24 settembre 2012

LE MANI SULLA CITTA'





Pubblichiamo un articolo sul film di Francesco Rosi, “Le mani sulla città”, in uscita sul prossimo numero della rivista fiorentina “Il Ponte”.

Mario Pezzella  -  Paesaggio con rovine

Quando uscì il film, nel 1963, l’attenzione si concentrò quasi interamente sul suo significato politico. Alcuni critici scrissero che alle buone e generose intenzioni ideologiche non corrispondeva una realizzazione estetica altrettanto efficace: quasi che il film fosse un puro materiale di propaganda, nel periodo che vedeva la nascita del centrosinistra in Italia e aspettative di cambiamento rapidamente deluse. A distanza di tempo esso rivela invece di essere una sempre attuale fenomenologia delle classi dirigenti meridionali, realizzata con una intersezione geniale di moduli espressivi neorealisti e di montaggio all’americana.
Rosi descrive la formazione e il funzionamento di un meccanismo di potere o per meglio dire la fase di passaggio da un sistema di dominio paternalistico, brutale e premoderno a quello più duttile e sottile, che accompagna l’affermazione del modernismo neocapitalista in Italia. A questa transizione si riferiscono i personaggi e le situazioni; ma soprattutto essa è rappresentata attraverso la trasformazione del paesaggio urbano e delle sue architetture. La modalità espressiva più importante del film è l’articolazione degli spazi, il rapporto tra gli edifici e l’ambiente esterno, tra la psicologia dei personaggi e gli interni in cui vivono. Ideologie, conflitti politici, passioni e avidità di potere si esprimono grazie al loro rispecchiamento nella configurazione fisica della città: l’architettura diventa il simbolo privilegiato delle dinamiche storiche e sociali.
Poco dopo l’inizio del film, la macchina da presa inquadra dall’alto di un elicottero il panorama urbano di Napoli, devastato dalla speculazione edilizia: la catastrofe, la violenza del potere è già tutta compresa in questa sequenza. Valloni scarrupati, cartolineschi pini soffocati dal cemento, palazzi simmetrici e prevedibili come loculi: la celebrata felice natura di Napoli è definitivamente ferita a morte. Ne ha preso il posto la lunare cementificazione di una periferia modernista. L’aggressione alla vita si è fatta spazio, pietra, edificio, la costruzione di un palazzo è equiparabile a un atto di guerra e di occupazione del territorio. Le inquadrature dall’alto ci restituiscono una geometria urbana ossessivamente ripetitiva, destituita di ogni centro, priva di orientamento.
Da questa sequenza d’insieme passiamo a quella del crollo del palazzo, che uccide due persone e ferisce un bambino; il montaggio mostra la causa generale e l’effetto inevitabile, l’insieme e lo specifico, con una tecnica che ricorda quella dei film di denuncia americani di J. Dassin. La ferita che ci è stata mostrata dall’alto e in astratto, come un’offesa al corpo della terra, ora diviene la violenza che uccide fisicamente esseri umani, lo spazio opprimente e ossessivo della speculazione è evocato dal ritmo cupo del battipalo, che è l’origine occasionale del disastro. La sequenza ricorda quella di un bombardamento in un film di guerra, la folla fugge invasa dal panico, le madri urlano disperate per i figli feriti o in pericolo: potrebbe essere una scena di Roma, città aperta, solo che qui la rovina non è provocata dalle armi, ma dall’avidità e dalla speculazione.
