08 novembre 2021

LA QUESTIONE DELLA LINGUA OGGI

 


Riprendo dal sito leparolelecose questo articolo:

LA FORZA DELLE ABITUDINI. IN DIFESA DELLA LINGUA INCLUSIVA

di Barbara Carnevali

[Quest’articolo è apparso sul numero 5 (2021) di «MicroMega»  (ancora in edicola) dedicato alla questione della lingua, con altri interventi di Cecilia Robustelli e Rita Librandi].

 

Pane e rose

 

Intervengo a proposito della nuova “questione della lingua” su invito della redazione di MicroMega. Non sono linguista né filosofa del linguaggio, non ho competenze specifiche da vantare se non l’esperienza accumulata svolgendo, nell’università in cui lavoro, l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi (EHESS), l’incarico di «Chargée de mission pour l’égalité et la lutte contre les discriminations»: una specie di ministero delle pari opportunità che, dal 2018, ogni istituto di insegnamento e ricerca in Francia prevede per obbligo di legge (Loi Fioraso). La lingua inclusiva, che riguarda prevalentemente la scrittura adottata a livello istituzionale per la comunicazione interna ed esterna all’università, fa parte delle azioni che le persone incaricate affrontano nell’ambito della missione e di cui discutono sia durante gli incontri annuali della CPED (Conférence Permanente des chargé·es de mission Égalité et Diversité[1]) sia attraverso una lista di diffusione che aggiorna su pubblicazioni recenti, inchieste e sperimentazioni in atto.

 

Prima di assumere l’incarico, propostomi dalla Presidenza dell’EHESS e da me accettato volentieri per le ragioni che spiegherò tra poco, la mia opinione sul tema era di ignorante supponenza. Anche in Francia, il paese dei valori universalistici e del protezionismo linguistico, cui è riuscito il miracolo di far entrare nell’uso il termine ordinateur al posto di computer, la questione della lingua è discussa animatamente; i campi della linguistica e del femminismo sono divisi (nel primo caso la frattura è soprattutto teorica, nel secondo generazionale); nessuno tuttavia definirebbe futile una discussione come quella cominciata sui giornali italiani, o scherzerebbe sul concetto di inclusività. Invece, trascurando un dibattito scientifico e politico già avanzato, io liquidavo queste faccende come americanate pseudofemministe e per nulla di sinistra: deridevo l’ingenuità o la mala fede di chi pensa di far politica imponendo a forza l’uso di simboletti e sciorinavo il rosario di luoghi comuni di quella sinistra “seria” che troppo spesso, sulle questioni di genere, finisce per tradire i propri valori: «sono solo parole», «le donne avrebbero cose più serie di cui occuparsi», «prima i salari e poi le denominazioni dei mestieri», senza trascurare gli scenari orwelliani della neo-lingua e la presunta bruttezza dei termini ministra o magistrata. Ho scritto un libro sulle apparenze sociali, dedicato alla forza subliminale delle influenze estetiche e dei rapporti di prestigio, eppure sono caduta nella contraddizione degli intellettuali umanisti che davanti allo spettro del politicamente corretto cedono al richiamo del materialismo volgare: come quei critici di letteratura che però si esaltano per la risciacquatura in Arno dei Promessi Sposi, i neologismi di Zanzotto o l’audacia delle avanguardie storiche che volevano fare la rivoluzione fondendo la vita con l’arte. Le persone di sinistra adorano citare Nanni Moretti quando grida alla giornalista svampita di Palombella Rossa: «Le parole sono importanti!». Ma quando si torna nella vita reale, in cui siamo parti in causa con interessi e privilegi da difendere, attaccati come cozze allo scoglio delle nostre abitudini e dei nostri pregiudizi, persino i più critici dei critici si trasformano in accaniti difensori dello status quo.

 

