13 settembre 2012

LO SPETTRO DEL POPULISMO





Mi sembra  assai sospetto l’attacco concentrico che, negli ultimi mesi, tecnocrati e politici di professione hanno mosso contro chi la pensa in modo diverso da loro bollandoli come populisti.
Cerchiamo allora di capire meglio cosa vuol dire “populismo”  con due articoli: il primo di Marco D’Eramo è stato pubblicato dal manifesto lo scorso gennaio; il secondo di Rodolfo Ricci è apparso stamattina sul sito http://www.megachip.info

1.     Marco d’Eramo, Ben venga il populismo di sinistra

Non se ne può più del della sufficienza schifata con cui i commentatori di tutte le sponde declinano i termini “populismo” e “populista”. Cominciamo col dire che nessuno definisce se stesso populista: è un epiteto che ti affibbiano i tuoi nemici politici (un po’ come nessuno si autodefinisce terrorista, ma è chiamato così solo dagli avversari o quando è stato sconfitto: algerini, vietnamiti e fondatori dello stato d’Israele non furono ricordati come terroristi perché le loro guerre le vinsero). In secondo luogo, populista ha non solo lo stesso significato, ma anche la stessa etimo di demagogico, termine che non a caso fu coniato nell’antichità dalle fazioni aristocratiche e senatoriali in spregio alla plebe.

In effetti i nostri opinionisti ostentano nel pronunciare la vituperata parola un tale ludibrio venato di degnazione, neanche fossero tutti celencati nell’almanacco di Gotha, marchesi di Carabas timorosi d’infettarsi a contatto con il volgo (da cui la parola volgare). Però farebbero bene costoro a rileggersi quello straordinario libretto che il grande storico Jules Michelet scrisse due anni prima del maremoto rivoluzionario che avrebbe scosso l’Europa nel 1848, e che appunto s’intitolava Le peuple di cui intonava un romantico peana. Ma nel 2011 un Michelet subirebbe ostracismo immediato. Oggi essere bollati come populisti significa dannarsi all’inferno politico.
Il problema è che i cantori del capitale (come un tempo i giullari dell’aristocrazia) tendono a tacciare di populista qualunque aspirazione popolare. Vuoi la sanità per tutti? Sei proprio un populista (soprattutto negli Stati uniti). Vuoi la tua pensione indicizzata sull’inflazione? Ma che razza di populista! Vuoi poter mandare i tuoi figli all’università senza svenarti? Lo sapevo che sotto sotto eri un populista!

Quando ti appiccicano quest’etichetta addosso non riesci più a staccartela, hai voglia a dire che tu stai esprimendo solo sacrosante aspirazioni popolari. E il marchio è tanto più efficace e indelebile che ci sono davvero dei populisti demagogici e strumentali, per cui tu non vieni semplicemente distorto, vieni appiattito su qualcosa che esiste davvero. È vero che la Lega è cinica e demagogica, ma non ha torto quando dice che il nuovo trattato europeo è scritto in tedesco. Il problema è sempre lo stesso. Non è perché Hitler mangiava che io devo morire d’inedia.
Più in generale, è una lunga storia quella dei populismi del XX secolo che – non a caso – sono fioriti quando le aspirazioni popolari sono state disattese, anzi represse. Non per errore i nazismi e i fascismi nascevano da socialismi deviati, dirottati su linguaggi nazionalisti.
Ma non sempre ha prevalso il «vade retro vulgus!». Vi è stata un’epoca in cui il populismo era di sinistra, anche negli Stati uniti, prima che Ronald Reagan inaugurasse la grande stagione del populismo di destra.