Le diverse forme di potere che si contrappongono e infine si integrano nel corso del film ricevono anch’esse una rappresentazione architettonica: gli ambienti in cui vivono i potenti hanno tutti un carattere simbolico preciso. Quando il costruttore Nottola va a trovare il capogruppo della destra Maglione a casa sua, questi sta vogando su una canoa o almeno così sembra; poi un’inquadratura in campo lungo, dalle sue spalle, ci mostra che in realtà si trova sul bordo della sua piscina, dove il remo sbatte avanti e indietro senza produrre alcun movimento. E’ una grottesca raffigurazione del potere gestito dal vecchio gruppo di destra: creare apparenze di movimento, perché tutto in realtà resti immobile e fermo, in un ordine clientelare paternalistico e consolidato. Nottola e Maglione discutono poi negli interni aristocratici della villa, ove un arredamento a colori chiari, di raffinato antiquariato, ospita un colloquio in cui il costruttore propone di sfrattare seduta stante gli abitanti di un vicolo, per riprendere a pieno regime la sua attività speculativa. Nel colloquio tra i due, vien reso visibile e palpabile il carattere di Maglione e della corrente politica che rappresenta: un tono da gran signore si mescola alla volgarità populista e alla decisa brutalità, che affiora nei momenti di crisi. Così vediamo i suoi compagni di partito, nella seduta del Consiglio comunale, che agitano le mani col volto sfigurato dall’ira, gridando “abbiamo le mani pulite”; il sindaco che distribuisce banconote a un gruppo di donne in Municipio, commentando “guardate come si fa la democrazia”; o ancora lo stesso Maglione, il quale –dopo aver giurato che mai il traditore Nottola sarebbe diventato assessore- lo abbraccia infine per convenienza e si allea di nuovo con lui. Situazioni che Rosi (coadiuvato dallo sceneggiatore La Capria) ci mostra con lievi alterazioni grottesche, che non sconfinano mai nel macchiettismo e traducono lo sdegno morale di chi conosce lo stile compromissorio e insieme violento della borghesia fascista-laurina e il gesuitismo morodoroteo[1] del nuovo potere democristiano in ascesa.
Ben diversi gli ambienti e gli spazi, in cui vive il costruttore Nottola, che ci fanno intuire fin dall’inizio un contrasto potenziale fra di lui e il mondo imbalsamato della politica[2]. Il suo studio, che ci viene mostrato in particolare nella sequenza notturna, in cui avviene la rottura con Maglione, è all’ultimo piano di un grattacielo, nudo, funzionale, con le pareti ricoperte da carte topografiche o fotografie giganti degli edifici costruiti nella città da conquistare e sfruttare.
Mentre Nottola discute col consigliere comunista De Vita, vediamo l’interno di una delle case da lui costruite, nello stile impersonale, asettico e razionalistico del modernismo anni Sessanta; il costruttore è probabilmente in buona fede quando sostiene di essere un fattore di progresso, un imprenditore di successo, che introduce brandelli di modernità in un contesto arretrato. Egli non vede, letteralmente, che il suo modo di costruire trasforma la realtà urbana in una sterminata e incolore periferia. Si sente limitato dai “lacci e lacciuoli” dei regolamenti comunali e pensa che sia lecito e meritorio aggirarli e infrangerli in ogni modo. E’ un vero anticipatore della razza padrona e predona che dominerà l’Italia negli ultimi decenni del Novecento, con rozza energia, producendo una distruttiva mutazione antropologica del paese. La sequenza della chiesa dà un ultimo tocco al personaggio: un’improbabile devozione spinge Nottola a far accendere candele davanti a un altare, per mitigare forse la vergogna del suo tradimento politico e chiedere ad ogni buon conto l’approvazione superiore della Madonna, che protegge -secondo la sua logica- i suoi nuovi protettori democristiani (la grazia di dio, come ogni altra cosa, si compra con l’obolo). Le candele si accendono però fredde, elettriche, artificiali, come senza cuore è il sistema affaristico e politico, in cui il costruttore è inserito.
Mediatore tra il vecchio potere populista laurino e il nuovo cinismo neocapitalista è De Angeli, capo locale della Democrazia Cristiana (i partiti nel film non sono comunque mai chiamati col loro vero nome), morodoroteo di alto spessore intellettuale. A lui spetta di esporre il pessimismo storico di marca democristiana, non troppo dissimile da quello proclamato da Andreotti nel Divo di Sorrentino o dal protagonista di Todo Modo di Sciascia: il male è inevitabilmente nel mondo, l’uomo è corrotto e corruttibile, i Nottola ci saranno sempre; che altro fare se non contenere alla meno peggio questa irresistibile tendenza al peccato? Il potere serve a creare argini, a porre qualche limite al caos, a “digerire” la scalata arrembante di personaggi come il costruttore, perché infine l’ordine sociale non venga interamente distrutto. Occorre, per così dire, trattare e giocare a tressette con i diavoli che emergono di volta in volta nella storia, perché l’inevitabile non diventi intollerabile. Questa teoria “katekontica” del potere, come l’avrebbe definita C. Schmitt[3], può poi degenerare nella giustificazione pura e semplice di ogni compromissione e nella corruzione personale. Bandito ogni fine, la politica diventa tecnica e gestione burocratica del dominio, funzionalità chiusa in se stessa, ove le regole effettivamente vigenti non hanno nulla in comune con quelle sancite dal diritto e pubblicamente dichiarate. Le trattative occulte concorrono alla decisione molto più dei falsi e spettacolari dibattiti in Consiglio Comunale. “Siamo noi a fare l’opinione pubblica” dice De Angeli allo stupito e debole esponente della sinistra democristiana. Il potere morodoroteo riceve una rappresentazione figurata nella casa dello stesso De Angeli, dominata dalle immagini sacre del barocco napoletano, con la sua fastosità e cupa grandezza (esiste perfino un intero altare ad uso domestico). Il passato, esibito dai quadri, dai mobili e dalle stesse maniere di De Angeli, prevale con opprimente fatalità: “E’ una casa ricca, sì, ma soprattutto prelatizia, curiale; fra quelle pareti ovattate, tra libri e quadri che sembrano fornire una garanzia d’ordine intellettuale ed estetico, nella cappella privata in cui anche la religione diventa fatto di prestigio, si respirano duemila anni di potere spirituale e temporale”[4].