È sorprendente come, nella mia arroganza, mortificassi proprio gli studi filosofici che mi avevano più appassionata: ho preparato esami su Wittgenstein e Austin, riflettendo su come il mondo sia plasmato dal linguaggio e si possano “fare cose con le parole”; ho scritto sulla questione del riconoscimento, che passa dai diritti ma anche dai beni immateriali come gesti espressivi e parole; soprattutto, considero Pierre Bourdieu un grande maestro intellettuale. A Bourdieu dobbiamo una delle più potenti spiegazioni della violenza veicolata dal linguaggio e dalle altre forme di potere simbolico, il potere che si esercita attraverso l’egemonia culturale e la capitalizzazione di simboli di status e di prestigio: tra cui anche titoli, formule di cortesia e di rispetto, particelle nobiliari, articoli, nomi di professioni e di mestieri. L’interesse della teoria di Bourdieu, che ha profonde affinità con quella di Gramsci[2], ha il merito di estendere i principi del marxismo critico al piano della cultura e del linguaggio, mostrando come le lotte per la giustizia immateriale non siano surrogati di quelle economiche, ma complici inseparabili da esse. Se si ammette l’esistenza di un capitale simbolico che, in sinergia col capitale economico, esercita la sua pressione attraverso specifici canali psicologici e comunicativi (imitazione, educazione, pubblicità, influenza, riconoscimento, senso di superiorità/inferiorità), non ha senso distinguere tra salari e simboli, conti in banca e titoli di studio, risorse materiali e risorse linguistiche. Come nell’ontologia di Spinoza, i due piani concorrono parallelamente a foggiare il reale, benché ognuno con modalità proprie. Ma questo parallelismo è anche un chiasma perché, attraverso il meccanismo dell’incorporazione di schemi sociali mediato dalle abitudini, produce un’azione reciproca tra fenomeni psichici e corporei, simbolici e materiali. Nell’habitus, l’automa sociale che ci portiamo dentro, il verbo si fa carne, e viceversa. E questo ridefinisce necessariamente il significato delle lotte politiche: un sindacato formatosi a questa concezione delle disuguaglianze rivendica le rose insieme al pane.

 

Bourdieu articola il concetto marxiano di ideologia e lo sviluppa in ogni suo ambito – per la precisione campo – alla luce del principio formulato nell’Ideologia tedesca: le idee (e le parole) della classe dominante sono le idee (e le parole) dominanti. Il sociologo lo ha indagato soprattutto a livello dei rapporti di classe, del “saper parlare” come distinzione sociale[3]. Ma i principi della sua critica linguistica valgono anche per quel dominio maschile che dà il titolo a un altro suo bellissimo libro. Riproducendo e celebrando le gerarchie sociali attraverso il senso di intangibilità degli usi e la venerazione per le grammatiche, la lingua delle società patriarcali svalorizza le donne e le cancella dall’ordine simbolico. Ecco dove si cela e come agisce la colossale “cancel culture” che, lungi dall’essere un’invenzione dei campus americani, è un ancestrale meccanismo riproduttivo dell’oppressione: rispetto a quella, tutto sommato ingenua, di chi abbatte le statue nelle piazze, questa ha il vantaggio immenso di essere occulta, impersonale e incosciente, quindi molto più subdola e pervasiva. L’inversione del senso comune vale anche per l’altra famigerata espressione, la correttezza politica[4]. Un’amica, tempo fa, mi spiegava candidamente come tra le donne che fanno il suo mestiere sia più naturale, anzi, “più corretto”, farsi chiamare notaio, perché la parola notaia suona male in italiano. Alla replica se fioraia e operaia risultino altrettanto dissonanti è rimasta interdetta: era chiaro che in quel senso di appropriatezza si celava la naturalizzazione di rapporti di forza. Alle stesse conclusioni conduce l’episodio cui risale la mia conversione alla lingua inclusiva.

 

Quando nel 2013 ho vinto una cattedra in Francia, il titolo del posto, secondo i documenti dell’amministrazione francese, era ed è ancora «maître de conférences»: alla lettera «maestro conferenziere», equivalente del nostro professore associato. Quell’anno, circostanza eccezionale, tutti i posti messi a concorso all’EHESS erano stati vinti da donne: oltre a me, filosofa, una storica, una sociologa, un’economista. Pochi giorni dopo la proclamazione dei risultati, ricevetti una mail delle mie tre future colleghe che, come iniziativa politica, proponevano all’istituzione di poter sostituire ufficialmente il nostro titolo con il femminile grammaticale, peraltro già esistente, del termine «maître»: «maîtresses de conférences». La mia reazione fu di orrore: la parola «maîtresse», in francese, è priva dei sottintesi da bordello che le associamo noi italiani, ma si è impregnata nell’uso di una serie di rappresentazioni svilenti, dalla maestrina all’amante illegittima. Senza pensarci troppo, risposi alle colleghe elencando in modo confuso le obiezioni fornitemi da una collega dell’EHESS, la sociologa Nathalie Heinich, tuttora avversaria della lingua inclusiva (le sue posizioni sono pubbliche, e il nostro carteggio è stato diffuso in una cerchia di persone interessate): tra di esse l’idea che esisterebbe in francese un genere neutro, valido per le professioni e i funzionari dello stato ma non per i mestieri (l’equivalente in italiano: cuoca e maestra sì, ma non sindaca e ministra). Con questo argomento classista, di cui ancora mi vergogno, meritai la mia condanna: le colleghe me lo rimproverarono malignamente, ricordandomi che il neutro in francese non esiste e che il mio comportamento era un sintomo da manuale di sottomissione simbolica.