Ecco cosa scriveva due mesi fa non un pericoloso estremista, ma l’ex ministro del lavoro di un presidente moderato come Bill Clinton, Robert Reich, in un articolo tradotto sul manifesto: «Nei primi decenni del XX secolo i democratici non ebbero difficoltà ad abbracciare il populismo economico. Accusavano le grandi concentrazioni industriali di soffocare l’economia e avvelenare la democrazia. Nella campagna del 1912 Woodrow Wilson promise di guidare ‘una crociata contro i poteri che ci hanno governato … hanno limitato il nostro sviluppo… hanno determinato le nostre vite … ci hanno infilato una camicia di forza a loro piacimento’ La lotta per spaccare i trusts sarebbe stata, nelle parole di Wilson, niente meno che ‘una seconda lotta di liberazione’. Wilson fu all’altezza delle sue parole: firmò il Clayton Antitrust Act (che non solo rafforzò le leggi antitrust ma esentò i sindacati dalla loro applicazione), varò la Federal Trade Commission per sradicare «pratiche e azioni scorrette nel commercio» e creò la prima tassa nazionale sui redditi. Anni dopo Franklin D. Roosevelt attaccò il potere finanziario e delle corporations dando ai lavoratori il diritto di sindacalizzarsi, la settimana di 40 ore, il sussidio di disoccupazione e la Social Security (la mutua). Non solo, ma istituì un’alta aliquota di tassazione sui ricchi. Non stupisce che Wall street e la grande impresa lo attaccassero. Nella campagna del 1936 Roosevelt mise in guardia contro i ‘monarchici dell’economia’ che avevano ridotto l’intera società al proprio servizio: ‘Le ore che uomini e donne lavoravano, i salari che ricevevano, le condizioni del loro lavoro … tutto era sfuggito al controllo del popolo ed era imposto da questa nuova dittatura industriale’. In gioco, tuonava Roosevelt, era niente meno che ‘la sopravvivenza della democrazia’. Disse al popolo americano che la finanza e la grande industria erano determinati a scalzarlo: ‘mai prima d’ora in tutta la nostra storia, queste forze sono state così unite contro un candidato come oggi. Sono unanimi e concordi nell’odiarmi e io accolgo volentieri il loro odio’».

A ragione questo linguaggio sarebbe oggi definito «populista». Ma quanto ci piacerebbe sentirlo di nuovo da un leader della (cosiddetta) sinistra!

(dal manifesto del 16 gennaio 2012)


2.   Rodolfo Ricci, POPULISMO 

Uno spettro si aggira per l’Europa: il Populismo.  Cosa sia di preciso nessuno lo ha capito, ma il termine prolifera: in bocca a sprovveduti di varia provenienza, riempie ormai i comizi d’amore e d’odio, le pagine di tanta stampa, in Europa e in Italia soprattutto, dopo il varo della campagna d’autunno del partito di Repubblica, rinvigorito da quella altrettanto possente, de l’UnitàFino a qualche decennio fa, lo spettro si aggirava per altri lidi. In particolare in America Latina dove alcuni sostengono che sia nato all’epoca di Juan Domingo Peron. Oppure per il vasto panorama del terzo mondo asiatico e africano, i cui leader nazionalisti (in particolare i nazionalizzatori delle risorse locali) erano spesso aggettivati come tali: populisti.
Poi, sterminato l’impero del male (il socialismo reale) – i cui leader per la verità non furono mai aggettivati come populisti – e chiuse per sempre le residue ambizioni delle sinistre occidentali, lo spettro cominciò a farsi strada in Europa, fino a diventare un fenomeno di un certo fragore con l’inizio della grande crisi: leader populisti salgono alla ribalta in Austria, in Olanda, In Italia, in Francia, in Ungheria .
Già questo dovrebbe farci riflettere: che se il populismo si fa strada in Europa, non sarà forse che l’Europa stia assomigliando al terzo mondo ?
E un’altra riflessione riguarderebbe la constatazione che alla fine della storia (secondo gli intendimenti del primo Fukuyama), finita cioè ogni presunta possibilità di alternativa reale alla globalizzazione neoliberista, lo sbocco necessario e inevitabile sarebbe per forza il populismo.

