27 settembre 2012

Leopardi e l’arte della traduzione




Antonio Prete è uno dei maggiori studiosi italiani di Giacomo Leopardi. Il giornale l’unità oggi pubblica un suo interessante articolo che riproponiamo:

Leopardi e l’arte della traduzione

Leopardi e la traduzione. È questo l’argomento del convegno internazionale di studi leopardiani che si sta tenendo a Recanati fino al 28 settembre, rispettando una cadenza quadriennale. «Del modo di ben tradurre ne parla più a lungo chi traduce men bene», sosteneva Leopardi. Di fatto il grande poeta, raffinato traduttore dei Greci, non ha mai dedicato alla traduzione un saggio definito, anche se ha disseminato nel suo Zibaldone osservazioni preziosissime sull’arte del tradurre. E ha accompagnato spesso le sue traduzioni – da Mosco, Virgilio, Isocrate, Epitteto e altri – con notazioni folgoranti sull’arte del tradurre. È certo sorprendente che nelle diffuse indagini contemporanee intorno alla traduzione il punto di vista leopardiano sia pressoché ignorato. Scarsa attenzione è data anche alle sue stesse traduzioni. Eppure i Canti e le Operette non si possono intendere in profondità senza tener conto del lungo esercizio leopardiano di traduzione dei classici. Attività vissuta dal poeta come momento essenziale e vitale della sua scrittura e del suo pensiero.
Tradurre, per Leopardi, è stare all’ombra dell’altra lingua. Ma abitando la propria lingua, nell’esteso orizzonte della sua tradizione, ma anche in tutte le possibili modulazioni espressive e inventive. Tradurre è situarsi tra due lingue, anzi tra le lingue, in un costante e vigilissimo esercizio di comparazione. Lo Zibaldone è anche l’esperienza di un grande amore, l’amore per la lingua : la filo-logia come sentimento supremo della lingua, della sua energia. Il fascino dell’adolescente per le due lingue trasmesse dalla tradizione umanistica, il greco e il latino, genera presto una consuetudine: compulsare dizionari, regesti, lessici, annotare etimi e lemmi, comparare forme. E si sporgerà, il giovane recanatese, persino sul sanscrito e sull’ ebraico biblico. Senza dire delle lingue geograficamente definite dalla modernità, il francese in particolare, ma anche il tedesco, lo spagnolo, l’inglese. Ed è proprio lo sguardo sulla «necessaria e infinita varietà delle lingue» che porta Leopardi a considerare il progetto di una lingua universale come una chimera, anche se a più riprese nell’Europa dei colti si dibatteva intorno a questa ipotesi. Una lingua universale, secondo Leopardi, sarebbe «la più schiava, povera, timida, monotona, uniforme arida e brutta lingua…». A questa astrazione il poeta ha sempre opposto la guizzante vitalità di una singola lingua che tiene saldo l’ancoraggio al vivente, alla sua efflorescenza di forme, alla sua corporea e sensitiva immaginazione. Il poeta privilegia le lingue che conservano un respiro di libertà, le lingue che sanno stare «dietro la mutevolezza delle cose», che si distanziano dall’aridità, dal «carattere geometrico», e per questo preservano quel rapporto col naturale e con la semplicità proprio dell’antico, delle lingue antiche. È in questo orizzonte che la traduzione appare a Leopardi come un atto necessario. Necessario a fare apparire la ricchezza delle singole lingue, a dare una visibile configurazione al tesoro delle due lingue messe di volta in volta in dialogo e a confronto.
