condivide l’approccio? È vero che il disorientamento politico ha molto da spartire con la scarsa capacità di comprendere il mondo? Che la complessità del mondo (ovvero delle sue informazioni) chiede più tempo che in passato? Se non si accetta la verità contenuta in queste domande retoriche, si hanno speranze di carriera e di affermazione individuale. Evviva, auguri. Quando si condivide invece la necessità politica di un Partito del tempo, allora bisogna uscire dallo scherzo, e pensare seriamente.
La maggior parte dei critici del lavoro muove guerra al capitalismo, e al neoliberismo. Ed è sensato, legittimo. Ma la maggior parte dei cittadini non sa nemmeno cosa sia il neoliberismo, e “capitalismo” viene letta come una parola d’ordine per iniziati alla marginalità politica. Invece, la democrazia sanno tutti cos’è. Certamente, magari in tanti non ne riconoscono le cadute, o non sanno definirla precisamente (ma chi ne è capace davvero senza contraddirsi per un attimo?)
Che la democrazia richieda tempo, è uno slogan semplice. Che essere compiutamente cittadini chieda tempo, è altrettanto semplice da capire. La democrazia è anche il tempo, senza il quale semplicemente scompare.
I cittadini che ricevano un reddito universale democratico (il minimo per sopravvivere), e che possano quindi scegliere quanto tempo dedicare al lavoro piuttosto che lavorare per quasi tutto il loro tempo da svegli, potranno svegliarsi alla politica. Se lo vorranno. E comunque avranno tempo per capire, per situarsi. È la storia di cittadini che diventano cittadini. E questo è il minimo dei prezzi, se è vero che la democrazia ha un costo.
Non affronto in questa limitata sede gli effetti che una misura simile avrebbe sul sistema economico e sul mondo del lavoro. Quanto alla fattibilità in un futuro non troppo lontano, è evidente che i maggiori ostacoli risiedano in una certa densità culturale, animata forse qui e là da residui teologici. Ricordo inoltre che ci troviamo nel territorio dell’imprevedibile. L’intelligenza artificiale è tra noi; fino a dieci anni fa nulla di ciò che sta accadendo in questo campo era prevedibile esattamente. Il futuro è politicamente nero come la notte, sì: soprattutto perché non ci sono stelle verso le quali orientarsi. E allora costruiamole, ciascuno nel proprio possibile. Questa è una di quelle.
Pezzo ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2025/02/11/contro-leccesso-di-lavoro/
B. BRECHT e P.P. PASOLINI
Il 10 febbraio 1898 nasceva Bertolt #Brecht.
Un doveroso ricordo e un piccolo analisi sul rapporto del teatro pasoliniano e il teatro epico di Brecht. Buona lettura!
#Pasolini riteneva che con Brecht e la sua teoria dello straniamento si fosse consumata l'ultima possibilità, per il teatro borghese, di rinnovarsi dall'interno. Era necessario fare un'opera di demistificazione, attraverso la quale sarebbe stato chiaro che il teatro in quanto teatro, si fondava ormai sul nulla. Esso, sia nella sua accezione borghese che antiborghese, non esisteva più in quanto prodotto organico (il termine è di derivazione gramsciana) di un contesto sociale, ma come frutto di un atto di volontà.
Bertolt Brecht fu per Pasolini un punto di riferimento importantissimo nella sua concezione teatrale. Infatti Pasolini scrisse un manifesto esaltato e scandalizzante, il cosiddetto "Manifesto per un nuovo teatro" concepito secondo lo stile di un Marinetti piuttosto che di un Brecht o di un Artaud.
Pasolini propone la sua idea di teatro attraverso i segnali della provocazione, cancellandone in partenza qualsiasi elemento ancora assoggettabile ad un eventuale compromesso con l’establishment teatrale, e calcando la mano sulle proposte più spiazzanti, con la sicurezza della impraticabilità delle proposte stesse. Il nuovo teatro di Pasolini è dunque, in virtù della forma stessa in cui viene teorizzato, un teatro di provocazione:
"In tutto il presente manifesto, Brecht non verrà mai nominato. Egli è stato l'ultimo uomo di teatro che ha potuto fare una rivoluzione teatrale all'interno del teatro stesso: e ciò perché ai suoi tempi l'ipotesi era che il teatro tradizionale esistesse [e infatti esisteva]"
📰Manifesto per un nuovo teatro."Nuovi argomenti", gennaio-marzo 1968. Poi in Saggi sulla letteratura e sull’arte.
