23 settembre 2012

MOVIMENTI SOCIALI NELL'ERA DI INTERNET





Prendo dal Corsera di oggi una interessante recensione dell’ultimo libro di Manuel Castells che analizza i movimenti sociali sorti negli ultimi anni:





 Fabio Chiusi - In crisi lo spontaneismo senza capi e basato sul web

C’è un grande assente nel nuovo libro di Manuel Castells che racconta nascita, sviluppo e caratteristiche dei movimenti sociali nell’era di Internet (Networks of Outrage and Hope, «Reti d’indignazione e speranza», appena uscito negli Stati Uniti presso l’editore Polity): ed è la Rete così come la conosciamo. Descrivendo il modo in cui piazze reali e virtuali si sono intrecciate dalla «primavera araba» agli Indignados e Occupy Wall Street, il sociologo spagnolo, tra gli studiosi di scienze sociali più citati al mondo e autore di testi fondamentali come la trilogia The Information Age (1996-98) e Communication Power (2009), considera i social network «uno spazio di autonomia largamente al di là del controllo di governi e aziende», il web «sicuro», «protetto», «libero», dove «l’orizzontalità è la norma». E, soprattutto, una «piattaforma privilegiata per la costruzione sociale di autonomia».
Nessuna menzione dell’uso dei social media per identificare, sorvegliare e reprimere i dissidenti. Nessuna distinzione tra libertà (limitata) del cyberspazio in un regime autoritario com’era la Tunisia di Ben Ali — con i controlli proseguiti anche dopo la sua caduta, con la scusa della lotta alla pedopornografia online— e in democrazie, pur problematiche, come la Spagna e gli Stati Uniti. Per venire a conoscenza, ma solo di passaggio, del problema delle richieste governative a Twitter di ottenere tutti i dati delle comunicazioni private degli attivisti del «99%» bisogna attendere pagina 175. E quando Castells giustamente cita il blackout di Internet in Egitto, dimentica lo studio in cui un ricercatore di Yale, Na-vid Hassanpour, mostra come l’effetto sia stato quello di diffondere e ingigantire — e non soffocare — le rivolte. Segno che forse la Rete non era così decisiva.
Del resto, l’autore aveva appena finito di sostenere che gli alti tassi di penetrazione di web e smartphone in Tunisia fossero la «precondizione» per lo scoppio della rivoluzione. Ignorando che, come ha ricordato Andrea Matiz su «Limes», Paesi come Libia, Yemen e Siria— teatro di vere e proprie guerre civili— hanno le percentuali più basse. E che al contrario, poco o nulla è accaduto in altri con tassi perfino più alti, come Qatar o Emirati Arabi.
Il problema non è da poco, perché si insinua nel cuore della teoria di Castells sul cambiamento sociale. Solo se Internet è il luogo elettivo della creazione di «autonomia», uno spazio di libertà assoluta, può fungere da ponte tra l’indignazione e la speranza — l’ipotesi principale del volume. Solo a questo modo la reazione emotiva da cui scaturiscono le rivolte, ne è convinto Castells, si può legare a nuovi modi di deliberazione e all’«utopia di una nuova democrazia connessa». Forse l’autore, pur rigoroso nell’integrare studi accademici ed esperienze sul campo, si è lasciato contagiare dal personale entusiasmo — dichiarato in apertura — per i movimenti che si era proposto di descrivere. O da quello che per lungo tempo li ha circondati. Perché a un anno di distanza il clima è completamente cambiato.
Dalla retorica sulla «primavera araba» si è passati a quella, uguale e contraria, sull’«autunno di Al Qaeda». Gli indignati sono sostanzialmente spariti dopo avere ottenuto l’unico risultato, lo scrive anche Castells, di affossare i socialisti di Zapatero e Rubalcaba. Quanto a Occupy Wall Street, le forze sembrano essersi disperse al punto che la notizia, nel giorno del primo compleanno, non è stata il tentativo di ridefinirsi come un movimento per trasformare la nostra comprensione della moralità del debito — riassunto perfino in un manuale diffuso gratuitamente online — ma l’imponenza degli arresti per i (pochi) manifestanti accorsi a Zuccotti Park. I problemi hanno travolto gli entusiasmi sulle nuove forme e i nuovi processi che la «democrazia reale» avrebbe dovuto assumere; un misto di assemblee generali infinite, comitati e commissioni che si moltiplicano senza sosta e lunghissime e improduttive discussioni non su che fare, ma su come decidere che fare.
Non che Castells non ne parli. Anzi, la sua analisi è puntuale, precisa. Ma, ancora una volta, sorvola sul potenziale distruttivo dell’essere senza leader, del rigettare l’istituto della rappresentanza e di preferire il consenso al principio di maggioranza.
Per l’autore i movimenti hanno comunque vinto, perché -«il vero cambiamento è avvenuto nella mente delle persone». E si affanna a mostrare, sondaggi alla mano, che se oggi l’acuirsi delle disuguaglianze è percepito come un problema (Castells riporta in vita l’espressione «lotta di classe»), è merito di indignati e affini. Eppure gli stessi sondaggi mostrano una evidente discrepanza tra un gradimento generico per quei movimenti e una condanna della paralisi e del vuoto decisionale che hanno generato. Se il connubio di libertà online e occupazione — e riappropriazione — di spazi fisici tramite le acampadas mette le radici a una nuova democrazia praticandola, come sostiene Castells, viene da chiedersi: come si pratica una democrazia impraticabile? Come si coniuga la necessità di prendere decisioni nazionali e internazionali in un contesto che richiede sempre maggiore tempestività con la possibilità per chiunque di bloccare il consenso— e dunque l’azione — con un semplice veto? Insomma, quando non hanno chiesto la testa del dittatore, questi movimenti hanno voluto «tutto e niente», dice Castells. Per non compromettersi con una politica che rifiutano o con la logica «produttivista» del detestato capitalismo. A un anno di distanza, non sembra avere funzionato.

Fonte: Corriere della Sera – La Lettura 23 settembre 2012

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