E tuttavia si tratta ogni volta di un esercizio di approssimazione, perché nel suo più riuscito configurarsi la traduzione è soltanto la costruzione di una somiglianza. La traduzione è, per Leopardi, nell’ordine dell’imitazione. Una lingua «perfettamente pieghevole, varia, ricca e libera» può davvero imitare, non copiare. Non si tratta -è questo l’esempio leopardiano- di rifare una figura di cera copiando un’altra figura di cera, ma si tratta di ritrarre «dal naturale nel marmo», accogliere cioè in una forma e in una materia un’altra forma, un’altra materia. Il traduttore, dunque, come «artefice»: il suo operare non è servile, non è asservito, ma sperimenta la libertà della propria lingua, di tutte le sue forme. Leopardi traduttore, quando sta all’ombra dell’altra lingua, sa che proprio in questo indugiare quieto e attento -di ascolto, di interrogazione – quel che prende vita è la lingua propria di colui che traduce: con i suoi timbri, le sue attitudini, la sua storia. È questa lingua propria che muove verso l’ospitalità dell’altro testo, procedendo a una trasmutazione che è rinascita, a una riscrittura che è insieme preservazione dell’originale e costruzione di nuove forme.
Secondo Leopardi percepiamo e gustiamo le forme, i modi, le eleganze di un’altra lingua sempre in relazione alla nostra lingua, alla «lingua familiare». A questo proposito, in una pagina dello Zibaldone del 20-22 aprile 1821, il poeta evoca un’immagine inattesa: la camera oscura. L’effetto di una lingua straniera «sull’animo nostro è come l’effetto delle prospettive ripetute e vedute nella camera oscura, le quali tanto possono essere distinte e corrispondere veramente agli oggetti e prospettive reali, quanto la camera oscura è adattata a renderle con esattezza». La relazione e il confronto che si istituisce tra due lingue -una straniera, l’altra propria- è una relazione che accade non in un terzo campo ma nel campo della lingua in cui si traduce, nella familiarità e intimità che il traduttore ha con la propria lingua.
Connotazione magica
C’è come un’appropriazione interiore silenziosa e persino magica da parte dalla lingua seconda (la connotazione magica accompagnerà sempre la storia della camera oscura, dai suoi primi esperimenti fino all’ evoluzione verso l’arte della fotografia e del cinema). L’ «animo nostro» è la vera camera oscura in cui arrivano le immagini della prima lingua. In questa sottolingua e prelingua corporea e indefinita che è «l’animo nostro», in questo inconscio della lingua, agisce la lingua dell’ originale. L’ adattamento della camera oscura è condizione necessaria per il lavoro di traduzione. Altre figure del tradurre propone la diffusa riflessione leopardiana. L’ascolto, ad esempio, l’ascolto assiduo dell’altra lingua, dei suoi toni, dei suoi ritmi come soglia del tradurre. Oppure la necessità di esser poeti se si vogliono tradurre dei poeti.
Ma per Leopardi l’esperienza del tradurre diviene anche materia di affabulazione e di costruzione fantastica. Una sorta di filologia fantastica dispiega i suoi strumenti, le sue leggere e divertite forme. Ed ecco scritture presentate come traduzioni da testi originali inesistenti. Contaminazioni di fonti bibliche e di fonti classiche. Finzioni di manoscritti ritrovati e di manoscritti apocrifi. E traduzioni proprie offerte al lettore come fossero opera di anonimo autore medievale : come accade per il Martirio dei santi Padri, opuscolo pubblicato a Milano preso l’editore Stella nel 1826. Per la traduzione pretesa «anonima» di quell’aurea leggenda di martiri Leopardi fece ricorso a una lingua trecentesca talmente credibile, per fattura e bellezza e modi e forme, che il primo esperto di testi del Trecento, l’abate Cesari, vi abboccò senza alcun sospetto. Tradurre, per Leopardi, è abitare la lingua, la propria lingua, e in questo spazio accogliere e far rinascere il testo dell’altra lingua. Una rinascita nel tempo e nello spazio della nuova parola, la parola del traduttore. Anche nella riflessione sul tradurre Leopardi si situa nel vivo della nostra contemporaneità.

Antonio Prete,  L’Unità 28 settembre 2012



1 commento:

  1. Interessante l'articolo riportato. Segnalo:

    http://leopardi.letteraturaoperaomnia.org/

    relativamente alle diverse versioni della traduzione della Paralipomeni della Batracomiomachia per chi volesse approfondire

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