Che in questo contesto le elezioni siano una grottesca messa in scena e servano solo a ratificare compravendite di voti e decisioni già prese, è ben espresso dal rogo lugubre dei volantini elettorali in una grande piazza di Napoli: dell’ardore apparente dei comizi resta solo una manciata di cenere. Il desiderio di cambiamento ha trovato uno sbocco trasformista e apparente, che subito si concretizza nell’elezione ad assessore di Nottola. Del resto, nello stesso anno di Mani sulla città, esce anche Il Gattopardo di Visconti, magmatica illustrazione di un’unica frase del romanzo di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, sale concettuale di tutte le rivoluzioni passive che hanno intorpidito la storia del nostro paese. L’alleanza trasformista tra i poteri del passato e la modernità ormai ineludibile era interpretata come carattere della vita nazionale e in particolare del Sud. Questo tratto recisamente storico viene poi trasfigurato miticamente -soprattutto nel film di Visconti- come un prodotto del clima e della natura dell’isola. In Mani sulla città, il discorso del Principe di Salina sulla fatalità destinale del paesaggio meridionale come causa ultima dell’impossibilità del cambiamento viene quasi posto in caricatura (dallo sceneggiatore La Capria?)[5]: il rappresentante della Destra nella commissione d’inchiesta sullo scandalo edilizio accusa, indicando una carta del sottosuolo appesa al muro, il terreno tufaceo che mina la stabilità della città di superficie. La sua gonfia retorica vorrebbe essere solenne  come quella di un Principe, ma diviene sempre più grottesca man mano che procede nelle sue argomentazioni (nel caso specifico, il crollo è infatti evidentemente dovuto alla violazione delle più elementari norme di sicurezza).
Rosi e La Capria si oppongono decisamente al fatalismo meridionalista, che in quel 1963 sembrò incarnarsi nel film di Visconti. Non la natura condanna il Sud, ma un meccanismo di dominio descritto con chirurgica precisione. Quest’ultimo, d’altra parte, ha in sé una forza di fascinazione e di seduzione, perché –come ha detto Rosi una volta- “c’è qualcosa di viscerale nel potere, di religioso, qualcosa che ha a che vedere con la fede”. Proprio il confronto con l’elemento mitico-religioso del dominio costituisce il significato più profondo di Mani sulla città. Perché i sottoproletari di Napoli amano i loro sfruttatori? Perché i potenti stessi si autodistruggono, come invasi da una furia di grandezza, che non conosce più il senso del limite? Nottola stesso ha una gestualità e una fisiognomica nevrotiche e ansiose, e sembra spinto da una necessità impersonale a elevarsi sempre di più o a precipitare nel nulla. Questa è la sua vera e personale religione, a cui sacrifica anche il figlio (costretto a farsi arrestare come responsabile del crollo). La potenza ineffabile, mistica e illimitante del danaro anima il comportamento febbrile del costruttore. In questo senso, il crollo del palazzo e la scena in cui il bambino gravemente ferito viene portato fuori dalle macerie acquistano pieno significato. Il “documento” realistico –nel cinema di Rosi- è sempre abitato dal fervore simbolico del potere e della volontà di potenza dei personaggi (e dalla dolorosa impotenza dei vinti).