📷 Pier Paolo Pasolini da “Dibattito al Teatro Gobetti” in "Quaderni del Teatro Stabile"Orgia (1968/69) © Vitaliano Davetti/Riproduzione riservata
📷 Bertolt Brecht, 1927 © Zander and Labisch/Ullstein Bild Studio/Tutti i diritti riservati
09 febbraio 2025
TARDO FASCISMO
TARDO FASCISMO
di Marco Fontana
pezzo ripreso da https://www.leparoleelecose.it/?p=50875
È utile qualificare come “fascista” la nuova faccia della reazione odierna? Non propriamente, spiega Alberto Toscano in Tardo fascismo. Le radici razziste delle destre al potere (DeriveApprodi, 2024), un libro che tenta di pensare il fascismo come “processo e potenziale” che avanza rispondendo, a modo suo, a uno scenario di crisi. Per capire se Trump stia portando gli Stati Uniti verso un nuovo fascismo non ha senso riflettere in maniera analogica rispetto al passato, facendo paragoni con le tappe che hanno portato al ventennio o all’ascesa nazista. È più sensato, secondo Toscano, cessare di considerare il fenomeno nella sua straordinarietà e legarlo sulla lunga durata alla dominazione capitalista e ai suoi funzionamenti. Il problema del fascismo, ha detto Karl Polanyi, è vecchio quanto il capitalismo: per questo occorre guardare al modo in cui reagisce a scenari di crisi e al modo in cui, come tutti gli altri fenomeni, varia al variare del contesto socio-economico.
Lasciare la strada dell’analogia storica per prendere quella della disanalogia, per Toscano significa misurare l’articolazione del fascismo su livelli temporali diversi, cioè sul suo collocarsi dentro e fuori dalla contemporaneità (con Ernst Bloch) mobilitando progetti nostalgici e nazionalisti di palingenesi. Il tipico discorso fascista tende a rifarsi a un passato eroico e ad aspirare ad un futuro non realizzato, svuotando di senso ogni concreta storicità e trasformandola in una “pappa”, come ha detto Furio Jesi, modellabile a seconda del bisogno[1]. Di questa continua operazione di ri-significazione del passato, di cui Mimmo Cangiano ha recentemente spiegato i funzionamenti[2], la cultura di destra fa il suo marchio speciale presentandosi come rigeneratrice sociale e come baluardo di fronte ai colpi disgreganti della modernità. Oggi lo vediamo nel panico che il tardo fascismo manifesta nei confronti dell’ideologia del gender e della sostituzione etnica che porta il nostro governo, ad esempio, a inseguire i trafficanti di migranti su tutto er globbo terracqueo [sic]. Salvo che poi, come dimostra il caso Almasri, non è così; così come non c’è nulla di rigenerativo nelle promesse trumpiane di protezione delle classi popolari, perché la difesa dei maggiorenti della Silicon Valley non può accompagnarsi a quella di chi per loro lavora[3]. Ogni progetto populista di cambiamento sociale, spiega infatti Toscano, diventa una “parodia del cambiamento”, dato che il (falso) progressismo della destra promuove un egualitarismo repressivo e mai emancipatorio. Il fascismo, che non ragiona in termini di totalità, quando si rivolge a una “classe” propone discorsi identitari che trasmettono un predicato razziale. Non ha senso, allora, parlare da sinistra della “fine della classe operaia” se la si imputa all’elettore bianco, perché quella “classe” non esiste realmente come corpo collettivo ma è solo un «simulacro di classe». In questo modo non si dà il primato al ruolo che quella classe gioca realmente nella catena di produzione ma si finisce per conferirlo alla bianchezza. Viceversa, per Toscano la classe va pensata come basilare anticorpo a una politica di sfruttamento e va slegata dal contenuto identitario che ne inficia la posizionalità.
