09 novembre 2021

LA SPERANZA NEL PASSATO DI PETER SZONDI E WALTER BENJAMIN

 



Tra l’ottobre e il novembre di cinquant’anni fa moriva a Berlino uno dei maggiori critici e teorici letterari del Novecento, Peter Szondi, il cui corpo fu ritrovato nello Halensee il 9 novembre del 1971. Lo ricordiamo con un saggio inedito di Francesco Deotto ripreso dal sito https://www.leparoleelecose.it/?p=42793

UNA CERTA SPERANZA NEL PASSATO. PETER SZONDI E IL FUTURO DELL' ERMENEUTICA LETTERARIA

di Francesco Deotto

«Avrò una piccola œuvre». Sembra che Peter Szondi, non senza ironia, abbia parlato anche in questi termini del proprio lavoro[1]. In realtà, non appena si inizia a leggere quanto ha scritto, è difficile non considerarlo, malgrado sia morto a soli 42 anni, come uno dei maggiori e più fecondi teorici della letteratura, filologi e critici letterari del Novecento.

Nato il 27 maggio del 1929 a Budapest, da una famiglia ebraica che fu pesantemente colpita dalla persecuzione nazista e che nel 1944 venne internata per cinque mesi nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, già nel 1956 pubblica un volume che esercita subito una profonda influenza tra gli studiosi di letteratura moderna e contemporanea: Teoria del dramma moderno (1880-1950), tradotto in italiano nel 1962, accompagnato da una prefazione di Cesare Cases. Di pochi anni posteriore, del 1961, è un altro libro altrettanto celebre, Saggio sul tragico, seguito nel 1964 da Satz und Gegensatz e nel 1967 dagli Hölderlin-Studien. Questi due ultimi volumi raccolgono una prima parte dei numerosi saggi e conferenze che nel corso della sua vita Szondi ha scritto su un insieme di autori e di questioni molto vario. Dopo la morte, avvenuta nel 1971, è stata poi pubblicata una considerevole serie di altri volumi, riunendo, oltre agli altri suoi saggi e conferenze (raccolti nei due volumi degli Schriften), anche alcuni suoi corsi universitari (nei cinque volumi della Studienausgabe der Vorlesungen), una serie di interventi sulla necessità di una riforma del sistema universitario (Über eine “Freie (d. h. freie) Universität”) e parte della sua corrispondenza (in Briefe e nel Briefwechsel con Celan). Questo vasto corpus testuale, che solo in parte è stato tradotto in italiano, comprende scritti sulla poetica dell’idealismo tedesco, sull’estetica dell’età di Goethe, sulla poetica di Hegel e Schelling, sulla conoscenza filologica, sull’ermeneutica letteraria, sulle teorie dei generi letterari, su Schleiermacher, Diderot, Kleist, Hofmannsthal, Valery, Brecht, Mallarmé, Rilke, Benjamin, Celan, ecc.

 

Tra tutte le opere di Szondi, vorremmo però ora soffermarci soprattutto su uno specifico saggio, Speranza nel passato; Su Walter Benjamin, che corrisponde al testo della lezione inaugurale che Szondi ha pronunciato il 22 febbraio del 1961 in qualità di nuovo professore della Freie Universität di Berlino. Questo saggio, specie se se ne esamina la stretta continuità che lo lega ad altri suoi testi più recenti, può rivelarsi particolarmente fecondo per almeno due ragioni. Sia nella misura in cui costituisce un chiaro esempio della sensibilità critica di Szondi, sia perché più di altri suoi testi è decisivo per comprendere l’attualità della sua concezione dell’ermeneutica letteraria e le ragioni che la rendono ancor oggi una strada da approfondire e rilanciare.