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Il populismo si oppone al realismo, secondo Scalfari e compagnia, cioè assume i contorni della demagogia.
La demagogia, da che mondo è mondo, è promettere ai popoli ciò che è irrealizzabile. Irrealizzabile, nel mondo degli uomini è ciò che si oppone alla natura, o meglio alle leggi naturali.  Demagogia è dunque dire che il mondo (questo mondo che abbiamo in sorte), sia strutturalmente modificabile. Recentemente è stato recuperato un altro termine: irreversibilità.
Al fondo delle teorie di Von Hayek e soci (di destra e di sinistra) vi è l’assunto che le leggi profonde della vita e dell’agire sociale umano (competitività e concorrenza strutturale) siano qualità immodificabili e che la sovrastruttura statuale, debba solo garantire il naturale dispiegamento di questa qualità innata, genetica. Tendenzialmente deve scomparire lasciando spazio alla giungla delle lotta per il profitto: liberalizzare tutto. C’è qualcosa di Anarko oggi nel sole… oppure i neoliberisti sono dei novelli Hegel minimalisti che chiudono la scatola della dialettica e pongono alla sommità della loro architettura, anziché lo Stato prussiano, il superstato globale e perenne della concorrenza, il mercato.
(Ben altre le teorie di un Nietzsche o di un Marx, la cui apertura e onestà intellettuale implica la possibilità di lotta tra volontà di potenza, o tra ermeneutiche, oppure, il che è complementare, tra classi sociali. E sostengono che questa lotta è immanente.)
Tra la fine del conflitto e la permanenza del conflitto, in quale universo preferireste vivere ?
Ora, chi non capisce che la realtà neoliberista è la realtà profonda delle cose, chi vi si oppone, rischia di essere un velleitario nel migliore dei casi, nei casi peggiori diventa un demagogo. Si tratta di categorie che espungono il riconoscimento del conflitto. Servono a questo. Ma si è demagoghi solo finché non si dimostra che si riesce ad apportare qualche cambiamento. Ma se si riesce ad apportare qualche cambiamento, proprio per ciò, ci si trasforma nella bestia terribile del populista. Al quale non deve essere riconosciuto il titolo di avversario, portatore di un’altra ermeneutica.
Il populista appartiene infatti ad un altro mondo: anzi è fuori dal mondo.