Per mettersi in contrasto a queste logiche, Toscano trova un altro anticorpo essenziale sul piano critico nel vasto archivio del pensiero antifascista del XX secolo. Il secondo capitolo di Tardo fascismo è una discesa nel pensiero radicale nero, risorsa indispensabile per ragionare in senso differenziale sul fascismo e sui meccanismi di sur-sfruttamento (Claudia Jones) del capitalismo razziale. Nelle riflessioni e nelle esperienze di George Jackson, Angela Davis e Cedric J. Robinson, Toscano trova un repertorio utile a uscire dall’impasse del pensiero analogico e a sfatare il mito dell’antitesi tra dispotismo fascista e democrazia liberale. Il legame tra nazionalismo e capitalismo illustra infatti sulla lunga durata le radici violente del colonialismo attivo in forme di fascismo prima del fascismo. Guardare al pensiero nero serve a inserire il nostro presente all’interno di un arco temporale segnato con ricorsività dal fascismo razziale. Un fascismo quindi da intendere come processo, suggerisce Angela Davis, cioè come una forza incipiente posta a difesa di una supremazia bianca che agisce in maniera “preventiva” esautorando un’intera comunità dal sistema dei diritti. Robinson, in Black Marxism[4], spiegava che il fascismo per i neri non è un’aberrazione storica del passato, ma una concreta e attiva disciplina sociale di dominio: ecco perché serve uscire dall’analogia e ragionare sul fascismo potenziale insito nelle dinamiche statali. Seguendo questa via, Toscano invita ad osservare le modalità con le quali uno Stato afferma pratiche razziali e sottrae diritti mediante azioni “invisibili” che si riversano poi sulle maggioranze. Da questo punto di vista, il Ddl Sicurezza è per noi più pericoloso del movimentismo episodico dell’estrema destra perché modifica strutturalmente la cosa pubblica. Spiega Toscano, infatti, che le democrazie liberali odierne non fanno automaticamente da argine contro il fascismo incipiente, ma possono servirsi del potenziale congenito che ha il capitalismo nella gestione violenta delle crisi. Una violenza che, ai nostri giorni, è favorita dall’assenso concesso a pratiche economiche neoliberali che, percepite come ordo naturalis, conducono senza rimedi al graduale smantellamento dello stato sociale. Il risultato è il formarsi di quello che Toscano, via Gilmore, chiama lo «Stato anti-Stato», cioè una forma di laissez-faire coercitivo (niente affatto neutrale sul piano politico) che radicalizza la supremazia delle classi dominanti (l’ultimo insediamento di Trump ce ne dice qualcosa). Tutto ciò dà il la a un’estrema destra che si muove ambiguamente tra il bisogno di uno Stato forte a difesa di una “razza” e un antistatalismo che infine lascia indenne un capitalismo privo di ogni direzione ideologica. Lo si vede bene, ad esempio, nella promessa del mantenimento di un’“italianità” coesa e il contemporaneo avvallamento all’ingresso dei capitali stranieri che svuota le nostre città distruggendo il tessuto urbano – a conferma che in questo scenario l’unica comunità reale, come aveva già detto Marx nei Grundrisse, è il denaro. Da qui sorge un nuovo fascismo che è tanto una reazione contro gli effetti del neoliberalismo (lo “sfaldamento” organico di cui ha timore la cultura di destra) quanto un’identificazione con le pratiche coercitive presenti nello Stato anti-Stato: «questo tardo fascismo, che arriva dopo le inutili profezie sulla neutralizzazione neoliberale del politico, è una sorta di affermazione di secondo ordine o di riflesso del rovescio autoritario del neoliberalismo» (85).
Quello descritto da Toscano è, in definitiva, un fenomeno ricorsivo che cattura malesseri diffusi e che si presenta sempre come una contro-rivoluzione senza rivoluzione. Ecco perché ogni tentativo di politicizzazione (falsamente) promosso dal tardo fascismo si arena nell’anti-politico: lo vediamo non solo nella difesa di un simulacro della classe operaia, ma anche nella difesa di un “antifemminismo femminile” che agisce normativamente sancendo ulteriori forme di diseguaglianza. Il tardo fascismo è quindi da intendersi come un processo che perpetua forme di dominio e violenze ed emerge in tempi di crisi a cui risponde in maniera anti-emancipatoria. La prospettiva da cui Toscano guarda a questo fenomeno – la disanalogia e la potenzialità proiettata sulla lunga durata – risulta funzionante perché adotta la strategia di quel “manichino” delle Tesi sul concetto di storia che vinceva sempre a scacchi grazie alla sua contromosse. Quella contromossa, come ha detto Benjamin, è il “materialismo storico” che serve a capire che, in questo processo, l’unica cosa che continua a salvarsi, al di là di ogni revanscismo o populismo autoritario, è il capitalismo, un capitalismo così forte di fronte alle crisi da riuscire a «salvare il capitalismo dal capitalismo» (171). Per questo – chiude Toscano con Horkheimer – va compreso che «chi non è disposto a parlare di anticapitalismo dovrebbe tacere anche sull’antifascismo».