 

Avrei potuto offendermi o percepire il ricatto che le femministe tiepide spesso rimproverano alle più radicali. E invece mi lasciai convincere, anche se solo più tardi ho elaborato articolate ragioni teoriche. Ho accettato di definirmi «maîtresse» per solidarietà di genere e per sperimentalismo politico, forte del fatto che il francese fosse già per me una lingua artificiale, acquisita tardivamente con l’esercizio e con lo sforzo. Tanto valeva sforzarmi per una parola in più: mi consolavo all’idea che avrei sofferto del ridicolo meno di una madrelingua. A qualche anno di distanza posso dire che le mie colleghe hanno avuto un’idea tanto semplice quanto intelligente. Il numero di persone che hanno storto il naso o fatto battute è irrisorio, e si è trattato perlopiù di uomini anziani – per molti giovani la questione sembra scontata. Ormai, quasi tutte le insegnanti dell’EHESS hanno femminilizzato il titolo, tanto che la nostra università è diventata un modello di riferimento[5] e si è creata un’onda di emulazione positiva: oggi le «maîtresses de conférences» si moltiplicano testimoniando l’esistenza di una generazione di universitarie che, per farsi prendere sul serio, non ha più bisogno di mimetizzarsi nell’habitus maschile e nel suo mito della falsa neutralità. Queste donne rivendicano orgogliosamente la loro presenza sociale e – aspetto decisivo – segnalano con il loro nome una piccola ma significativa rottura: l’intenzione di interpretare il ruolo dell’insegnante-ricercatrice con uno stile diverso, un habitus nuovo.

 

Insomma, ho sperimentato su me stessa la plasticità delle abitudini e del linguaggio. Spesso la facilità del cambiamento è proporzionale alla riluttanza che si prova davanti alla possibilità di cambiare. Ovviamente non tutte le riforme linguistiche hanno la stessa legittimità e possono risolversi con tanta scioltezza; è importante tener conto della distanza che separa la femminilizzazione di un sostantivo dall’introduzione di simboli strani “out of the blue”. Ma ogni tanto bisogna dare la parola anche all’avvocato, anzi, all’avvocata del diavolo. Ecco come nascono queste considerazioni in favore delle azioni, e prima ancora dello spirito della lingua inclusiva.

 

Manuali di civiltà

 

Comitati per la parità e linee guida per la comunicazione priva di stereotipi di genere esistono anche nelle università italiane. Parlerò tuttavia solo del caso francese perché è quello che conosco per esperienza diretta. In Francia, alle pubblicazioni militanti di linguistica e storia della lingua si affiancano manuali approvati da commissioni governative[6], e dedicati (almeno a mia conoscenza) solo alla parità donna-uomo. Partendo dal principio che le istituzioni, in primo luogo lo stato e la scuola, svolgano un ruolo cruciale nel legittimare e riprodurre l’ordine simbolico, le esortano a badare a come scrivono e parlano, e forniscono modelli per farlo in modo più egualitario. È da uno di questi manuali, assai ben fatto, che trarrò gran parte dei miei esempi[7].

 

La lingua inclusiva si definisce come «l’insieme di attenzioni grafiche e sintattiche che cerca di garantire un’equa rappresentanza dei due sessi. Le proposte si fondano sul lavoro congiunto di esperti e ricercatori in linguistica e storia della lingua e, come spiegano gli autori del mio manuale di riferimento, «mirano a fornire gli strumenti per una trasformazione della scrittura istituzionale a favore della parità di genere». I manuali sono destinati a tutto il materiale scritto di cui le istituzioni sono firmatarie: e-mail, siti web, circolari, bandi, documenti interni, ma chiunque può cercarvi ispirazione anche per la comunicazione personale. Inoltre, si sottolinea con modestia, l’approccio rimane esplorativo, aperto a critiche e nuove proposte.

 

