21 settembre 2012

LEONARDO SCIASCIA SCRITTORE SCOMODO




Su La Stampa odierna Marco Belpoliti accosta Leonardo Sciascia ad Albert Camus. Sciascia in Italia come Camus in Francia, per il loro anticonformismo, non sono mai stati amati dagli uomini di potere. Anche per questo  il loro ricordo non smette di urtare.

Marco Belpoliti – L’ intellettuale ingombrante.

Una mostra documentaria di Albert Camus, che doveva aprire nel Sud della Francia, a Aix-en-Provence, fa fatica a trovare un curatore. La ragione risiede nelle posizioni anticolonialiste dello scrittore dello Straniero, che mettono in causa le torture inflitte negli Anni Cinquanta agli indipendentisti algerini con l’accordo di un ministro d’allora, François Mitterrand, o che urtano la suscettibilità degli eredi dei pieds-noirs, i coloni francesi costretti a lasciare l’Algeria. La guerra d’Algeria appare un vulnus ancora aperto, nonostante la grandezza della figura di un intellettuale e scrittore come Camus.
Chi sono, tra gli italiani, gli scrittori così scomodi da rendere impossibile l’allestimento di una mostra su di loro?
Pier Paolo Pasolini, di sicuro. Provate a immaginare un’esposizione biografica del poeta con gli atti del processo per atti osceni in luogo pubblico del 1949: pedofilia. Ma Pasolini è troppo risaputo. Silone potrebbe essere un altro, visto che viene accreditato come un doppiogiochista nell’epoca dei totalitarismi novecenteschi. E Sartre, con la sua difesa dei terroristi della Raf e il Ribellarsi è giusto? Quando la polizia arrestò il filosofo, nel ’68, De Gaulle intervenne presso il ministro dicendo: «Non si arresta Voltaire!». Un rispetto verso la figura dell’intellettuale che sembra scomparso. Oggi la parola risulta quasi un insulto, e nessuno, o quasi, si presenta come tale. Zygmunt Bauman, in un suo libro di qualche anno fa, ha decretato la decadenza di questa figura nata con l’illuminismo e codificata dalla protesta contro il caso Dreyfus (il termine viene proprio da lì).
Ma forse l’intellettuale più scomodo non è un poeta dedito agli amori con adolescenti e neppure un filosofo sostenitore della rivolta totale, bensì un ex maestro elementare passato alla narrazione e al saggio alla fine degli Anni Cinquanta. Mi riferisco a Leonardo Sciascia il cui astro letterario, e intellettuale, sembra essersi spento, o quanto meno appannato, dopo essere stato uno dei più letti e seguiti scrittori del secondo dopoguerra. Adesso l’editore Adelphi, che lo pubblica da poco prima della scomparsa, avvenuta nel 1989, manda in libreria il primo volume delle sue opere. Non saranno disposte in ordine cronologico, ma radunate per temi e argomenti; dapprima le opere narrative poi quelle saggistiche – se la differenza ha un senso in un narratore così profondamente saggista. Tra i saggi ci sarà l’ultimo libro di Sciascia pubblicato l’anno della sua morte, A futura memoria, ma non la raccolta, composta in gran parte di interviste, La palma va a Nord, pubblicata nel 1980 a cura di Valter Vecellio.
In questi due volumi ci sono tutte le ragioni dello scandalo di Leonardo Sciascia, le ragioni per cui una mostra biografica, come una biografia letteraria e intellettuale, non potrebbe ignorare alcune questioni scomode. In un articolo su La Stampa del novembre 1977, Sciascia così definiva l’intellettuale: «Uno che esercita nella società civile la funzione di capire i fatti, di interpretarli, di coglierne le implicazioni anche remote e di scorgerne le conseguenze possibili. La funzione, insomma, che l’intelligenza, unita a una somma di conoscenze e mossa – principalmente e insopportabilmente - dall’amore alla verità, gli consentono di svolgere». L’avverbio «insopportabilmente» è perfetto.
Prima viene il caso Moro, su cui Sciascia scrive un libro, L’affaire Moro, nel 1978, testo letterario che viene attaccato, prima ancora che sia in libreria, da Eugenio Scalfari, come ricorda Miguel Gotor in Dentro il baule di Aldo Moro, nel terzo volume dell’Atlante della letteratura italiana (appena uscito da Einaudi), e anche da Indro Montanelli. Il conflitto tra lo scrittore e una parte dell’establishment giornalistico e politico italiano era già cominciato all’epoca de Il contesto, romanzo stroncato dai giornali comunisti. Sono decine le interviste, le lettere ai giornali, gli interventi in cui Sciascia replica ai suoi critici, ma a quel punto tra l’autore de Il giorno della civetta e la sinistra italiana si crea una rottura che lo porterà a candidarsi con i Radicali, dopo essere stato vicino al Pci.
Negli anni degli articoli raccolti in A futura memoria – il cui titolo è «(se la memoria ha un futuro)» – c’è una denuncia: Sciascia riferisce una frase detta da Enrico Berlinguer a Guttuso riguardo le interferenze dei servizi segreti cecoslovacchi nel sequestro Moro; il segretario comunista lo denuncia per calunnia. Poi l’intervento, nel 1982, contro la mitizzazione del generale Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia a Palermo; e ancora l’appoggio alla campagna per l’innocenza di Enzo Tortora accusato da «pentiti» della camorra.
Il culmine della polemica si raggiunge con la recensione nel gennaio del 1987 del saggio dello storico inglese Christopher Duggan su La mafia durante il fascismo, dove Sciascia sostiene che l’antimafia può diventare uno strumento di potere e parla anche della nomina di Paolo Borsellino a procuratore a Marsala. Si tratta della polemica sui «professionisti dell’antimafia» (ma l’espressione non c’è in quel pezzo) che diventa un punto controverso della sua vicenda di scrittore e polemista, cui segue, tra le altre cose, anche una dichiarazione d’innocenza per Adriano Sofri riguardo al delitto Calabresi: «Se è davvero colpevole davanti ai giudici confesserà», scrive.
Bauman concludeva il suo libro la Decadenza degli intellettuali evocando la figura dell’«intellettuale legislatore», almeno «sino ai prossimi tagli della spesa pubblica». Adesso ci siamo. Gli scomodi alla Sciascia che fine faranno? Niente mostre anche per loro?

La Stampa 21 settembre 2012


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