 

***

 

Conformemente anche al primo sottotitolo (Walter Benjamin e la ricerca del tempo perduto) scelto da Szondi per accompagnare il proprio saggio[2], la principale questione che viene discussa in Speranza nel passato è quella del rapporto tra tempo e scrittura, in relazione alla quale vengono distinte due modalità opposte di rapportarsi al tempo e alla storia. La prima è esemplificata da À la recherche du temps perdu di Proust, che è commentato a partire dalla sua parte conclusiva, vale a dire dal momento in cui il suo protagonista arriva a comprendere il significato della propria ricerca del tempo perduto. Questa comprensione, dice Szondi, ha due radici. Una è felice, perché è legata alla «sensazione di felicità, dapprima inspiegabile, che pervade il protagonista quando, una sera, sua madre gli porge un pezzetto di madeleine imbevuto di tè»[3]. In effetti, come noto, il sapore della madeleine restituisce al protagonista «l’intero mondo dell’infanzia, giacché da bambino spesso gli era stato dato di questo dolce». L’altra radice, al contrario, è dolorosa: è «lo sgomento, “il sospetto tremendamente doloroso”, che lo coglie in seguito ad un’affermazione di suo padre, secondo la quale egli non starebbe “al di fuori del tempo, ma sarebbe sottoposto alle sue leggi”»[4]. Agli occhi dello stesso Proust questi due sentimenti sono strettamente legati, perché la felicità della prima esperienza dipende proprio dalla possibilità di sfuggire alle leggi del tempo che sono alla base del terrore della seconda esperienza. Dopo queste osservazioni, Szondi può quindi riassumere la prospettiva di Proust descrivendola come caratterizzata dal desiderio di sfuggire al tempo:

 

«Proust va alla ricerca del tempo perduto, che è il passato, per sottrarsi, nel ritrovamento di questo tempo, nella coincidenza di passato e presente, al potere del tempo stesso. La ricerca del tempo perduto, del tempo come passato, ha in Proust come meta la perdita del tempo in quanto tale».[5]

 

Nonostante la sua profonda ammirazione per Proust, la concezione che abbiamo appena presentato non è però né quella su cui Szondi più si sofferma né quella in cui sembra riconoscersi. Come suggerito dal titolo del suo saggio, egli è molto più vicino a un altro polo concettuale, esemplificato da Benjamin, che, lungi dall’essersi caratterizzato per il desiderio di «liberarsi dalla temporalità», avrebbe piuttosto costantemente cercato di «vivere l’esperienza storica». Leggiamo un altro passo di Speranza nel passato:

 

«A differenza di Proust, Benjamin non vuole liberarsi della temporalità, non vuole contemplare le cose nella loro essenza astorica, ma mira ad una esperienza e ad una conoscenza storiche; è però respinto nel passato, in un passato, tuttavia, che non è concluso, ma è aperto e promette un futuro».[6]

 

Szondi giustifica e spiega questa conclusione mediante due tipi di osservazioni. In primo luogo, offre un’analisi dettagliata di diversi passaggi di Infanzia berlinese, sottolineando, per esempio, la ricorrenza delle espressioni «per la prima volta» e «le prime tracce» in una sezione del libro intitolata «Risveglio del sesso». Sottolinea in particolare come queste espressioni «riguardano non soltanto l’amore, ma tutti gli strati della persona e della sua esistenza». Allo stesso modo, riguardo ad altre sezioni del libro, sottolinea come i luoghi verso cui la memoria di Benjamin «vuole ritornare portano quasi tutti (come è detto una volta in Infanzia berlinese) “i tratti di ciò che sarebbe venuto”»[7]. In altre parole, secondo Szondi, il futuro è ciò che Benjamin cerca nel passato. Per usare un’altra espressione del critico ungherese, se «Proust ascolta i suoni che provengono dal passato», Benjamin è interessato a «quelli che anticipano un futuro che intanto è divenuto esso stesso passato»[8].