Note
[1] F. Jesi, Cultura di destra. Con tre inediti e un’intervista, a cura di A. Cavalletti, Roma, Nottetempo, 2011.
[2] M. Cangiano, Culture di destra e società di massa. Europa 1870-1903, Milano, Nottetempo, 2022 p. 103.
[3] Ne ha parlato di recente Luca Celada: https://centroriformastato.it/il-piano-di-silicon-valley-per-la-tecno-repubblica/.
[4] C.J. Robinson, Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera (1983), Roma, Alegre, 2023.
[
UN FILM DA VEDERE: "Io sono ancora quì"
UN FILM DA VEDERE:
IO SONO ANCORA QUI È UN'OPERA PREZIOSA. DOVE IL SORRISO DIVENTA UN GRANDE GESTO POLITICO CONTRO LA FEROCIA
giovedì 30 gennaio 2025
Giovanni Bogani
I desaparecidos, sì. Vecchia storia, ti viene da dire. Li abbiamo già conosciuti, al cinema, con Garage Olimpo di Marco Bechis, film straordinario, feroce e asciutto. Perché dovremmo tornare a occuparcene? Sappiamo che cosa è successo, immaginiamo il dolore che possa aver causato. Da qualche parte, lontano. In America latina, mica qui da noi. E invece, doppio sbaglio. Perché Io sono ancora qui ti fa stare attaccato agli occhi di Fernanda Torres, ti fa stringere in un abbraccio il suo dolore composto, mai esibito, per tutti i minuti del film. E perché Io sono ancora qui parla di un mondo lontano che è maledettamente vicino al nostro. Poteva esser capitato a noi.
Siamo in Brasile, nel 1970. Per noi, il Brasile del 1970 è quello di Pelé. E con lui, la nazionale verdeoro più forte di tutti i tempi: Rivelino, Jairzinho, Tostao, Clodoaldo. Il Brasile del 1970 è l’Everest della civiltà, per chi ama il calcio. E anche per i brasiliani, economicamente, era la “epoca boa”, quella del boom. Non riesci facilmente a pensare che potessero esserci prigioni, grida sorde di torturati dietro le porte chiuse, persone portate via da casa e fatte scomparire in un buco nero della Storia. Non riesci a pensare che il Brasile fosse un mattatoio come, pochi anni più tardi, il Cile di Pinochet, e poco dopo l’Argentina del generale Videla. Altri corridoi, altre torture, altri desaparecidos. E, nell’Argentina del ’78, altri campioni di calcio, Passarella e Kempes, ad alzare la coppa del mondo, a fare miracoli con la palla fra i piedi, mentre a pochi metri di distanza altri giovani come loro morivano.
Su quest’altra pagina, meno conosciuta forse, quella delle violenze del regime brasiliano, delle repressioni, dei desaparecidos di Rio de Janeiro, Walter Salles fa un film prezioso, non solo e non tanto per l’assunto storico/politico, ma per la vita che ci sta dentro, per l’attenzione che pone a ricostruire il mondo che racconta. E per come, senza far alzare mai la voce ai suoi protagonisti, sa incidere quel dramma nella nostra pelle di spettatori.
Fernanda Torres, madre e matriarca di una famiglia a cui viene strappato il padre, non alza mai la voce, non si fa mai vedere mentre piange, non cede mai alla disperazione. Un’interpretazione da brividi, ripensandoci non capisci come non abbia vinto la Coppa Volpi a Venezia, lo scorso settembre. Agli Oscar sarà ancora più dura (anche se ha già vinto il Golden Globe): ma lo meriterebbe. Intorno, un Brasile che Walter Salles costruisce in modo che sembra quasi di sentirne i sapori, gli odori, la temperatura dell’aria. Le spiagge di Rio luminose davanti al Pan de Azucar, cagnolini che corrono e ragazze che si versano la Coca cola sulle gambe, per abbronzarsi. La casa borghese spaziosa – nell’avenida Delfim Moreira, nella Rio de Janeiro più residenziale – casa piena di libri, dove le figlie entrano a piedi scalzi, e la figlia maggiore è un po’ hippie alla europea, pazza per il cinema e la musica. Una realtà mangiata a morsi con una cinepresa super8, la figlia maggiore Veroca ha la passione di filmare. E noi spettatori vediamo i suoi home movies, con la grana giusta della pellicola, i colori smerigliati, da caleidoscopio, che avevano quelle riprese.