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Alla fine degli anni ’90 fino agli anni ’10 del 2000, si incontrano una lunga lista di leader populisti:  populista è Nestor Kirchner, che si impone dopo il default argentino (causato da realisti come Menem, De La Rua e Cavallo) decidendo di rifiutare il pagamento di buona parte del debito estero, ritenendolo illegittimo. Gli succede la moglie, Cristina, anch’essa populista, che nel suo impeto populista, porta avanti la rinazionalizzazione del sistema pensionistico, del Banco Central, delle imprese energetiche.
Ma ben prima di loro, il leader populista par exellence, è tale Hugo Chavez Frias, prima golpista, poi alternativamente populista o nuovo dittatore, anche se è stato riconfermato alla guida del suo Venezuela in più di 10 consultazioni elettorali successive, che ha sempre vinto e la cui legittimità è stata riconosciuta internazionalmente. Nel 2002, si ricordano gli entusiasmi per la caduta del dittatore populista, a seguito del golpe durato qualche giorno, sulle prime pagine di quotidiani come la Repubblica, il Corriere della Sera e dulcis in fondo, ma in prima linea, l’Unità.
Poi, però il golpe fallisce perché gli adepti del populista Chavez (il popolo delle periferie e delle favelas di Caracas) circondano a centinaia di migliaia il palazzo del Governo e impongono ai golpisti di recedere dal tentativo. Il populista, grazie al suo popolo, torna al governo e conferma la nazionalizzazione della quarta impresa mondiale per la produzione di petrolio, e introduce royalties elevate per ogni compagnia estera (sette sorelle ecc.), che si candidano a sfruttare le sue immense riserve.
Erano state queste decisioni a convincere i socialdemocratici locali (e mondiali, ivi inclusi i diessini italiani) e, ovviamente, anche i conservatori e reazionari di tutto l’occidente, che Chavez era un pericoloso leader populista.
Nel frattempo, nell’America Latina, si susseguono altri velleitari leader in odore di populismo, come Lula da Silva, a cui, tutti gli equilibrati e realisti leader della sinistra socialdemocratica internazionale preferiscono il navigato e sperimentato sociologo di sinistra democratica Fernando Henrique Cardoso, amico di D’Alema e di tutta l’Internazionale Socialista. (A proposito, c’è ancora, e dov’è, in questa congiuntura, l’Internazionale Socialista ?)
Poi Lula vince per due mandati consecutivi e, visto che il Brasile è una delle tigri dei Brics, immenso paese con immense risorse, le accuse di populismo si affievoliscono, anche se, nella connaturata natura di populista, Lula tira fuori dalla miseria e dall’indigenza oltre 50 milioni di brasiliani, un peccato che la successora Dilma Rousseff, continua diabolicamente a perseguire.
Pericoloso sovversivo del MAS (Movimento al Socialismo) è Evo Morales, per giunta aborigeno con sangue esclusivamente indio nelle vene, sindacalista dei raccoglitori di coca, che poi diventa populista quando, dopo aver vinto, si avvia a nazionalizzare le immense risorse di gas e di altri minerali fondamentali. Anche in questo caso, nella poverissima Bolivia, tentano ogni strada per abbatterlo. Ma il populista Evo, resiste, tuttora.
Analogamente, Rafael Correa, ecuadoregno, ma economista affermato, per cui, l’accusa di populismo risulta parzialmente sfumata. Ma l’affronto alla Gran Bretagna sul caso Assange ripropone la sua recondita natura di populista per giunta provocatore.
Pericoloso populista è il peruviano Ollanta Umala, altro indio incrociato con sangue italiano, il quale però, si converte ad una terza via che apre alle pretese delle multinazionali minerarie dell’occidente, quindi ora se ne parla come un leader equilibrato e realista, uno di quelli su cui puntare, come per il massmediatico presidente del Cile, Miguel Juan Sebastián Piñera, di destra simil-berlusconiana, grande imprenditore televisivo, succeduto alla socialista Michelle Bachelet; lei era stata indicata per anni dai socialdemocratici europei e dai Democratici di Sinistra, come l’alternativa al populismo (di sinistra) dilagante in Sud America.
Evidentemente, nel Cile dell’esperimento sul campo di Milton Friedmann e di Henry Kissinger, che portò al potere Pinochet e all’assassinio di Salvador Allende, il populismo stenta ad attecchire.
Però,  Michelle Bachelet ebbe a dire, in un momento posteriore di autocritica (diciamo un anno fa circa) che, in tutto il suo duplice mandato che aveva portato ad una crescita ammirevole del PIL, il famoso coefficiente di Gini, quello che misura la concentrazione della ricchezza, ovvero il livello di uguaglianza distributiva, non si era spostato di una virgola.  Questo era stato quindi il motivo per cui si è affermato nel 2010, l’estimatore di Pinochet, Sebastián Piñera, ovviamente un importante interlocutore politico dell’occidente nel cono sud del continente, non populista, seppur somigliante a Berlusconi, ma realista.
E’ importante ricordare, en passant, che la fine dell’esperienza democratica di Allende (11 settembre del 1973), costituì l’incipit dell’esperienza del compromesso storico in Italia, sulla base della considerazione fatta dal gruppo dirigente del PCI che, nel nostro paese, non sarebbe stato consentito, alla sinistra, di arrivare al potere per via democratica, ovvero da sola. Si potrebbe ragionare se questa considerazione non abbia costituito un lungo alibi o una delle precondizioni della mutazione della classe dirigente del PCI, portata a compimento negli anni ‘80 e ‘90. Una definitiva sfiducia nella sostenibilità della democrazia in Occidente, e un’abdicazione ai valori fondanti della sinistra. Riflettiamoci un po’: non è questo l’esito – realistico – che accomuna la cosiddetta sinistra riformista a tutt’oggi, anche rispetto alla crisi europea ?

