13 novembre 2021

IL METAVERSO di M. ZUCKERBERG

 


MARK ZUCKERBERG NEL METAVERSO

di Marco Montanaro pubblicato lunedì, 8 Novembre 2021 nel sito https://www.minimaetmoralia.it/ e da qui ripreso. ·

Dovremmo esser grati ogni volta che altri esseri umani ci permettono di essere altrove grazie alle loro opere. Poeti, artisti, musicisti, registi, sceneggiatori. Da qualche decennio però il nostro altrove preferito è creato anche, forse soprattutto, da ingegneri, sviluppatori, CEO di piccole aziende divenute poi gigantesche, più importanti di interi stati e continenti.

Poco meno di trent’anni fa, l’altrove digitale si presentava come un carnevale notturno in cui si indossavano maschere – i nickname – e costumi piuttosto pittoreschi – gli avatar – per ballare in feste sconosciute e sovvertire, potenzialmente, le regole della vita di ogni giorno. Era tutto lentissimo, nettamente separato dalla nostra esperienza quotidiana da interfacce fisiche, prima ancora che virtuali, piuttosto ingombranti: modem, schermi e cassettoni di computer fissi, mouse, tastiere e tanti, tantissimi cavi.

Sul finire degli anni ’90 abbandonai i videogiochi, la mia primissima esperienza d’altrove digitale, per gettarmi a capofitto in quella prima internet di siti, forum, chat d’ogni sorta. Online potevi conoscere un sacco di gente, per quanto in incognito, che non avresti mai potuto incontrare nella vita reale. Persone verso cui, a parte rarissimi casi, non avevi alcuna responsabilità – proprio come in un videogioco.

Quella internet era molto utile in provincia, dove tutto sembrava distante dai centri della vita contemporanea, per sentirsi vivi. Per sentirsi vivi era fondamentale – nonché meraviglioso – smettere di essere sé stessi con la propria forma fisica, la propria faccia, i propri pensieri, la pesantezza della vita d’ogni giorno. Potevi essere un ladro, un assassino, un eroe, un soldato o un grande musicista e continuare la tua vita quotidiana come se niente fosse. Potevi essere tutto, per non essere il niente delle etichette che da adolescente ti cuciva addosso una piccola città di provincia. L’unico inconveniente era lo stigma sociale: passare tutto quel tempo online, un tempo per la verità sempre crescente, poteva fare di te uno sfigato, uno che non aveva una vita socialmente accettabile.

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Non molti anni dopo, Facebook e gli smartphone hanno cambiato tutto. La tecnologia si è rimpicciolita, ha iniziato ad assottigliare la distanza tra reale e virtuale. Il primissimo Facebook rendeva desiderabile palesarci online con nomi, cognomi e facce vere. Lo rendeva prima desiderabile – questo aspetto va sottolineato – e poi in qualche modo obbligatorio quando era ormai chiaro che il modello di sviluppo delle nuove piattaforme si sarebbe basato sull’estrazione di dati dalle nostre esperienze in digitale, sulla produzione di valore separata tuttavia da lavoro e salario. Stare online tutto il tempo non era più un problema, al contrario: via lo stigma sociale, trasformarsi in veri e propri performer digitali sempre connessi era tutto.

Facebook all’inizio mi attirò subito: ancora una volta, mi dava la possibilità di sentirmi al centro pur vivendo lontano dal centro, la possibilità di essere connesso con vere e proprie personalità dei mondi che avrei voluto abitare, per lo più legati a musica ed editoria, quella di essere conosciuto, amato, apprezzato – in fondo, a chi non piace? Per quanto pure si agitava in me il sospetto che stessimo definitivamente trasportando online, insieme ai nostri lati più luminosi, anche quelli più sconvenienti, imbarazzanti ed emotivi, inconsapevolmente tristi e narcisisti.