 

La specificità di questa forma di rapporto con il tempo è poi confermata da Szondi attraverso un confronto con il progetto filosofico e politico complessivo di Benjamin, a proposito del quale altri tre testi vengono presentati come particolarmente rilevanti: Origine del dramma barocco tedesco (1928), Strada a senso unico (1928) e Uomini tedeschi (1936). Da un punto di vista strettamente filosofico, il più importante è senz’altro il primo, perché è qui che Benjamin, già nel 1916, introduce il concetto chiave di origine: un concetto che segna tutte le sue opere successive, e al quale, come mostra Szondi, sono strettamente legate Infanzia berlinese, la sua concezione della temporalità e l’idea di una “speranza nel passato”. Ricordiamo che Benjamin è molto chiaro nel distinguere il concetto di origine (Ursprung) da una semplice genesi e da una concezione lineare del tempo:

 

«Il concetto di origine (Ursprung) è così definito: L’origine (Ursprung), pur essendo una categoria pienamente storica, non ha nulla in comune con la genesi (Entstehung). Per “origine” non si intende il divenire di ciò che scaturisce, bensì al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare. L’origine sta nel flusso del divenire come un vortice, e trascina dentro il suo ritmo il materiale della propria genesi».[9]

 

Rispetto all’Origine del dramma barocco tedescoStrada a senso unico è un testo meno commentato, ma non meno importante: non da ultimo per la sua conclusione, che è decisiva per chiarire la concezione benjaminiana della tecnica e il suo rapporto con l’utopia. Da quest’opera Szondi cita un lungo passaggio in cui Benjamin collega la tecnica all’educazione. Un brano in cui Benjamin sostiene che se l’educazione deve essere concepita non come il «dominio esercitato dagli adulti sui bambini» ma come «l’indispensabile ordine del rapporto tra le generazioni» (o tuttalpiù come il «dominio sui rapporti tra le generazioni»), allora la tecnica non dovrebbe essere vista come «dominio sulla natura», ma come «dominio del rapporto tra natura ed umanità»[10]. Szondi può quindi attribuire a Benjamin una concezione utopica della tecnica poiché ciò che Benjamin critica non è la tecnica in quanto tale, ma «il tradimento dell’utopia perpetrato nella realizzazione dell’idea della tecnica»[11]. Benjamin sarebbe stato interessato soprattutto «al tempo in cui la tecnica in quanto tale rappresentava solo una possibilità, al tempo in cui la sua vera idea (con le parole di Benjamin: il dominio non sulla natura, ma sul rapporto tra la natura e l’umanità) era ancora posta nell’orizzonte del futuro»:

 

«In questo modo il senso utopico di Benjamin raggiunge il passato. Questa era la premessa della progettata preistoria dell’epoca moderna. Tale compito è paradossale, come la connessione di speranza e disperazione che in esso si fa sentire. Il cammino verso l’origine è certamente un cammino a ritroso, a ritroso però verso qualcosa di futuro che, benché nel frattempo sia trascorso e sia stato pervertito nella sua idea, della premessa conserva pur sempre di più di quanto non faccia l’immagine odierna del futuro».[12]

 

Uomini tedeschi, infine, tra i testi analizzati in Speranza nel passato, è quello in cui si può meglio osservare come Benjamin sia stato anche capace di utilizzare in modo inedito la pratica del montaggio nella propria pratica di scrittura. Si tratta di un’antologia, pubblicata in Svizzera qualche anno prima dello scoppio della seconda guerra mondiale, nella quale Benjamin raccoglie, mentre si trovava in esilio, lettere scritte da uomini e donne tedeschi del XVIII e XIX secolo. Accanto alle lettere di Goethe, Hölderlin e Büchner, ci sono anche lettere di autori decisamente meno famosi, come la poetessa Annette von Droste, il fratello di Kant, o il medico Samuel Collenbusch. Di quest’ultimo, ad esempio, viene riportata una lettera indirizzata a Kant nella quale prima Collenbusch si rallegra della propria fede nel buon Dio («Caro signor Professore! La speranza rallegra il cuore. Non venderei la mia speranza nemmeno per mille tonnellate d’oro. Da Dio la mia fede spera una straordinaria messe di bontà»[13]) rammaricandosi che l’autore della Critica della ragion pura non condivida con lui una simile speranza («Mi addolora che I. Kant non speri alcunché di buono da Dio, non in questo mondo né in quello a venire»[14]). Al di là delle singole affermazioni presenti in queste lettere (talvolta, come nel caso di quella del dottore Collenbusch, non prive di ingenuità) con questa antologia Benjamin ha cercato d’offrire un’immagine alternativa del popolo tedesco, opposta a quella ideologica e mitica sviluppata dai nazisti. Nella prospettiva di Szondi, Uomini tedeschi è allora importante perché conferma ancora una volta come l’interesse di Benjamin per il passato non abbia nulla a che vedere con una fuga dal tempo. Come affermato da Benjamin nelle sue Tesi sul concetto di storia, il suo obiettivo è, al contrario, far saltare il «corso omogeneo della storia»[15]. E Szondi, a giusto titolo, non manca di collegare l’idea di una “speranza nel passato” anche alle Tesi sul concetto di storia:

 

«È certamente lecito riferire ciò che sta scritto nelle Tesi di filosofia della storia all’arca degli Uomini tedeschi: “Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. Benjamin non costruì l’arca solo per i morti, la costruì in grazia della promessa che egli aveva trovato nella sua propria vita passata. Giacché la sua arca non doveva salvare soltanto se stessa. Essa partì nella speranza di poter raggiungere anche quelli che avevano considerato come una feconda inondazione quello che in realtà era il diluvio universale».[16]

 

***

 

Pubblicato nel 1961, in un momento storico nel quale Benjamin rimaneva ancora un autore poco conosciuto, di cui diversi testi erano ancora inaccessibili o inediti, Speranza nel passato è presto diventato un punto di riferimento imprescindibile nel campo degli studi benjaminiani. L’importanza del saggio di Szondi non si riduce però alla sua capacità di offrire un formidabile accesso all’opera di Benjamin (e a quella di Proust). Attraverso la descrizione di due poli concettuali opposti, Speranza nel passato permette anche di comprendere meglio in generale il rapporto della scrittura con la temporalità e la storia, delineando un orizzonte concettuale (comprensivo di infinite potenziali posizioni intermedie tra il polo proustiano e quello benjaminiano) che può essere utilizzato per interrogare qualsiasi autore, a partire proprio da Szondi, di cui vorremo ora considerare altri due testi: Osservazioni sullo stato della ricerca in ermeneutica letteraria e Lettura di Stretto”; Saggio sulla poesia di Paul Celan.

 

Osservazioni sullo stato della ricerca in ermeneutica letteraria, scritto per un convegno sull’ermeneutica svoltosi a Zurigo, è un breve testo che data dell’aprile 1970, quindi anteriore di poco più di un anno dalla morte del suo autore. In esso, Szondi fa il punto sullo stato dell’ermeneutica del suo tempo, constatando l’assenza di una adeguata riflessione sulla specificità dell’ermeneutica letteraria[17] e cercando di rilanciarla tematizzando due esigenze che associa a quelli che presenta come i «due punti di cristallizzazione di una nuova ermeneutica letteraria»[18].

 

Da un lato, Szondi rivendica in primo luogo la necessità di prendere in considerazione la «determinazione linguistica della letteratura», dove ciò equivale a dire «che l’ermeneutica letteraria non può situare l’oggetto della comprensione al di là del linguaggio, identificando l’atto della comprensione con una semplice decifrazione, ma all’interno del linguaggio stesso». In questa prospettiva, opponendosi implicitamente a un approccio gadameriano che rifiuta l’importanza di elementi metodologici, Szondi si richiama a Schleiermacher, sottolineando la necessità, nella sua ricezione, di non trascurare, come è stato spesso fatto, «l’interpretazione grammaticale a vantaggio dell’interpretazione tecnico-psicologica, e, all’interno di quest’ultima, l’aspetto tecnico – che tocca questioni di procedura – a vantaggio dell’interpretazione psicologica»[19].