L’obiettivo della scrittura inclusiva consiste nel restituire la presenza femminile all’interno della lingua, non solo per garantire astrattamente la rappresentanza di genere ma per modificare in modo concreto le rappresentazioni e le pratiche sociali. Una lingua che rende le donne più percepibili, rendendo conto della loro esistenza, trasforma il paesaggio sociale, dando alle donne maggiore potere di agire, stimolando le loro capacità, incoraggiando le bambine a crescere in un ambiente linguistico che le fa sentire meno sminuite, più riconosciute. I fondamenti impliciti di questo approccio sono quelli del potere simbolico. Il linguaggio è politico perché non solo riflette passivamente ma plasma attivamente il nostro modo di pensare e di costruire il mondo. La lingua delle società patriarcali, inflessa verso il genere maschile, ci dice che le donne hanno meno valore degli uomini e svolgono un ruolo secondario[8]. Viceversa, la lingua inclusiva ha un effetto correttivo sulle disuguaglianze, comprese quelle materiali: è stato provato che influenza i nostri processi cognitivi ed è una potente leva per la femminilizzazione della forza lavoro. Le organizzazioni e le istituzioni che la adottano dichiarano pubblicamente che il posto delle donne è stato pensato ed elaborato al loro interno; mentre le lavoratrici rispondono molto più numerose alle offerte formulate anche al femminile. Uno studio citato nel manuale mostra come l’uso del maschile generico non venga percepito come neutro dai parlanti perché, a livello mentale, attiva meno rappresentazioni femminili di un termine epiceno o di un doppio accordo[9]. È molto probabile, insomma, che se fermate una persona per strada e le chiedete di citare uno scrittore italiano famoso all’estero o uno sportivo italiano di livello mondiale, non risponda Elena Ferrante o Federica Pellegrini; ci sono più probabilità che lo faccia se riformulate la domanda in modo inclusivo: «mi citi uno scrittore o una scrittrice» o «una figura eccezionale dello sport». È un riflesso che ci sembra innocuo, ma se lo trasponiamo ai contesti di lavoro o alla scuola può comportare effetti di grave autocensura.

 

Le proposte fondamentali del manuale sono tre:

 

1) Accordare al femminile i nomi di mestieri, professioni, titoli e gradi. Vengono fornite ricchissime liste che suggeriscono desinenze grammaticalmente corrette o possibili (in alcuni casi, come per autrice auteure o chercheure o chercheuse esistono opzioni diverse e sarà la selezione natural-sociale a decidere quale si affermerà).

 

2) Evitare l’antonomasia dei sostantivi comuni «Donna» e «Uomo», e scrivere piuttosto «l’essere umano», «l’umanità», ecc.

 

3) Usare femminili e maschili nel modo più equilibrato possibile, attraverso alternanze, elenchi in ordine alfabetico, l’uso di termini epiceni, il ricorso giudizioso al punto mediano.

 

Il punto mediano è una soluzione pratica, discreta ed economica: dal momento che in francese gli articoli al plurale non prevedono accordi di genere, si tratta di modificare solo i sostantivi. Non richiede altro impegno che l’acquisizione di un nuovo automatismo nel digitare il simbolo (sulla tastiera italiana del mio Mac, option + freccia + punto) e della relativa, facile abitudine di lettura: posso testimoniarlo perché lo uso sia per gestire il mio incarico ministeriale, sia nella comunicazione scritta con studenti e studentesse, che, a ennesima conferma della dimensione generazionale del problema, tengono moltissimo a queste attenzioni simboliche e le applicano meticolosamente nei loro scambi reciproci. Malgrado la diffusione ormai massiccia del punto mediano, i manuali non cessano di ricordare che si tratta di una pratica facoltativa, di cui fare un uso limitato proprio nell’interesse della scrittura inclusiva: sia perché l’introduzione di nuove convenzioni rischia di escludere senza volere altre categorie di lettori (le persone anziane o ipovedenti, ad esempio), sia i perché il pubblico tende a percepirlo, e dunque a rifiutarlo, come artificioso.

 

Quando ho ricevuto il manuale attraverso la lista della CPED sono rimasta sedotta dalla forza delle ragioni e dalla praticità delle proposte. L’ho diffuso con entusiasmo nella mia cerchia filosofica e letteraria: la “foire aux arguments” che completa il volumetto (p. 19), fornendo come una serie di cartucce pronte all’uso le obiezioni da rivolgere a chi rifiuta la lingua inclusiva, è formidabile. Ho presentato le proposte del manuale al Consiglio scientifico dell’EHESS, che ha accettato di adottarle per la comunicazione esterna ed interna – progressivamente e nel rispetto dei tempi di assimilazione da parte del personale, soprattutto quello amministrativo, che rischia di veder accrescere il carico di lavoro. Tornando all’esempio di partenza, ora il concorso per «trois postes de maître de conférences» si annuncia con un inclusivo e sobrio: sono messe a concorso «trois maîtrises de conférences»[10]. Gli studenti e le studentesse che vogliono scrivere le loro tesi in lingua inclusiva possono farlo senza incorrere in sanzioni da parte dei relatori, ma dovrebbero impegnarsi a non rendere i loro testi illeggibili. Soprattutto, rivivendo compiaciuta la mia conversione, ho visto cedere davanti ad argomenti così razionali anche i colleghi più scettici[11].

