05 settembre 2012

LA CRISI SPIEGATA DA Z. BAUMAN.







E' in libreria l'ultimo libro di Zygmunt Bauman. Di seguito un suo brano  apparso oggi  su La Repubblica.







Zygmunt Bauman, Se manca la solidarietà essere liberi è solo un´illusione

Chi ha detto che dobbiamo stare alle regole? La domanda appare con grande rilievo in testa al sito Internet locationindependent.com. Immediatamente più in basso, viene suggerita una risposta: «Sei stufo di dover seguire le regole? Regole che ti impongono di ammazzarti di lavoro e guadagnare un mucchio di soldi in modo da permetterti una casa e un mutuo imponente? E lavorare ancora più duramente per ripagarlo, sino al momento in cui avrai maturato una bella pensioncina [...] e finalmente potrai iniziare a goderti la vita? A noi quest´idea non andava – e se non va neanche a te, sei finito nel posto giusto».

Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?! 

Leggendo queste parole non ho potuto fare a meno di ricordare una vecchia barzelletta che circolava all´epoca del colonialismo europeo: mentre passeggia tranquillo per la savana, un inglese che indossa gli irrinunciabili simboli di un compìto colonialista, con tanto di elmetto di ordinanza, s´imbatte in un indigeno che russa beato all´ombra di un albero. Sopraffatto dall´indignazione, per quanto mitigata dal senso di missione di civiltà che lo ha portato in quelle terre, l´inglese sveglia l´uomo con un calcio, gridando: «Perché sprechi il tuo tempo, fannullone, buono a nulla, scansafatiche?». «E cos´altro potrei fare, signore?», ribatte l´indigeno, palesemente interdetto. «È pieno giorno, dovresti lavorare!». «Perché mai?», replica l´altro, sempre più stupito. «Per guadagnare denaro!». E l´indigeno, al colmo dell´incredulità: «Perché?». «Per poterti riposare, rilassare, goderti l´ozio!». «Ma è esattamente quello che sto facendo!», aggiunge l´uomo, risentito e seccato.

Beh, il cerchio si è chiuso: siamo forse arrivati alla fine di una lunga deviazione e tornati al punto di partenza? Lea e Jonathan Woodward, due professionisti europei estremamente colti e capaci che dirigono il sito locationindependent citato prima, stanno forse riconoscendo, esplicitamente e direttamente, senza tanti giri di parole, un concetto premoderno, innato e intuitivo che i pionieri, gli apostoli e gli esecutori della modernità avevano screditato, ridicolizzato e tentato di estirpare quando esigevano invece che le persone lavorassero duramente per tutta la vita e che solo in seguito, alla fine di interminabili fatiche, iniziassero a «spassarsela»?! Per i Woodward, così come per l´«indigeno» del nostro aneddoto, l´insensatezza di una tale proposta è talmente lampante da non meritare alcuna spiegazione, né una riprova discorsiva. Per loro, così come per l´«indigeno», è chiaro come il giorno che anteporre il lavoro al riposo – e quindi, indirettamente, rimandare una soddisfazione potenzialmente istantanea (quella sacrosanta regola a cui il colonialista dell´aneddoto e i suoi contemporanei si attenevano alla lettera) – non è una scelta più saggia né più utile di quella di chi mette il carro davanti ai buoi.

Che oggi i Woodward possano affermare con tale sicurezza e convinzione delle opinioni che solo una o due generazioni fa sarebbero state considerate un´abominevole eresia è indice di un´imponente «rivoluzione culturale». Una rivoluzione che non ha trasformato soltanto la visione che i rappresentanti delle classi colte hanno del mondo, ma il mondo stesso in cui sono nati e cresciuti, che impararono a conoscere e sperimentarono. Affinché potesse apparire lampante, la loro filosofia di vita doveva basarsi sulla realtà contemporanea e su solide fondamenta materiali che nessuna autorità costituita sembra intenzionata a mettere in discussione.

Le fondamenta della vecchia/nuova filosofia di vita appaiono ormai incrollabili. Quanto profondamente e irreversibilmente il mondo sia cambiato nella sua transizione alla fase «liquida» della modernità è dimostrato dalla timidezza delle reazioni dei governi di fronte alla più grave catastrofe economica verificatasi dalla fine della fase «solida», quando ministri e legislatori hanno deciso, quasi per istinto, di salvare il mondo della finanza – ma anche i privilegi, i bonus, i «colpacci» in Borsa e le strette di mano che suggellavano accordi miliardari e ne consentivano la sopravvivenza: quella potente forza causale e operativa che è stata alla base della deregulation, e principale paladina ed esponente della filosofia dell´«inizieremo a preoccuparcene quando accadrà»; di pacchetti azionari suddivisi in parcelle rimasti immuni dalla responsabilità delle conseguenze; di una vita che si basa sul denaro e sul tempo presi a prestito, e di una modalità di esistenza ispirata al «godi subito e paga dopo». In altre parole, quelle stesse abitudini, che il potere ha facilitato, a cui in definitiva il terremoto economico in questione potrebbe (e dovrebbe) essere ricondotto. (...)