Walter Salles sa bene che, di quegli anni ’70, oggi abbiamo soltanto qualche fotografia e qualche home video, oltre ai grigi telegiornali di Stato. E mescola bene le sue carte, ci fa entrare – insieme al direttore della fotografia Adrian Tejido – davvero in quel mondo. È una fotografia luminosa, un mondo che vien quasi da toccarlo. E quei rapidi tocchi che annunciano il buio: un elicottero che passa troppo basso sulla spiaggia, i camion dei soldati che passano vicino alle case. E i ragazzi fermati, mentre vanno in macchina, un posto di blocco in un tunnel. La brutalità dei militari, le armi che appaiono. Lo spavento dei ragazzi.
Non ha nessuna fretta di fare accadere l’Inevitabile, però, Salles. Non ha fretta di fare bussare qualcuno alla porta, i militari in borghese, per dire al padre che deve seguirli. Perché il centro del film è nella forza, nella coesione, nella dignità della famiglia che il film racconta: non nella ferocia lugubre e burocratica degli aguzzini di Stato.
Se dovessi cominciare da capo / ti incontrerei senza cercarti
Se dovessi cominciare da capo
ti incontrerei senza cercarti.
Ero così vicino a te
che accanto agli altri
ho freddo
Paul Eluard
08 febbraio 2025
RICORDARE TUTTO
I morti, le vittime, vanno sempre rispettate, ma la storia va raccontata tutta, come afferma il prof Alessandro Barbero. Mettere sullo stesso piano il 25 Aprile e il giorno della memoria delle vittime delle foibe, come vorrebbe la Meloni e i neofascisti, parificando ciò che non può essere parificato, è uno schiaffo a tutte le vittime. Perché l'origine dei massacri è una e soltanto una: il nazifascismo.
Qui non si parifica un bel niente, altroché!
TOMAS TRANSTROMER, Poesia dal silenzio
È uscito per Crocetti Poesia dal silenzio del premio nobel per la letteratura Tomas Tranströmer.
Ospito qui alcuni testi estratti dal libro e ripresi da https://www.nazioneindiana.com/2025/02/09/tomas-transtromer-il-geroglifico-del-verso-di-un-cane/
da Segreti sulla via (1958)
Quadro meteorologico
Il mare d’ottobre brilla freddo
con la sua spina dorsale di miraggi.
Niente è rimasto a ricordare
il bianco vortice delle regate.
Una luce ambrata sul villaggio.
E tutti i suoni in lenta fuga.
Il geroglifico del verso di un cane
è dipinto nell’aria sopra il giardino
dove il frutto giallo inganna
l’albero e si lascia cadere.
da Il cielo incompiuto (1962)
L’albero e il cielo
Un albero vaga nella pioggia,
ci passa in fretta davanti nel grigio scrosciante.
Ha un affare da sbrigare. Prende vita dalla pioggia
come un merlo in un frutteto.
Appena smette di piovere l’albero si ferma.
S’intravede dritto e fermo nelle notti chiare,
come noi in attesa dell’istante
in cui i fiocchi di neve si rovesciano nello spazio.
da La barriera della verità (1978)
Punto di passaggio
Vento di ghiaccio contro gli occhi e i soli danzano
nel caleidoscopio delle lacrime quando incrocio
la strada che mi ha seguito così a lungo, la strada
dove l’estate groenlandese brilla dalle pozzanghere.
Intorno a me sprigiona tutta la sua energia,
la strada che nulla ricorda e nulla vuole.
Nella terra, sotto il traffico, aspetta
il bosco non nato, immobile da mille anni.
Ho idea che la strada mi veda.
Il suo sguardo è così cupo che il sole stesso
diviene un gomitolo grigio in uno spazio nero.
Ma proprio ora mi illumino! La strada mi vede.