E così la tecnologia, mentre si rimpiccioliva con l’obiettivo finale di arrivare a smaterializzarsi, smaterializzava tutte e tutti noi. Assottigliati fino a diventare puro dato, nel nostro piccolo potevamo vivere l’ebbrezza di essere personalità pubbliche popolari e controverse (popolari perché controverse) come qualsiasi star del mondo precedente. Dall’anonimato della prima rete si passava a commentare a nostro nome fatti di attualità, con la certezza che la spietata intensità retorica della nostra argomentazione ci avrebbe portato rispettabilità e ragione, rafforzando la nostra identità agli occhi altrui. Dal non voler nemmeno sapere chi sono, dal voler dimenticare il peso di avere un’identità fissa, univoca e coerente, al più classico e comico del “lei non sa chi sono io”.

Su tutto, da allora, domina e si perfeziona ogni giorno un linguaggio promozionale, pubblicitario. Da un lato quello strettamente informatico degli algoritmi, ancora imperfetti, che ci propongono oggetti e servizi da acquistare in base ai nostri gusti, persino quelli più inconfessabili e provvisori, dall’altro quello utilizzato da noi. Ogni post e ogni foto pubblicata su Facebook e Instagram ha come sottotesto, spesso involontario, un invito all’acquisto, a fidarsi di noi, delle nostre idee, ad apprezzare le nostre vite, anche quando oggettivamente inguardabili, disperate e prive di senso.

Sotto questo profilo, i social hanno davvero rotto qualcosa, disinnescando ogni tipo di critica radicale ai modelli sociali ed economici che conformano le nostre vite: non c’è un solo messaggio credibile, tra quelli che diffondiamo sui social. Ogni messaggio, anche il più illuminato e socialmente, politicamente o culturalmente rilevante, ne porta con sé un altro implicito e ancora più pervasivo che è un invito ad acquistarci, ad acquistare qualcosa di noi. Comunicazione automatizzata ben oltre i bot e le intelligenze artificiali, comunicazione per macchine verso altre macchine, per quanto sempre emotiva e performativa, ancora apparentemente umana.

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Certo, non eravamo preparati, non lo era nessuno di noi. Qualcuno è stato in grado di muoversi meglio in questo vasto oceano promozionale, qualcun altro meno. In Italia il filosofo Luca Morisi, ex social media manager ed esponente politico di spicco della Lega, è sicuramente tra coloro che hanno saputo sfruttare al meglio Facebook, combinando la creazione di contenuti controversi e divisivi con le caratteristiche tecniche intrinseche della piattaforma.

Realizzato tutto questo, qualche anno fa ho deciso di tornare al mio primo amore digitale, i videogiochi – su cui pure lo stesso Morisi, non a caso, si era formato, scrivendo su riviste di settore negli anni ’90 – videogiochi tuttavia giocati rigorosamente offline e in solitudine. Non ero più disposto a essere sempre connesso, sempre stanabile e costretto in questa o quella categoria (“scrittore”, “intellettuale”, “militante”, “giornalista”, “femminista”, “novax”, “provax”, “nivax”, eccetera) né di infilarci gli altri, in categorie fisse e predeterminate, come ero stanco dell’inevitabile confusione tra pubblico e privato che i social innescano nelle nostre vite. In passato, grazie al digitale, fuggivo proprio da questi aspetti tipici della vita di provincia, e adesso mi sembrava che tutto il mondo funzionasse come la mia piccola città di provincia.

D’altra parte, se l’interazione con altri esseri umani nell’altrove digitale è artificiosa e guidata da narcisismo e opportunismo, tanto valeva tornare a interagire con personaggi non giocabili e autentiche intelligenze artificiali, a cui non puoi nuocere davvero, e che nulla possono rispetto alle tue debolezze. Tornando ai videogiochi potevo comunque preservare il mio desiderio di essere altrove, per me fondamentale, nella forma dell’interazione (non mi bastano film, serie o libri, perché non posso agirli direttamente), provando ad autoeducarmi nella rinuncia alla gratificazione dei like (a chi non piacciono, suvvia?) e più in generale provando a contenere il narcisismo e le piccole forme d’odio che Facebook aveva tirato fuori da me come da chiunque altro.