 

Allo stesso tempo, però, secondo Szondi, non è meno essenziale prendere in considerazione «la determinazione della conoscenza storica attraverso la storicità del processo cognitivo». È a questo proposito che Szondi mobilita allora di nuovo Benjamin, questa volta sottolineando e rilanciando l’invito, affermato nel saggio di Benjamin su Eduard Fuchs, «ad abbandonare un atteggiamento placido e contemplativo di fronte all’oggetto per rendersi consapevole della costellazione critica in cui proprio questo frammento del passato s’incontra proprio con questo presente»[20]. Secondo Szondi, come per Benjamin, sia gli storici in generale che, più specificamente, gli storici della letteratura devono essere in grado di «far saltare un’epoca determinata dal corso omogeneo della storia», e anche di «far saltare una determinata vita dall’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva»[21]. Solo così, infatti, è possibile che nell’opera sia «conservata e soppressa l’opera complessiva, nell’opera complessiva l’epoca e nell’epoca l’intero decorso della storia». In altre parole, secondo Szondi, se la filologia è essenziale per lo sviluppo dell’ermeneutica letteraria, non è sufficiente. Una adeguata forma di ermeneutica letteraria richiede anche lo sviluppo di una filosofia critica della storia, e più precisamente lo sviluppo di una filosofia della storia che si basi su posizioni analoghe a quelle sviluppate da Benjamin che Szondi aveva precedentemente commentato in Speranza nel passato:

 

«Un secondo fecondo punto di partenza per l’ermeneutica letteraria è la teoria della “costruzione storica” di Walter Benjamin, come l’ha concepita nelle Tesi di filosofia della storia, nell’introduzione del suo saggio di Fuchs e in diverse recensioni (tutti testi risalenti alla fine degli anni 30). Benjamin esige dallo storico, compreso lo storico della letteratura, che abbandoni “un atteggiamento placido e contemplativo di fronte all’oggetto per rendersi consapevole della costellazione critica in cui proprio questo frammento del passato s’incontra proprio con questo presente”. Occorre “far saltare un’epoca determinata dal corso omogeneo della storia; come per far saltare una determinata vita dall’epoca, una determinata opera dall’opera complessiva”. Il risultato di questo procedimento consiste nel fatto che “nell’opera è conservata e soppressa l’opera complessiva, nell’opera complessiva l’epoca e nell’epoca l’intero decorso della storia”. Benjamin ha inteso questa teoria della conoscenza storica come quella del materialismo storico, come il momento che impone di cogliere il passato come l’“istante di un pericolo”, e “il soggetto della conoscenza storica” come “la classe oppressa stessa”. Ma già prima della sua fase marxista, nel saggio su Il compito del traduttore, scritto all’inizio degli anni venti, lo storicismo è superato da una teoria della “sopravvivenza” delle opere, della “maturazione anche delle parole ben definite”. La traduzione, come forma sui generis, ha il compito di constatare “la maturazione della parola straniera”».[22]

 

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Consideriamo infine almeno un saggio che permetta di osservare come Szondi si collochi in continuità con la prospettiva benjaminiana anche nei suoi testi in cui il nome di Benjamin non è menzionato. Da questo punto di vista vorremmo allora considerare Lettura di Stretto”, uno degli articoli, ora raccolti in L’ora che non ha più sorelle, che Szondi ha dedicato alle poesie dell’amico Paul CelanNella prospettiva della nostra ricerca questo saggio è particolarmente rilevante per almeno due aspetti. In primo luogo, perché può essere considerato come un testo che risponde in modo esemplare alle due esigenze affermate in Osservazioni sullo stato della ricerca dell’ermeneutica letteraria. Szondi sviluppa infatti un’attenta lettura testuale, meticolosa e puntuale, evitando al tempo stesso l’atteggiamento sereno e distaccato disprezzato da Benjamin. Szondi, in altre parole, offre una lettura filologicamente magistrale del testo di Celan, mostrando proprio attraverso il massimo rigore filologico la dimensione storica delle poesie analizzate e la loro capacità di rompere il continuum della storia.