 

Questioni di stile

 

Per ragioni che definirei di realismo politico oltre che di gusto personale – ma forse sono solo una riformatrice troppo cauta, e sul richiamo alla libertà del gusto valga il monito di Bourdieu: spesso e per lo più ci piace ciò che la società ci ha già insegnato a trovare piacevole – il mio rapporto con la lingua inclusiva è proprio quello “giudizioso” suggerito dal manuale. Del punto mediano in francese, come ho detto, faccio uso soprattutto per le comunicazioni universitarie; in italiano, non ho mai usato schwa e asterischi. In entrambe le lingue, cerco di applicare le tre convenzioni: femminilizzare i nomi, rappresentare i due generi nel modo più paritario possibile cercando perifrasi o parole epicene, evitare le antonomasie e soprattutto l’uso dell’articolo determinativo davanti ai nomi di donna (al lettore che alza il sopracciglio suggerisco di testarne l’effetto reificante sul proprio cognome). Penso che lo stile, il principio generatore di forme che nasce dall’incontro tra le risorse della lingua e la creatività individuale, possa fare le veci di codici impositivi. Percepito dalla maggioranza come una provocazione, il ricorso a simboli strani rischia di nuocere per un malinteso formale all’autorità di chi scrive e al valore dei suoi contenuti. Per chi vuole esprimersi in modo inclusivo le alternative non mancano: usare la formula “care tutte e cari tutti”; all’“uomo” sempre sostituire “l’umanità” o “l’essere umano”; alternare “individuo” e “persona”; sfruttare o ancora moltiplicare gli esempi al femminile quando la verosimiglianza storica lo permette (si possono evocare sia i lettori sia le lettrici, o illustrare casi concreti facendo riferimento – perché no? – solo a una potenziale spettatrice). I bravi traduttori già praticano questi trucchi da decenni con risultati di grande eleganza. Una volta che si sia sposata la causa ci sono mille modi, propri a ogni lingua e a ogni sensibilità individuale, di far emergere creativamente una dimensione più inclusiva nei confronti delle donne – e, come sosterrò concludendo, non solo delle donne. Recentemente, un editore italiano mi ha chiesto di provare a tradurre secondo questi criteri alcune pagine di un saggio francese scritto in forma inclusiva rigida e piuttosto pesante (ogni plurale comportava un punto mediano), cercando di preservare il più possibile l’intenzione originale: il risultato è stato soddisfacente per tutti, autore, editore e traduttrice.

 

Certo, questa apertura ottimistica deve essere temperata da molti distinguo e da alcune cautele. Bisogna intanto discernere i contesti, istituzionali, militanti, artistici, privati. Chiunque deve essere libero di esprimersi liberamente a titolo individuale, di comunicare e pubblicare nella forma che preferisce. Pretendere che Michel Houellebecq si pieghi alla femminilizzazione della lingua equivarrebbe a censurare la sua visione del mondo. Ma altri scrittori e scrittrici potrebbero trovare nello stile inclusivo un mezzo potente per far emergere nuovi e stranianti punti di vista.

Le regole però sono meno aleatorie quando si parla di istituzioni. Lo stato, l’università, i comuni, devono rivolgersi a tutti i loro membri per garantire riconoscimento e pari opportunità. Ma oltre che un gesto di rispetto, la comunicazione inclusiva è anche un modo di sollecitare un equo rapporto tra diritti e doveri. Cosa succederebbe il giorno in cui le studentesse, come in una commedia di Aristofane, decidessero di non pagare più le tasse universitarie col pretesto che, nelle enunciazioni della legge, l’obbligo riguarda solo «gli studenti»? Ovviamente non è chiaro dove comincino e dove finiscano i confini della comunicazione istituzionale, ma possiamo immaginare che l’onere spetti in primo luogo a chi occupa incarichi di responsabilità come anche a chi lavora professionalmente con la lingua: insegnanti, giornalisti e giornaliste, agenzie di comunicazione, case editrici. Questo obiettivo è perseguibile in forma scritta senza ledere la chiarezza necessaria a una comunicazione diretta ed efficace. Bisogna fare attenzione a non fare dell’argomento economico della semplicità lo scudo dell’ideologia. Gli accordi al femminile non appesantiscono i testi più delle infinite sigle e oscurità burocratiche che già li ingombrano. Un manuale di stile può insegnare a verificare la dimensione di genere dei propri messaggi attraverso una check-list di punti essenziali.