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Ma tornando al nostro tema, all’inizio degli anni 10 del 21° secolo, il populismo sbarca, sotto nuove spoglie, nel pieno della grande crisi epocale, in Europa. E in Italia.
I prodromi si erano visti nelle esperienze secessioniste-leghiste presenti in vari paesi del continente. Per la verità, queste esperienze vengono vissute senza particolare fastidio finché si tratti di portare avanti l’idea dell’Europa dei Popoli (o delle regioni), questa variante populista che ben corrisponde alle esigenze di accentuazione di competitività locale con annesse gabbie salariali e che non dispiace affatto alla finanza, né all’imprenditoria e neanche alla sinistra riformista, la quale si adopera convintamente per il progetto federalista.
D’altra parte, l’annacquamento della funzione nazionale è un obiettivo perseguibile e coerente con l’ottica di governo globale e continentale.
Ma la cosa funziona finché l’equilibrio di poteri tra le borghesie nazionali regge, e cioè solo fino al 2007. Termina col terminare della crescita.
Con l’inizio della grande crisi e con l’agonia del Berlusconismo come patto sociale che teneva insieme grande e piccola borghesia, poteri finanziari, mafie e poteri paralleli, con la fine della crescita da indebitamento lanciata in epoca reaganiana- thatcheriana e proseguita con Clinton-Blair, l’equilibrio del populista Berlusconi crolla. Ma quel populismo lo si era inseguito per anni, sia sul versante del contrasto all’immigrazione, sia su quello del federalismo, sia sull’idea di libera intrapresa senza lacci e laccioli e di riduzione dei diritti del lavoro (flessibilità sfrenata benedetta dai giuslavoristi alla Ichino, ecc.), che costituiva il valore centrale per tutti, ivi incluso il nostrano centrosinistra. O ricordo male ?
Come dire che se populista era Berlusconi, altrettanto populisti alla rincorsa erano gli altri.
Ora il palcoscenico è radicalmente cambiato, certo. Nella coperta sempre più stretta imposta dalla crisi, cambiano gli scenari e gli attori. Le variazioni dello spread ripropongono il livello nazionale come decisivo e cancellano le varianti locali, sconosciute o poco interessanti per la speculazione dei mercati.
Le borghesie nazionali sono costrette a difendersi in quanto tali perché vengono giudicate ad un livello nazionale. E sorge la domanda se convenga o meno restare dentro o uscire fuori dall’Euro.
Nuovi populismo crescono. Come funghi e in concorrenza accentuata. Da diversi lati. Siamo circondati.
Ora sembrerebbe che abbiamo a che fare con quello di Beppe Grillo, il più pericoloso, dentro i confini, perché in grado di far saltare il progetto del razionalismo partenopeo-meneghino di natura neo-nazionalista rappresentato da Napolitano-Monti, che punta a mantenere le prerogative di quella che si potrebbe chiamare frazione globalizzata della borghesia nazionale – ovviamente finanziarizzata – dentro lo scenario europeo e mondiale (mantenere un posto al sole), come obiettivo centrale di questa fase, a discapito delle altre frazioni, secondarie, di borghesia produttiva e classi medie e ovviamente del lavoro attuale e futuro, tutte espunte drasticamente dal livello decisionale.
Per questo obiettivo, ritenuto strategico, si sacrifica, come in una vera e propria guerra, tutto il resto. A partire dalla democrazia e dal protagonismo (partecipazione) popolare, non solo dei lavoratori dipendenti, ma anche delle classi medie. I referendum sono aborriti, come mai nella storia repubblicana.
Ciò accade in misura maggiore o minore, in ogni paese, ed in ogni paese emergono i populismi, al momento demagogici, certamente.
Ma quello italiano non è peggiore o più grave degli altri. Su una cosa ha ragione Grillo: se non ci fosse lui, forse ci troveremmo di fronte ad una rinascita dell’antica fenice sotto forma di Albe dorate ed affini, come, oltre che in Grecia, abbiamo visto emergere in Francia. O ad un rafforzamento delle logiche leghiste, opportunamente annientate, per il momento, dagli scandali interni.
La riforma elettorale deve puntare a minimizzare questo rischio.
Ma se tutto ciò accade in un contesto di totale e incentivata assenza di alternative al rigore recessivo delle politiche liberiste (cosa sostenuta da tutto l’arco neo-costituzionale) cosa ci si aspetta ?
Quello che magari si può lamentare è l’assenza di un populismo esplicitamente di sinistra in Europa e in Italia, analogo a quello latino-americano (che ovviamente populismo non è). Piuttosto è la sana lettura dei fabbisogni sociali, sulla base della specifica cultura nazionale, come ci ha insegnato tale Antonio Gramsci. A dispetto del padre fondatore, molto letto all’estero, dimenticato in patria, si riconosce come perseguibile unicamente la via continentale, senza spiegare perché essa dovrebbe risultare più democratica di quella nazionale. Se non è stato possibile battere le forze dell’arretrato capitalismo nostrano, perché dovrebbe essere più facile sconfiggere quelle del moderno capitalismo continentale ?
In un passo dei Quaderni dal Carcere, Gramsci sostiene, contrariamente alla vulgata che l’Umanesimo fosse la riscossa progressista all’arretratezza medioevale, che il vero movimento progressista dell’età medioevale e moderna sia stato quello delle eresie. L’Umanesimo avrebbe decretato la loro sconfitta e l’affermazione della borghesia transnazionale nascente….