Tuttavia, nell´appello dei Woodward c´è qualcosa di più in gioco, molto di più, della differenza tra un posto di lavoro ancorato a un luogo, tutto racchiuso all´interno di un unico edificio commerciale, e uno itinerante, diretto verso mete predilette quali la Tailandia, il Sudafrica e i Caraibi. (...) A essere realmente in gioco è, come loro stessi ammettono, la «libertà di scegliere ciò che è giusto per te» – per te, e non «per gli altri» – o di come condividere il pianeta e lo spazio con questi altri.

Assumendo tale principio a parametro con cui misurare la correttezza e il valore delle scelte di vita, i Woodward si trovano sulla stessa linea di pensiero delle persone contro le quali si ribellano, come i dirigenti e i manager della Lehman Brothers e tutti i loro innumerevoli emuli, nonché coloro che – come scrive Alex Berenson, del New York Times – ricevono «stipendi a otto cifre» (accusa che con ogni probabilità i Woodward rifiuterebbero indignati).

Tutti, unanimemente, approvano il fatto che «l´ordine dell´egoismo» abbia preso il sopravvento su quell´«ordine della solidarietà», che un tempo aveva il suo vivaio più fertile e la cittadella principale nella protratta condivisione (ritenuta senza fine) dei locali in uffici e fabbriche. Sono stati i consigli di amministrazione e i dirigenti delle multinazionali, con il tacito o manifesto sostegno e incoraggiamento del potere politico in carica, a occuparsi di smantellare le fondamenta della solidarietà tra impiegati mediante l´abolizione del potere di contrattazione collettivo, smobilitando le associazioni di tutela dei lavoratori e obbligandole ad abbandonare il campo di battaglia; tramite l´alterazione dei contratti di lavoro, l´esternalizzazione e il subappalto delle funzioni manageriali e delle responsabilità dei dipendenti, deregolamentando (rendendo «flessibili») gli orari di lavoro, limitando i contratti di lavoro e al tempo stesso intensificando l´avvicendarsi del personale e legando il rinnovo dei contratti alle prestazioni individuali, controllandole da vicino e in continuazione. Ovvero, per farla breve, facendo tutto il possibile per colpire la logica dell´autotutela collettiva e favorire la sfrenata competitività individuale per assicurarsi vantaggi dirigenziali.

Il passo definitivo per porre fine una volta per tutte a qualsiasi occasione di solidarietà tra dipendenti – che per la grande maggioranza delle persone rappresenta l´unico mezzo per raggiungere la «libertà di scegliere ciò che fa per te» – richiederebbe, comunque, l´abolizione della «sede di lavoro fissa» e dello spazio condiviso dai lavoratori, in ufficio o in fabbrica. Ed è questo il passo che Lea e Jonathan Woodward hanno compiuto. Con le loro competenze e credenziali se lo sono potuti permettere. Tuttavia non sono molte le persone che si trovano nella condizione di cercare un rimedio alla propria mancanza di libertà in Tailandia, in Sudafrica o ai Caraibi, non necessariamente in questo stesso ordine. Per tutti gli altri che non sono in una simile posizione, il nuovo concetto/stile di vita/impostazione mentale dei Woodward confermerebbe una volta per tutte quanto le loro perdite siano definitive, dal momento che meno persone rimarrebbero impegnate nella difesa collettiva delle loro libertà individuali. L´assenza più cospicua sarebbe quella delle «classi colte», a cui un tempo spettava il compito di sollevare dalla miseria gli oppressi e gli emarginati.

(Da. La repubblica del 5 settembre 2012)

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Mi sembra particolarmente interessante l'intervista rilasciata oggi dal sociologo al Messaggero. In essa Buaman offre la sua originale interpretazione della crisi in cui ci troviamo:



«La ragione di questa crisi, che da almeno cinque anni coinvolge tutte le democrazie e le istituzioni e che non si capisce quando e come finirà, è il divorzio tra la politica e il potere».
Zygmunt Bauman riesce subito ad andare al dunque senza perdersi in giri di frase. Non a caso possiede il dono di quella che Charles Wright Mills chiamava l’immaginazione sociologica, la capacità di fissare in una frase, in un’idea, la realtà di un’intera epoca, e il grande studioso polacco lo ha fatto con la sua metafora della "Vita liquida" e della "Modernità liquida" (cosa è più imprendibile e sfuggente dell’acqua e dei suoi flussi?) per descrivere con geniale chiarezza la precarietà e l’instabilità della società contemporanea.
Lui, liquido, non lo è affatto anzi è un uomo di ferro, un ottantasettenne che gira il mondo senza sosta (viaggia almeno cento giorni all’anno tra conferenze e dibattiti!) e a Mantova è intervenuto a Festivaletteratura per un dibattito sull’educazione. Non c’è traccia di stanchezza nel suo fisico asciutto o nel volto scarno e autorevole ravvivato da occhiate scintillanti, mentre parla in una sala della Loggia del Grano pochi giorni dopo aver pubblicato un nuovo libro, Cose che abbiamo in comune (220 pagine, 15 euro) sempre per Laterza, editore dei celebri saggi come Vita liquida, La società sotto assedio, Modernità liquida, Dentro la globalizzazione e altri ancora.
Professor Bauman, è per questo che i politici sembrano girare a vuoto di fronte alla crisi?
«Sì. Il potere è la capacità di esercitare un comando. E la politica quella di prendere decisioni, di orientarle in un senso o nell’altro. Gli stati-nazione avevano il potere di decidere e una sovranità territoriale. Ma questo meccanismo è stato completamente travolto dalla globalizzazione. Perché la globalizzazione ha globalizzato il vero potere scavalcando la politica. I governi non hanno più un potere o un controllo dei loro paesi perché il potere è ben al di là dei territori. Sono attraversati dal potere globale della finanza, delle banche, dei media, della criminalità, della mafia, del terrorismo… Ogni singolo potere si fa beffe facilmente delle regole e del diritto locali. E anche dei governi. La speculazione e i mercati sono senza un controllo, mentre assistiamo alla crisi della Grecia o della Spagna o dell’Italia…».
È l’età della proprietà assenteista, come la chiamava Veblen, della finanza: era meglio prima?
«Il capitalismo di oggi è un grande parassita. Cerca ancora di appropriarsi della ricchezza di territori vergini, intervenendo con il suo potere finanziario dove è possibile accumulare i maggiori profitti. E’ la chiusura di un cerchio, di un potere autoreferenziale, quello delle banche e del grande capitale. Naturalmente questi interessi hanno sempre spinto, anche con le carte di credito, ad alimentare il consumismo e il debito: spendi subito, goditela e paga domani o dopo. La finanza ha creato un’economia immaginaria, virtuale, spostando capitali da un posto all’altro e guadagnando interessi. Il capitalismo produttivo era migliore perché funzionava sulla creazione di beni, mentre ora non si fanno affari producendo cose ma facendo lavorare il denaro. L’industria ha lasciato il posto alla speculazione, ai banchieri, all’immagine»
Non ci sono regole, dovremmo crearle. Avremmo bisogno forse di una nuova Bretton Woods…
«Il guaio è che oggi la politica internazionale non è globale mentre lo è quella della finanza. E quindi tutto è più difficile rispetto ad alcuni anni fa. Per questo i governi e le istituzioni non riescono a imporre politiche efficaci. Ma è chiaro che non riusciremo a risolvere i problemi globali se non con mezzi globali, restituendo alle istituzioni la possibilità di interpretare la volontà e gli interessi delle popolazioni. Però, questi mezzi non sono stati ancora creati».
A proposito della crisi europea, non crede che i paesi dell’Unione siano ancora divisi da interessi nazionalistici e da vecchi trucchi che impediscono una reale integrazione politica e culturale?
«È vero, ma è anche il risultato di un circolo vizioso che l’attuale condizione di incertezza favorisce. La mancanza di decisioni e l’impotenza dei governi attivano atteggiamenti nazionalistici di popolazioni che si sentivano meglio tutelate dal vecchio sistema. Viviamo in una condizione di vuoto, paragonabile all’idea di interregnum di cui parlava Gramsci: c’è un vecchio sistema che non funziona più ma non ne abbiamo ancora uno alternativo, che ne prenda il posto».
La globalizzazione ha prodotto anche aspetti positivi. Vent’anni fa, in Europa non c’era un africano, un asiatico un russo. Eravamo tutti bianchi, francesi, tedeschi, italiani, inglesi… Ora potremmo finalmente confrontarci: riusciremo a farlo su un terreno comune?
«È un compito difficile, molto difficile. L’obiettivo dev’essere quello di vivere insieme rispettando le differenze. Da una parte ci sono governi che cercano di frenare o bloccare l’immigrazione, dall’altra ce ne sono più tolleranti che cercano, però, di assimilare gli immigrati. In tutti e due i casi si tratta di atteggiamenti negativi.
Le diaspore di questi anni debbono essere accettate senza cancellare le tradizioni e le identità degli immigrati. Dobbiamo crescere insieme, in pace e con un comune beneficio, senza cancellare la diversità che rappresenta invece una grande ricchezza».

(Il Messaggero, 10 settembre 2012)

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