Eppure proprio i videogiochi – per la verità quelli giocati online e in multiplayer come Fortnite – diventavano nel frattempo la base per le nostre nuove esperienze online, espandendo e caratterizzando sempre meglio giganteschi mondi digitali in cui non ci si limita più solo a giocare. Ecco quindi che nella primavera del 2021 si inizia a parlare del metaverso di Epic Games. A seguire, in autunno, Mark Zuckerberg presenta la sua versione del metaverso, annunciando anche il cambio di nome – da Facebook a Meta – della società di Menlo Park.

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Il video di presentazione del metaverso zuckerberghiano è piuttosto chiaro su quello che ci aspetta nei prossimi anni: un’esperienza digitale decisamente più immersiva rispetto a quella odierna, in cui saremo presenti con avatar pacciocconi e potremo condividere esperienze come faremmo dal vivo – anzi di più, visto che potremo giocare a ping pong sulla luna o per le strade di Pasadena mentre siamo a casa nostra nei sobborghi di una qualsiasi città italiana.

Potremo costruire oggetti e ambienti digitali da soli, oppure acquistarli da sviluppatori più o meno indipendenti, e interagire con chiunque vogliamo, quando vogliamo, dove vogliamo, per giocare, lavorare, fare sport o guardare film attraverso ologrammi e teletrasporto. Un’idea di altrove digitale che non suonerà nemmeno tanto futuristica a chiunque abbia familiarità con i videogiochi – soprattutto quelli online, come dicevo prima – o ha memoria di cosa fu e soprattutto cosa non fu Second Life. Con la differenza che questa, nei piani di Zuckerberg, potrebbe diventare la nostra First Life.

In un parallelo che ho trovato infelice, Zuckerberg ha paragonato il metaverso al film Ready Player One, di cui ricordo poco – e quel che ricordo non è poi tanto incoraggiante: gente che vive altrove, in un eterno videogioco, a cui è collegata con un visore mentre continua ad abitare in un tugurio. Per cui molte persone si sono chieste: che vita farò da questa parte, mentre sarò nel metaverso? In che tipo di abitazione vivrò? Avrò ancora bisogno di un lavoro? Tuttavia, nel video di presentazione Zuckerberg sostiene almeno una tesi condivisibile: i device e le interfacce con cui oggi viviamo il nostro altrove digitale sono assai limitanti.

Schermi e tastiere, fisiche e digitali, non ci bastano più, è vero. In particolare lo schermo ci separa dalla realtà digitale, delimitandola in un riquadro irraggiungibile. Ci ricorda che quella realtà non è ancora la nostra – etimologicamente, lo schermo è separazione, una cornice proprio come quella di un quadro o il rettangolo delle pagine di un libro.

Non si tratta di passare più tempo davanti allo schermo” ha spiegato Zuckerberg, “ma di migliorare la qualità di quel tempo”. Tanto vale fluire liberi – su questo non si può non essere d’accordo – in forma di dati aggregati e condensati in un avatar, in ambienti digitali condivisi con altre persone con la netta percezione di essere davvero lì con gli altri. Perciò i device, in attesa di smaterializzarsi del tutto nel corso dei prossimi cinque-dieci anni necessari alla realizzazione del metaverso, diventeranno indossabili: visori, occhiali e piccole protesi che ci permetteranno di essere e produrre noi stessi Realtà Virtuale e Aumentata.

