28 settembre 2024

IL FANTASMA DEL MATRIARCATO

 






Anna Maria Guadagni, Il matriarcato che avanza, Il Foglio, 28 settembre 2024

L’Ottocento è forse stato il secolo di maggior circolazione del fantasma del matriarcato. Ma l’esistenza di una antica organizzazione familiare e sociale dominata dalle donne l’aveva già teorizzata Thomas Hobbes nel “Leviatano” due secoli prima, ipotizzando un’epoca in cui la paternità dei figli era nota solo su indicazione delle madri: da questo discendeva il loro potere, che finì nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile. Lì le donne l’avrebbero ceduto in cambio di un nuovo patto sociale, il matrimonio. Nel Settecento, con lo studio etnologico delle società primitive, si individuò nella discendenza matrilineare la chiave del potere femminile. Il gesuita Joseph-François Lafitau, che aveva vissuto con le tribù irochesi del Nordamerica studiandone i costumi, aveva notato che per questa ragione quel popolo riconosceva alle donne un ruolo più importante. Anche Livingstone notò qualcosa del genere presso alcune tribù africane. Nell’Ottocento, Henry Lewis Morgan, etnologo e antropologo americano, descrisse una successione di stadi nello sviluppo delle civiltà: dalla promiscuità dell’orda primitiva al gruppo famigliare a discendenza matrilineare, per arrivare alla famiglia patriarcale prima poligamica e poi monogamica come forma più alta e progredita. L’etnologo evoluzionista scozzese John Mclennan, autore nel 1866 di “Primitive marriage”, scrisse che al tempo dell’organizzazione matrilineare vigeva la poliandria, più uomini per una sola donna, orrore.

Per tutti, in sostanza, l’avvento del patriarcato segnava l’inizio della civiltà e l’uscita dalla barbarie. A mettere in discussione questa visione, nel 1861, fu il giurista svizzero Johann Jakob Bachofen. Anche per lui, tutte le società avevano attraversato una serie di fasi storiche: dalla primitiva promiscuità, quando gli uomini sottomettevano le donne con la forza, passando per il matriarcato, età in cui le donne imposero il matrimonio monogamico e una visione religiosa del mondo, assumendo il potere dentro e fuori dalla famiglia, per arrivare al diritto paterno come ultimo stadio, rigettando la legge delle madri. A differenza di altri, Bachofen, che pure considerava la nascita del patriarcato inevitabile e necessaria alla creazione dello stato, pensava alla società matriarcale come a un’epoca felice, di fratellanza tra gli umani e di sintonia con la natura.

Le tesi di Bachofen furono accolte da Engels che le riprese ne “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato”: erano in sintonia con l’idea marxista per cui la famiglia, il concetto di proprietà e le forme sociali e giuridiche corrispondenti sono storiche e mutano nel tempo. Ma l’ipotesi di un periodo matriarcale ha trovato ascolto anche a destra, piacque a Evola per l’identificazione della civiltà con il principio virile. Mentre la psicoanalisi di orientamento junghiano colse nell’archetipo della Grande Madre un elemento indispensabile a nutrire la cultura cercando l’equilibrio tra valori maschili e femminili.

Sono solo tracce del percorso di una parola nei secoli a noi più vicini. A destrutturarlo ha pensato Eva Cantarella, storica e giurista del mondo antico, nei suoi lavori sul matriarcato: dalla voce dell’enciclopedia Treccani al saggio su Quaderni di Storia n. 28 - 1988, alle introduzioni alle opere di Bachofen; l’edizione più recente è “Il potere femminile. Storia e teoria”, Mimesis 2021.

Eva Cantarella mostra come Bachofen fosse innovativo per la sua epoca e, insieme, fuori strada. Innovativo perché utilizzò il mito come fonte di conoscenza: ciò che i miti raccontano può non essere accaduto, ma è stato pensato. Fuori strada perché suppose nei miti la proiezione di una realtà più antica. Al contrario, oggi gli antichisti ritengono che il mito possa anche rappresentare l’opposto della realtà, cioè il mondo capovolto, l’impensabile.

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