 

Quando si passa all’orale, invece, tutto si fa più complicato. Gli automatismi sono più difficili e lenti da modificare. Chi, parlando a lezione, cercasse di evitare tutti i maschili generici e altre analoghe convenzioni rischierebbe di perdere il filo del discorso – ma non farebbe molta più attenzione se si trattasse di un comizio politico o di una presentazione a clienti a fini di marketing? Senza dubbio, anche una semplice conversazione amichevole diventerebbe insostenibilmente faticosa. L’unica forza che può trasformare le pratiche quotidiane scritte e orali è l’abitudine, o più precisamente, la diffusione progressiva, paziente, costante di buone abitudini. In fondo, sono regole di civiltà che rispondono a una trasformazione sociale in atto e alle quali ci stiamo già assuefacendo per il fatto stesso di parlare e scrivere nel mondo reale. Abbiamo imparato da bambini a rivolgerci alle persone secondo le “forme”, rispettando cioè la loro età e il loro status[12]. Solo perché abbiamo incorporato l’ossequio delle gerarchie riusciamo a rivolgerci a un superiore con formule degne dell’antico regime: l’universitario che, come il ragionier Fantozzi, scrive al suo «Magnifico Rettore» non è più assurdo della professoressa che si firma «maîtresse de conférences»? Perché la lingua del potere costituito non ci sembra mai altrettanto surreale di quella che cerca di sperimentare l’uguaglianza? Vale davvero la pena fare tanto rumore se per un’esigenza di democrazia chiediamo qualche femminile in più?

 

Un ruolo speciale, infine, dovrebbe essere svolto da istanze di mediazione linguistica come la scuola, l’università, i mondi del giornalismo, dell’editoria e della comunicazione. Le situazioni in cui stare all’erta sono quelle della riproduzione culturale e della trasmissione di esemplarità: gli ordini del giornalismo potrebbero creare gruppi di discussione e stendere linee-guida professionali per un uso inclusivo della lingua. Le persone imparano a parlare non studiando le grammatiche ma leggendo i giornali e i social, replicando il linguaggio di insegnanti, genitori, influencer di vecchia e nuova generazione.

 

Parole in libertà?

 

Concludo riconoscendo i limiti del mio approccio. La versione di lingua inclusiva che ho appena difeso ignora quella che potremmo definire l’obiezione queer, in quanto non tiene in conto delle domande di inclusione avanzate dalle persone, sempre più numerose, che non si riconoscono nelle dicotomie di genere e rivendicano “identità fluide”. Qui la battaglia per la visibilità femminile lascia il campo a una questione molto più vasta, impossibile da affrontare in questa sede, ma che rappresenterebbe lo sviluppo coerente delle mie considerazioni sulla plasticità dell’umano. La ragione per soprassedere è solo di opportunità politica. L’opinione pubblica italiana resta diffidente nei confronti di ciò che suona, a torto, come una sudditanza a mode straniere (si rifletta su quanto è paternalistica questa obiezione davanti ai movimenti reali di persone reali. E ancora: l’idea della rivoluzione comunista non è arrivata a sua volta dall’estero?). Se già scrivere assessora suscita tanto fastidio, forse è meglio avanzare per timidi passi. Ma questa, appunto, è una considerazione realistica dettata della situazione attuale del nostro paese. L’obiezione teorica radicale resta del tutto valida.

 