Volontà polemica e passione civile si traducono stilisticamente nel montaggio e nel ritmo temporale del film. Se l’uso occasionale di un taglio rapido, all’americana, si addice alla frenetica e nevrotica ascesa di Nottola verso il potere[6], lo stile documentario dà invece alle immagini una intonazione documentaria e oggettiva, creando spazi attraversati da eventi tragici e grotteschi, senza che i personaggi possano uscire da una anonima dimensione collettiva. In questo modo vengono riprese alcune sedute del Consiglio comunale, il crollo del palazzo, lo sgombero poi ordinato dalla polizia. La camera fissa o in pianosequenza inquadra lo scorrere impersonale dei meccanismi di dominio. E’ uno sguardo che vuol fissare l’evento con sobria serietà, senza cadere mai nella retorica della “napolitudine”. La città è mostrata in modo scabro, essenziale, duro. Ogni tanto i capipartito della Destra mettono sul viso la maschera della bonomia compromissoria –oro di Napoli e Napoli milionaria: ma i guizzi pulcinelleschi celano appena la lotta spietata per il potere. Rosi svela il loro travestimento. L’intonazione documentaria è interrotta dall’improvvisa inserzione di inquadrature simboliche e grottesche, come quella di Maglione sul bordo della piscina o di Nottola in chiesa, che evocano i tratti lugubri e parassitari dei potenti di turno e l’alternanza –caratteristica della classe politica italiana- tra peccati carnascialeschi e pentimenti quaresimali.
Nota storica
Il film non è una cronaca fedele del passaggio di poteri dal populismo laurino alla DC napoletana, sul finire degli anni Cinquanta del secolo scorso: ne sintetizza però il senso in una storia emblematica e abbreviata. Se l’ambientazione a Napoli è indiscutibile fin dall’inizio, il nome della città è pronunciato raramente, i partiti sono indicati con denominazioni generali –Destra, Centro, Sinistra- e tanto meno sono chiamati col loro vero nome gli uomini politici. La Capria e Rosi hanno voluto mostrare il caso napoletano come una situazione estrema –certo- ma in larga misura estensibile a tutta l’Italia (a proposito: come non associare Nottola a un altro imprenditore immobiliare di grande successo, poi “disceso” in politica?).
Questo ha comportato qualche rinuncia: rimane così sullo sfondo il fenomeno del “laurismo”, una forma di populismo con caratteri specificamente napoletani. Alcuni suoi tratti si ripresentano periodicamente nella storia della città, anche con sindaci di segno politico opposto a quello di Lauro (il quale, del resto, cercò alla fine della seconda guerra mondiale –come ricorda P. A. Allum- di iscriversi al Partito Comunista). Il laurismo va certo inquadrato nella più generale categoria del populismo, studiato di recente da E. Laclau per quanto riguarda la sua fenomenologia in America Latina. Alcuni aspetti fondamentali sono comunque già presenti nello studio di P. A. Allum (Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Einaudi, Torino 1975, p. 387.): “I temi più insistentemente agitati dal laurismo furono l’antistatalismo, il tradimento di cui era vittima il popolo napoletano, la difesa delle tradizioni partenopee, la denuncia dei settentrionali come stranieri e profittatori e il culto di Lauro come capo carismatico”. Sembra la descrizione di un leghismo alla rovescia, in cui però è caratteristico il tema della città umiliata e in cerca di riscatto, che ha una profonda eco nel’immaginario collettivo napoletano; il populismo ne fa oggetto di una rivoluzione passiva, trasferisce il disagio sul piano mitico-rappresentativo, depotenzia qualsiasi possibilità di rivolta reale. Il populismo laurino si appropria perfino del ribellismo della plebe, confermandola però nella sua inferiorità senza voce. Così Lauro suscita una violenta ondata xenofoba contro De Gasperi, in visita a Napoli nel 1953, e allo stesso tempo mercanteggia il suo appoggio al governo su scala nazionale, giocando il doppio registro del sovversivismo parolaio e della sostanziale subordinazione. Abbiamo qui di fronte una forma embrionale di società spettacolare integrata, come avrebbe detto Debord, che meriterebbe un maggiore approfondimento.
Nel film, questo particolare regime politico è visto nel momento del declino e della diluizione nel più generale sistema di potere democristiano degli anni Sessanta, che ne cancella gli aspetti premoderni divenuti ormai intollerabili, normalizza l’anomalia, e allo stesso tempo eredita il suo potere economico e lo sfruttamento selvaggio del territorio: nel periodo laurino (1951-1960) sono autorizzate lottizzazioni per 1. 989. 144 metri cubi, nel periodo democristiano (1961-1972) per 10.905.510 metri cubi, come ricorda Andrea Geremicca nel suo saggio, A proposito di analogie, contenuto in “Cinemacittà”, 2003.