 

In secondo luogo, ci sembra inoltre possibile affermare che la lettura proposta da Szondi in Lettura di Stretto” permette di concludere che anche il rapporto di Celan con la storia si colloca dalla parte di Benjamin piuttosto che da quella di Proust. Ciò può essere osservato in particolare nell’ultima parte del saggio, nella quale vengono analizzate le ultime sezioni di Stretto (Engführung). Precedentemente, commentando le prime parti di questo poema del 1959, Szondi aveva mostrato come in esso sia in gioco nientemeno che la possibilità di creare “un nuovo mondo”, o più precisamente di “ri-creare” il mondo: una possibilità apparentemente destinata all’insuccesso, visto che i primi tentativi messi in campo (evocati nelle sezioni centrali di Stretto) falliscono piuttosto miseramente. Un simile fallimento è però legato a una loro caratteristica specifica: la loro astrattezza, o meglio al fatto che essi siano nati a partire da elementi troppo puri e cristallini («questo mondo è troppo puro»[23], come sintetizza Szondi a proposito del mondo che sembra nascere nella sesta e nella settima sezione di Stretto).

 

A dispetto di tali fallimenti, nelle ultime due sezioni di Strette – la ottava e la nona – emerge però anche un’altra possibilità che Szondi mette in evidenza commentando, insieme ad altri elementi, l’uso del termine “Osanna” da parte del poeta tedesco, a proposito del quale va ricordato come Celan non si limiti a rappresentare la tragedia storica della Shoah[24]. Celan riprende in questo poema letteralmente le ultime parole degli ebrei vittime dei campi di sterminio: parole che – malgrado tutto – erano ancora parole di speranza:

 

«È noto che spesso gli ebrei deportati, proprio nel momento del loro supplizio estremo, si mettevano a pregare e cantavano dei salmi. “Osanna” in ebraico significa “salvaci” o “orsù salvaci”. Questa preghiera oltrepassa il limite segnato, verso l’alto, dal “parapalle”. Coloro che la dicono, oltrepassano con essa l’ambito del loro supplizio: la preghiera è in qualche modo essa stessa un parapalle. La loro salvezza è la parola, il verbo. Certo il poeta non dice nulla di tutto questo. Ma ciò che esprime è l’insegnamento da trarre dalla condotta dei deportati che andavano alla morte. L’evocazione dei fatti che appartengono alla realtà storica si trova nella poesia, di cui costituiscono la fine e il fine, perché serva da insegnamento».[25]

 

Alla luce di questa e di altre osservazioni, continua Szondi, è possibile comprendere meglio come dopo Auschwitz la poesia per Celan sia ancora possibile, ma «solo sulla base di Auschwitz». Ciò equivale a dire che per Celan non è più praticabile una forma di poesia associabile all’idea di una parola misteriosa quale era ancora la parola alla base dei primi tentativi di costruzione di un mondo presenti nella parte centrale in Stretto. La poesia – come una certa forma di speranza – è possibile solo a condizione di non rimuovere il passato e di ricordarsi dei crimini di cui gli uomini sono stati capaci nel corso della storia e, ancora più precisamente, a condizione di ricordarsi del punto di vista delle vittime. Solo così qualcosa come una «ri-creazione del mondo» è possibile, una «ri-creazione» che resta molto fragile, e che non potrà mai essere certa d’essere al riparo da nuove distruzioni, ma che non per questo non corrisponde a un compito assolutamente necessario:

 

«Dopo Auschwitz si può fare poesia solo sulla base di Auschwitz. Mai come in Stretto, Celan ha dimostrato in modo chiaro e convincente il fondamento reale dell’insegna segreta della sua opera, il suo carattere essenzialmente non confessionale, non personale. La parola creatrice non è dunque la parola misteriosa di cui si dice, nella prima strofa della parte V, che “scese, / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere”. È invece quella detta dagli ebrei deportati in punto di morte – una parola i cui “solchi” ridiventano “visibili” al termine della poesia».[26]

 

***

 