I DATI DELLA POVERTA
I dati della povertà e il racconto fasullo.-di Filippo Veltri
Stavolta non sono le classifiche di vivibilità del Sole 24 ore ad indicare dove e come stiamo come Calabria. Classifiche contestabili finché si vuole – del tipo: qui c’è un mare da favola, in Sila l’aria più pulita del mondo (o d’Europa, fa lo stesso) ed altre menate del genere – ma che indicano purtuttavia una tendenza comunque chiara.
Stavolta parla l’ISTAT, incontestabile dunque, che certifica come nel 2023 il reddito disponibile delle famiglie per abitante del Mezzogiorno si attesta a 17,1mila euro annui e si conferma il più basso del Paese e la Calabria è all’ultimo posto tra gli ultimi. Rapporto che nei giorni scorsi è stato ampiamente illustrato su queste pagine, con tutte le cifre e i dati resi noti da Istat, da Maria Francesca Fortunato.
C’è poco quindi da raccontare a mo’ di favolette ai bambini ma per non annoiarvi troppo ecco qualche altra cifra utile solo per qualche considerazione finale.
La distanza in termini di reddito del Sud da quello del Centro-Nord, pari a 25mila euro, è superiore al 30%. Lo si legge nel Report Istat sui conti economici territoriali. La graduatoria regionale vede in prima posizione la Provincia autonoma di Bolzano/Bozen, con un Pil per abitante di 59,8mila euro, seguita da Lombardia (49,1mila euro), Provincia autonoma di Trento (46,4mila euro) e Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste (46,3mila euro). Il Lazio si conferma la prima regione del Centro e l’Abruzzo è la regione del Mezzogiorno con un Pil per abitante più alto (31mila euro), seguita da Basilicata (27,5mila), Molise (26,7mila) e Sardegna (26,3mila).
La Calabria in questa classifica resta stabilmente all’ultimo posto della graduatoria, con 21mila euro, preceduta dalla Sicilia, con un valore del Pil per abitante di 22,9mila euro. In pratica nella provincia di Bolzano si registra un pil pro-capite che è quasi tre volte quello della Calabria. E non è finita qui: In Italia nell’anno la spesa per consumi finali delle famiglie per abitante, valutata a prezzi correnti, è stata pari a 21,2mila euro. I valori più elevati si sono registrati nel Nord-ovest (24,2mila euro) e nel Nord-est (23,8mila euro); segue il Centro, con 22,2mila euro, mentre il Mezzogiorno si conferma l’area con il livello di spesa più basso (16,7mila euro).
Fin qui le cifre più significative del rapporto ISTAT, giusto per dare un’idea dello stato dell’arte. Tante altre ce ne sono infatti in quel rapporto ma il quadro è ultra chiaro e indica che le chiacchiere sui miglioramenti mirabolanti che ci vengono propinati ad ogni piè sospinto non si capisce su che cosa si poggiano. E non parliamo dei servizi sociali primari, dell’assistenza, della sanità su cui questo giornale ha avviato da settimane una martellante campagna stampa di mobilitazione. E non parliamo nemmeno delle infrastrutture di trasporto, tutte, strade ferrovie etc etc. ridotte ad uno stato di colabrodo, dove più e dove meno, degne del terzo mondo in alcuni casi.
Bastano tre ore di pioggia per aprire voragini dovunque (vedi ultimo nubifragio di domenica scorsa). Per non parlare – ancora – dei tassi di emigrazione di giovani e meno giovani fuori dalla regione, con un calo delle residenze da far paura.
Siamo insomma ad un momento cruciale, uno dei tanti direte voi, che dovrebbe indicare una linea di condotta chiara e certa a tutti gli attori politici, istituzionali, sociali, culturali che qui operano. Assistiamo, viceversa, ad un continuo vociare senza costrutto, ad un rimpallo di ruoli e responsabilità, di colpe e di errori, vecchi e nuovi, che non si traduce alla fine in niente.
Settimane fa due economisti calabresi – Mimmo Cersosimo e Rosanna Nisticò – avevano già descritto un quadro a tinte vere e fosche. Ne abbiamo scritto su questo giornale ampiamente. Tutto era passato in cavalleria. È proseguito quel mettere assieme un pezzo qua ed uno di là, tutto privo di rete e di collegamento, per annebbiare ancora una volta un’opinione pubblica confusa e distratta. La domanda resta sempre quella ed unica: si può andare avanti con questo andazzo?
da “il Quotidiano del Sud” dell’8 febbraio 2025
Iscriviti a:
Post (Atom)