L’aspetto psicologico-politico più interessante è forse il risentimento profondo per un trauma storico subito; esso viene posto a base di un senso d’inferiorità disposto a capovolgersi –grazie a un miracolo- in speranza di riscatto. Questa però non è affidata alla propria capacità di divenire soggetto collettivo, ma consegnata in delega a un Salvatore carismatico, il capo e il “Viceré” (che può poi anche divenire capro espiatorio, se le circostanze lo richiedono). Va detto che anche questo risentimento collettivo non è poi un fenomeno specificamente napoletano ed è stato spesso sfruttato per agire rivoluzioni passive: si può però dire che nella storia moderna di Napoli sia stato quasi una costante.
Concludo questa breve nota con l’epigrafe che Allum pone in testa al suo capitolo su Lauro e i Gava: “Napoli è una città sotto questo aspetto singolare. Sia per le condizioni di miseria del suo popolo, sia per l’isolamento culturale dal resto dell’Italia, sia infine per il clima di provincialismo che la caratterizza, il mito vi attecchisce con rara rapidità. Basta aver successo, nemmeno molto, riuscire a sollevarsi un poco dalla mediocrità per avere i propri fans, che qui non sono dei comuni fans come se ne possono trovare dappertutto; sono dei “fedeli”, degli zelanti “devoti” auspici di veri e propri culti, completi di riti e liturgie. Sono appunto questi “fedeli” a creare i miti, a sostenerne e diffonderne il culto. Per tali motivi, da alcuni decenni, Napoli vanta l’onore di possedere patroni viventi, contendenti a San Gennaro il compito di tutelarla e di regolarne il destino. Di tali patroni si è formata una successione ininterrotta” (“Hermes”, 15 novembre 1962). Anche per questo riguardo, mi sembra tuttavia di poter dire quel che forse non era evidente nel 1962: e cioè che il caso di Napoli si è largamente diluito negli ultimi decenni nella storia nazionale. Come non constatare che il provincialismo e il risentimento di cui allora Napoli era l’espressione estrema si sono riprodotti con virulenza nel Nord “evoluto” del paese? Ma questa è davvero un’altra storia.
Attualizzando forse illecitamente il discorso, la speranza vera è che l’esperimento politico attuamente in corso a Napoli non ripercorra la via del peronismo, sia pure di sinistra, ma si confronti con il compito di costituire una vera soggettività collettiva, e un codice etico e simbolico, che non può non comprendere in sé i “senza parte” della città.
[1] Uso questo neologismo per indicare per indicare quel misto di astuzia clericale, trasformismo compromissorio, corruzione mascherata da pentimento, servilismo non immune da crudeltà, che caratterizzò l’epoca del dominio democristiano in Italia. Nella realtà il doroteismo e i morotei erano due correnti distinte della DC: oggi sarebbe difficile e lungo spiegare le ragioni della distinzione, compito che lasciamo volentieri a storici immuni alla noia.
[2] “Il suo studio è stato progettato in base ai trend più aggiornati dell’architettura moderna e rappresenta nel gusto l’antitesi della villa con piscina di Maglione, dove i mobili d’epoca degli interni testimoniano un valore economico privo di valore estetico nella loro disposizione casuale” (G. Conti, Le mani sulla città. Immaginari collettivi e memoria storica, “Arch’it”, rivista digitale di architettura, 30 novembre 2004.
[3] Il kat’ekon è l’ordine istituzionale, ecclesiale o statale, che trattiene e rinvia l’avvento del caos apocalittico e della fine del mondo.
[4] S. Zambetti, Francesco Rosi, Firenze 1976, p. 61.
[5] A mio parere, le posizioni politiche e morali di Tancredi –che pronuncia la frase famosa- e del Principe stesso non si identificano con quelle di Tomasi di Lampedusa, il quale compie uno studio fenomenologico sulla trasformazione di un trauma storico in mito giustificativo nazionale. Fenomeni  simili non sono successi solo in Italia: basti pensare a come il gollismo ha “trasformato” l’esperienza -largamente appoggiata dai Francesi- della Francia di Vichy.
[6] I film americani che illustrano questo stereotipo sono tanti, che il protagonista sia un criminale o il Presidente della repubblica o le due cose insieme. Ma il distacco critico, non privo però di una certa fascinazione, con cui Rosi costruisce il personaggio di Nottola fa pensare al modello illustre di Quarto potere.

 Fonte:  http://www.democraziakmzero.org/2012/09/24/paesaggio-con-rovine/



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