Attestata almeno a grandi linee la plausibilità dell’ipotesi secondo la quale è possibile utilizzare l’idea di “speranza nel passato” per pensare anche le opere di Szondi e di Celan, oltre a quelle di Benjamin, un compito tanto urgente quanto complesso sarebbe ora quello di sviluppare un confronto sistematico delle loro opere, cercando di precisare meglio le modalità con cui in esse viene di volta declinata una forma di “speranza nel passato”. Un simile compito è importante anche nella misura in cui, al di là dei numerosi punti in comune che possono essere rintracciati tra gli scritti di Szondi, Benjamin e Celan (e anche tra le loro vite, visto che sono state tutte travolte dalla guerra e dal nazismo, e che tutti e tre hanno anche in comune tanto l’origine ebraica che la scelta del suicidio), evidentemente le loro prospettive non possono essere troppo facilmente assimiliate e sovrapposte l’una all’altra. Ciascuno di essi si differenzia sia per importanti caratteristiche formali dei propri scritti (a partire dai diversi generi di scrittura praticati) sia per dei non meno importanti aspetti biografici (quali il diverso contesto in cui hanno vissuto e il diverso rapporto con le istituzioni).

 

In attesa di studi più precisi e sistematici, già la sola lettura dei testi che abbiamo sinora considerato ci sembra però confermare l’attualità di Szondi. Lungi dall’essere l’autore di «una piccola œuvre» (a meno di non interpretare quest’espressione nel senso deleuziano secondo cui «di grande, di rivoluzionario non c’è che il minore»[27]) i suoi scritti non possono non costituire un riferimento indispensabile non solo per gli studiosi di letteratura, ma più in generale per ogni lettore o scrittore che sia interessato a pensare la scrittura (tanto letteraria che critica) come un’esperienza irriducibile a una via per sfuggire al tempo e alla storia.

 

Note

 

[1] Lo ha testimoniato sua madre, Lili, in una lettera del 23 giugno 1977 a Jean Bollack: «Lo vedo ancora stare, molti – molti anni or sono, nella mia camera davanti al divano e dire: “avrò una piccola œuvre”» (cf. C. König, Strettoie; Peter Szondi e la letteratura [Engführungen. Peter Szondi und die Literatur, 2004], trad. di M. Pizzingrilli, Quodlibet, Macerata, 2009, p. 91).

[2] Speranza nel passato è stato inizialmente pubblicato l’8 ottobre 1961 nel supplemento letterario del Neue Zürcher Zeitung con il titolo Hoffnung im Vergangenen; Walter Benjamin und die Suche nach der verlorenen Zeit. Lo stesso titolo fu mantenuto nel 1963 quando fu incluso in un volume collettivo in omaggio a Adorno (Zeugnisse Theodor W. Adorno zum 60. Geburtstag). L’anno successivo, al momento di includerlo in Satz und Gegensatz, Szondi opta invece per il titolo che sarà utilizzato anche nelle sue opere postume: Hoffnung im Vergangenen; Über Walter Benjamin.

[3] P. Szondi, Speranza nel passato; Su Walter Benjamin [Hoffnung im Vergangenen; Über Walter Benjamin, 1961], trad. di U. M. Ugazio in Aut Aut, 189-190, maggio-agosto 1982, p. 15. Di Speranza nel passato è disponibile in italiano anche la traduzione di R. Gilodi (in W. Benjamin, Infanzia berlinese, Einaudi, Torino, 2007, p. 127-151.

[4] Ibid.

[5] Ibid.

[6] Ibid, p. 18.

[7] Ibid.

[8] Ibid.

[9] W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco [Ursprung des deutschen Trauerspiels, 1928], trad. di F. Cuniberto, Einaudi, Torino, 1999, p. XVII.

[10] W. Benjamin, Strada a senso unico [Einbahnstrasse, 1928], trad. di B. Cetti Marinoni, Einaudi, Torino, 1983, p. 68.

[11] P. Szondi, Speranza nel passatoop. cit., p. 20.