Per questo, le sperimentazioni più provocatorie come gli asterischi (*) e lo schwa (ə) per evitare il maschile sovraesteso[13] e alludere a una terza dimensione, un neutro virtuale che oltre alle donne includa altri potenziali esclusi, mi sembrano comunque degne di interesse. Il programma di massima diventa non solo quello di rendere visibili le donne ma di riconoscere possibilità ancora aperte: contrariamente a chi sostiene che questo sia un passo indietro per il femminismo, nella scrittura come nella pronuncia dello schwa io non percepisco la cancellazione del femminile, ma sia la sua presenza sia il suo oltre. Non so se qualcuno lo abbia già evocato, ma la parentela tra il pensiero che ispira questo genere di esperimenti e la corrente filosofica conosciuta come “decostruzione” salta all’occhio: cosa c’è di più derridiano dei segni che pretendono di smantellare norme e pratiche linguistiche inveterate in nome di una differenza sconosciuta all’ordine simbolico, figlia del ritorno del represso e dell’anticipazione di un universale a venire?[14]. Soprattutto, come spiega Vera Gheno, la sociolinguista inventrice della proposta adottata dal Comune di Castelfranco Emilia, nulla vieta di sperimentare creativamente con la lingua – in luoghi oltretutto già sperimentali per definizione come i social[15]. A mio parere lo schwa, che ricorre quasi esclusivamente nei saluti, andrebbe interpretato come una formula di cortesia che mira a predisporre una modalità etica della comunicazione come già fanno, d’altronde, le formule e i rituali del riconoscimento[16]. E soprattutto vuole essere un tentativo, più o meno felice, di cercare una soluzione a un problema reale, e prima ancora di porre questo problema e di farlo conoscere all’opinione pubblica. In questi argomenti non ritrovo tanto l’ombra cupa del totalitarismo, quanto l’inventiva giocosa delle avanguardie politico-artistiche, lo Zang Tumb Tumb dei futuristi, la sfrenata immaginazione che ispirò i giacobini francesi a ribattezzare giorni, mesi e anni del calendario e prima ancora le loro nuove “persone politiche” di «citoyens» e «citoyennes». Come nel caso di questi colpi di stato linguistici, a decidere della sopravvivenza delle sperimentazioni non saranno tanto i dibattiti degli esperti quanto gli usi concreti della lingua. Molte saranno rapidamente abbandonate, e a giusto titolo, perché non funzionali, maldestre, farraginose, troppo in rottura con le vecchie abitudini se non paradossalmente esclusive, per le ragioni che ho ricordato a proposito del punto mediano francese. Ma non dimentichiamo la velocità con cui chiocciole @ e cancelletti # sono diventati parte del nostro habitus comunicativo, e non solo sui social. La lingua è plastica, e ancora più plastici sono i parlanti. Se il senso di inferiorità culturale ci ha indotti ad adottare come se niente fosse centinaia di parole inglesi, se le suggestioni pubblicitarie ci inducono a ordinare senza vergogna un “apericena”, perché non far convergere queste indomabili tendenze mimetiche verso obiettivi più giusti, valori più democratici? La politica è anche questione di influenze. Tutti sappiamo, oltretutto, che il giorno in cui Chiara Ferragni e Fedez decidessero di comunicare con * e ə sui loro social le pratiche linguistiche di milioni di persone si trasformerebbero repentinamente nel giro di poche settimane. E le storie della lingua sarebbero obbligate a prenderne atto.

 

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La società sta cambiando, e con essa cambiano i costumi, la sensibilità, i valori e le forme tradizionali del fare politica, con buona pace di chi vorrebbe continuare a vivere, e possibilmente comandare ed esercitare autorità, nelle forme di vita e di discorso che ha conosciuto da giovane. Due settimane fa sono stata invitata a un matrimonio civile queer, celebrato tra due donne, di cui una è trans. È stato tutto molto strano, come vuole la definizione di queerness, ma anche, paradossalmente, molto normale. Tornando a casa, pensavo a come sia stato semplice per me accompagnare la transizione del mio amico diventato un’amica: da anni, ormai, è a tutti gli effetti una donna, tanto per la mia percezione sensibile quanto per il mio inconscio di genere. È incredibile che non mi sia mai sbagliata una sola volta nel rivolgermi a lei col nuovo nome e i corretti pronomi, senza alcuna fatica.

 

La potenza delle abitudini è uno dei più grandi misteri dell’antropologia umana: mistero doloroso, perché scheletro di quella prigione psicocorporea che è l’habitus, fonte delle  resistenze e delle paure che ci rendono incapaci di trasformare il nostro modo di essere e quello del mondo; ma anche mistero gaudioso, come mostrano la prontezza con cui ho imparato ad amare il mio appellativo di «maîtresse» e la duttilità con cui i miei sensi, il mio cervello, le mie facoltà linguistiche si sono adattate all’improvviso cambiamento fisico e sociale di una persona in carne e ossa. La “seconda natura”, che poi non è altro che la cultura umana, è come il pongo: una pasta malleabile e persistente dalle infinite potenzialità metamorfiche. E la lingua è una delle sue dimensioni fondamentali.

 

 

Note

 

[1] https://www.cped-egalite.fr/. Sull’uso e il significato del punto mediano (chargé·es), si veda più avanti.

[2] Se la maggiore sensibilità della società francese al tema della violenza simbolica dipende forse dal fatto che si tratta di un tema privilegiato della cosiddetta French Theory (non solo Bourdieu ma anche Foucault, Lacan, Derrida), ci si potrebbe chiedere come mai Gramsci, che aveva elaborato le sue prime teorie sull’egemonia culturale a partire proprio dalla nozione di prestigio linguistico, non venga mobilitato più spesso in questi dibattiti. Si vedano gli studi di Franco Lo Piparo, tra cui il recente Il professor Gramsci e Wittgenstein. Il linguaggio e il potere, Roma, Donzelli, 2014.

[3] Cfr. Pierre Bourdieu, La parola e il potere. Economia degli scambi linguistici, Napoli, Guida, 1983; Id., Il dominio maschile, Milano, Feltrinelli, 1998; Id., Il senso pratico, Roma, Armando, 2016, il capolavoro in cui è elaborata la teoria dell’habitus.