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E’ dunque la distruzione scientificamente programmata della sinistra, operata negli ultimi tre decenni, che porta al risultato attuale. Al populismo.
E in questo vuoto pneumatico, i populismi europei e nazionali non possono che ripercorrere la strada interclassista già percorsa da Berlusconi. Perché debbono tentare di rappresentare l’interclasse media depauperata e marginalizzata dalla crisi. E anche perché essa è la stessa strada percorsa dagli altri comparti della politica peninsulare, ivi inclusi UDC e PD, nel tentativo di imporre ad essa una nuova egemonia culturale che loro chiamano realismo. Ma le due ermeneutiche che si confrontano sono entrambe radicalmente populiste. Nel senso che non contemplano letture o prospettive di classe.
L’unica cosa che differenzia Grillo dall’arco costituzionale è la critica serrata, e facile, alle degenerazioni politiche degli altri.
Per il resto, nessuno di costoro si misura sul nocciolo vero della questione: a partire dal fatto, più volte ricordato in questo sito, e richiamato negli ultimi giorni addirittura da Scalfari e da Napolitano, che qualsiasi governo governi dal 2013 al 2017, esso sarà chiuso nella camicia di forza del Pareggio di Bilancio, del Fiscal Compact, dell’Esm, dei Memorandum e della Troika.
Come dire che non c’è spazio per nessuna alternativa. Dunque, quale destra e quale sinistra?
Fatale che il populismo (demagogico) crescerà al punto, che Beppe Grillo sembrerà un pischello di fronte alle menzogne e alle falsità (demagogia pura) che verranno propinate in campagna elettorale e negli anni adiacenti dal fronte PDL, UDC, PD, (SEL ?), ecc., supportate da un impressionante apparato mediatico che oggi ha l’obiettivo di convincerci che l’uno sia diverso dall’altro, che la tenzone è reale, e che sono possibili progetti diversi per il paese. In realtà la partita, anzi, l’intero campionato è truccatissimo ed è già terminato prima di iniziare. Altro che Moggi..
Ha ragione Napolitano: tutti, chiunque vinca, dovranno fare la stessa cosa, a prescindere. E lui, il superrealista (anzi il re), vigilerà, finché potrà, affinché a nessuno venga lo schiribizzo di mettere in discussione gli accordi sottoscritti e quelli da sottoscrivere. Lo stesso hanno detto a Cernobbio banchieri e grand commis. Ma il PD (i cui leader si agitano tanto, non si capisce bene il perché, forse serve ad infervorare la tifoseria) ha già prodotto una carta stampata d’intenti “per il bene comune” che conferma fin d’ora la loro fedeltà agli accordi. E anche Nichi Vendola ha aderito.
Un grande patto di punto fisso (punto fijo) tra le presunte forze della rappresentanza politica è stato stipulato.  E prevarrà, con l’alternanza, nell’attraversamento ventennale della crisi.
A meno che un populista non demagogico e magari collettivo, non emerga dal fango melmoso in cui siamo caduti, a rappresentare la massa dei riottosi e dei non votanti (circa il 40%) e a rinverdire il principio costituzionale (populista) secondo cui la sovranità, tuttavia, appartiene al popolo e che la Repubblica è, tuttavia, fondata sul lavoro.

Fonte: http://cambiailmondo.org/2012/09/10/populismo/#more-5211.

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