[12] Ibid, p. 20-21.

[13] W. Benjamin, Uomini tedeschi [Deutsche Menschen, 1936], trad. di E. Ganni, Einaudi, Torino, 2015, p. 26.

[14] Ibid, p. 27.

[15] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storia [Über den Begriff der Geschichte], trad. di R. Solmi, in Id. Angelus novus; Saggi e frammenti, Einaudi, Torino, 1995, p. 85).

[16] P. Szondi, Speranza nel passatoop. cit., p. 24.

[17] «Oggi, nei convegni ermeneutici, il letterato siede al tavolo accanto al teologo e al giurista come un parente povero. Il suo posto è infatti giustificato dalla tradizione, e la stirpe dei suoi progenitori non è né la più corta né la peggiore. Ma non riesce ad apportare dei grandi contributi. Nessuna delle varie scuole che le filologie moderne hanno contribuito a formare (e solo queste saranno discusse qui) fin dalla loro nascita è stata favorevole alla formazione di un’ermeneutica specificamente letteraria. I positivisti si sono preoccupati solo dei fatti, e poiché hanno considerato anche la loro interpretazione dei fatti come qualcosa di dato, è rimasta senza risposta la questione dell’origine di questa interpretazione e della conoscenza dei fatti. La storia delle idee si è occupata solo delle idee: ciò che doveva essere interpretato era considerato come un mero rivestimento del vero senso. Le varie scuole di interpretazione immanente si sono sforzate di dimostrare che la singola opera d’arte letteraria può essere adeguatamente compresa solo dall’interno di sé stessa: la questione di come avvenga tale comprensione non farebbe che disturbare l’enfasi di tale aspirazione. Gli studi letterari influenzati dalla filosofia dell’essere non hanno avuto bisogno di sentirsi dire due volte che l’“essere-ci” è comprensione, e hanno concluso: se la comprensione è l’essere-ci, le condizioni di possibilità della comprensione sono una questione di ontologia fondamentale; una critica della ragione letteraria è diventata meno che mai un desideratum. Se si prescinde da singoli tentativi, specialmente nel campo della filosofia del linguaggio e della storia, nel campo della filologia l’ermeneutica non ha praticamente progredito oltre lo stato del XIX secolo» (P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutik, 1970, in Id., Einführung in die literarische Hermeneutik, a cura di J. Bollack e H. Stierlin, Suhrkamp, Frankfurt, 1975, traduzione nostra, p. 404).

[18] Ibid, p. 406.

[19] Ibid.

[20] W. Benjamin, Eduard Fuchs, il collezionista e lo storico [Eduard Fuchs, der Sammler und der Historiker, 1937] trad. di E. Filippini, in Id., Opere complete; VI; Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino, 2004, p. 468.

[21] W. Benjamin, Tesi di filosofia della storiaop. cit., p. 85.

[22] P. Szondi, Bemerkungen zur Forschungslage der literarischen Hermeneutikop. cit., p. 407-408.

[23] Cf. P. Szondi, Lettura di Stretto”; Saggio sulla poesia di Paul Celan [Lecture de Strette; Essai sur la poésie de Paul Celan, 1971], trad. di G. A. Schiaffino, in Id., L’ora che non ha più sorelle, Gallio, Bologna, 1990, p. 56.

[24] «La poesia cessa di essere mimésis, rappresentazione: diventa realtà. Realtà poetica, beninteso, testo che non segue più una realtà, ma si progetta essi stesso, si costituisce in realtà. È per questo che non bisogna più “leggere” questo testo, né “guardare” l’immagine che potrebbe descrivere. Quel che il poeta esige da sé e ciò che esige dal lettore, è di avanzare in quella landa che è il suo testo» (ibid. p. 16).

[25] Ibid. p. 58.

[26] Ibid. p. 60.

[27] G. Deleuze e F. Guattari, Kafka; Per una letteratura minore [Kafka; Pour une littérature mineure, 1975], trad. di A. Serra, Quodlibet, Macerata, 1996, p. 47



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