È come se ci apprestassimo a passare dal multiverso della prima internet, che funzionava appunto come un universo parallelo ancora ben separato da questa realtà, alla possibilità che l’intera realtà venga inglobata dal digitale grazie al metaverso. Se poi l’attuale rete social ci ha dato un nome e un’identità e ci ha fatto esistere, come particelle quantiche, soprattutto nell’interazione con gli altri, il metaverso ci permetterà di vivere appieno quel nome e quell’identità insieme agli altri in ambienti condivisi e, promette Zuckerberg, sicuri dal punto di vista della privacy. Sulla qualità delle interazioni, vero tasto dolente di ciò che è l’internet social che viviamo, nulla dice Zuckerberg, dando per scontato che le nostre relazioni non potranno che essere ulteriormente migliorate dal metaverso.

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Eppure proprio il video di presentazione del metaverso è forse la peggior pubblicità a questa nuova visione della rete. Se il kitsch, diceva Milan Kundera, è negare l’esistenza della merda, nel suo metaverso Zuckerberg ci propina ancora una volta l’estetica pacchiana delle grafiche e degli avatar che già oggi accompagnano i suoi servizi livellando verso il basso la qualità delle nostre esperienze online, con tramonti che sembrano usciti da un vecchio videogioco per PlayStation e interni in computergrafica di quart’ordine. È tutto posticcio, infantilizzante, progettato alla buona e votato a una giocosità che non ha nulla di divertente, per cui la cosiddetta gamificazione equivoca e inibisce ogni possibilità che l’intrattenimento possa essere qualcosa di davvero rilevante, per non dire sacro, nelle nostre vite.

Alla lunga, l’intero video di presentazione del metaverso finisce con l’assumere i toni della parodia involontaria: la voce di Zuckerberg ricorda quella sintetica di Fitter Happier dei Radiohead, i suoi dialoghi con gli sviluppatori di terze parti sembrano usciti da una puntata dei Simpson, e quegli stessi sviluppatori paiono esplicitare un entusiasmo del tutto finto, espresso sotto ricatto – li immagino, terminata la registrazione del video, tornare mesti a lavorare alacremente su applicazioni e tecnologie ben lontane dall’essere pronte, quantomeno nel breve, per un utilizzo commerciale e popolare.

Se la rivoluzione di Facebook e degli smartphone ci ha trovato impreparati perché non era stata annunciata, insomma, questa non ci lascia meno dubbiosi nonostante Zuckerberg si sia premurato di raccontarcela dettagliatamente con qualche anno di anticipo. Il fatto è che dopo quasi vent’anni di utilizzo, è chiaro a molti che Facebook non ci ha resi più felici e non ha migliorato le nostre interazioni, come accennavo prima. L’essere umano è prosa e, per quanto sono certo che Zuckerberg riuscirà a rendere inizialmente assai appetibile abitare il metaverso come fu con Facebook, mi chiedo se non riempiremo di rancore e narcisismo anche questo altrove digitale. Se non lo riempiremo con i nostri guai – sarebbe forse auspicabile? – inverando l’ipotesi che con questo annuncio Zuckerberg stia semplicemente cercando di sviare l’attenzione da un mostro ormai ingestibile, ossia un business model e una multinazionale in forte crisi di credibilità anche a livello politico.

Zuckerberg continua a immaginare e a disegnarci addosso un presente e un futuro fatto di ambienti puliti, igienici e igienizzanti, sulla carta molto divertenti, dove non ci sono sangue, ingiustizia, sporcizia, sudore, virus e batteri. Ma l’altrove come esperienza artistica (e pertanto umana, per come cioè la inquadravo all’inizio di questo intervento), necessita insieme di vizi e virtù, incoerenza e incompletezza, dispiaceri, tradimenti e conflitto. Ho l’impressione che la posta in gioco, nel metaverso, sia proprio questo tipo di irriducibilità che ci rende umani. Vorrei avere la forza (e forse anche l’età giusta) per guardare con curiosità e senza pregiudizi a questa sfida: non ho dubbi che l’alieno Zuckerberg, nonostante i problemi di Facebook, sia in qualche modo sincero nel suo intento – e questo, però, è forse ciò che fa più paura.


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