[4] Si veda Flavio Baroncelli, Il razzismo è una gaffeEccessi e virtù del «politically correct», Roma, Donzelli, 1996. Su tutti questi problemi, Judith Butler, Parole che provocano, Milano, Cortina, 2010.

[5] Cfr. wikipedia.org/wiki/Maître_de_conférences_(France).

[6] Il manuale di riferimento della CPED è stato approvato dall’Haut Conseil à l’égalité entre les femmes et les hommes (www.haut-conseil-egalite.gouv.fr). C’è confusione tuttavia in seno alle stesse istituzioni francesi: il  Ministère de l’éducation nationale, appellandosi al parere dell’Académie française, accetta solo le meno controverse delle regole suggerite dal manuale (dissuade dall’adozione del punto mediano, su cui si veda più avanti, e prescrive soltanto la femminilizzazione di titoli e professioni): https://www.education.gouv.fr/bo/21/Hebdo18/MENB2114203C.htm.

[7] Manuel d’écriture inclusive, dirigé par Raphaël HaddadMots-Clés, 2019. Il manuale può essere consultato e scaricato qui: https://www.motscles.net/ecriture-inclusive.

[8] Per il caso italiano, Il sessismo nella lingua italiana. Trent’anni dopo Alma Sabatini, a cura di a cura di Anna Lisa Somma e Gabriele Maestri, Pavia, Blonk, 2021.

[9] Sondaggio «Harris Interactive» realizzato via internet l’11 e 12 ottobre 2017, su un campione di 1000 persone rappresentative della popolazione francese di età superiore ai 18 anni. https://harris-interactive.fr/opinion_polls/lecriture-inclusive/. Si vedano anche gli studi commentati in Il sessismo nella lingua italiana, cit.

[10] Gli equivalenti in italiano, che non mi sembrano tuttavia altrettanto felici, potrebbero essere «tre cattedre» (ma ci si aspetterebbe la specificazione «da professore associato», e si ricadrebbe nella trappola del maschile) o «tre associature».

[11] Vorrei convincere gli interessati a ribattezzare la Maison des Sciences de l’Homme (MSH) Maison des Sciences Humaines, cambiamento che non richiederebbe nemmeno la modifica dell’acronimo e del logo.

[12] Le persone più ostili alla lingua inclusiva sono spesso le stesse che si adombrano e addirittura protestano se non vengono interpellate professore, dottore. In casi simili, un’arma efficace è lo straniamento: per persuadere un giovane uomo dell’urgenza di aggiornare il suo linguaggio basterebbe appellarlo scherzosamente “signorino”. Per orientarci nelle nuove forme, oltretutto, abbiamo già ampie risorse disponibili: senza vivere con il terrore di muoverci in un campo minato, possiamo coltivare quel senso del tatto che già ci aiuta quotidianamente a non ferire le persone a cui teniamo e che rispettiamo, cercando di non ledere la rappresentazione della loro dignità.

[13] Per rivolgersi a una moltitudine mista, la norma dell’italiano prevede che, anche in presenza di un solo maschio, si adotti il maschile sovraesteso.

[14] La più famosa invenzione linguistico-concettuale di Derrida, che alla ricerca di un segno critico e inclusivo che fosse al tempo stesso interno ed esterno alla lingua scriveva «différance» – con la a, al posto della corretta «différence» – ci aiuta a decifrare il senso dello schwa: il tentativo di far parlare i subalterni e allo stesso tempo di rappresentare nuove forme di universalità. Va rilevato però che la a di différance è un segno scritto che non implica differenze fonetiche all’orale, mentre lo schwa è un segno fonetico che rende più difficile la lettura della parola, in quanto corrispondente a un suono poco familiare ai più. Come nella decostruzione di Derrida, l’aspetto più delicato è poi la critica della concezione strutturalista della lingua, di ispirazione saussuriana, che fonda l’ordine del mondo su un sistema di contrapposizioni binarie. Lo stesso problema si pone nei confronti dell’antropologia: non è un caso che gli antropologi francesi di ispirazione strutturalista siano i più ostili alla ridefinizione del sistema binario dei generi.

[15] https://www.micromega.net/vera-gheno-intervista-schwa/.

[16] Lo riconosce anche Cecilia Robustelli, autrice di linee guida per la comunicazione istituzionale inclusiva ma critica verso lo schwa. https://www.micromega.net/schwa-problemi-limiti-cecilia-robustelli/. «Se proprio si vuole usare lo schwa, se ne limiti l’uso alle formule di apertura del discorso, che diventerebbero innocue frasi cristallizzate». Il fatto è che queste frasi sono tutt’altro che “innocue”, in quanto forniscono il quadro etico-rituale della convivenza umana: Erving Goffman, Il rituale dell’interazione, Bologna, Il Mulino, 1988.


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