01 settembre 2019

IL CINEMA AMATO DA LILIANA CAVANI






Liliana Cavani: «Io, il sesso e le tante censure. In Italia aprirei solo scuole». Un'intervista di Giuseppina Manin



«Fosse per me in Italia farei solo scuole. Scuole, scuole, scuole... Il bene primario, ma da noi nessuno se ne occupa. Se si vuol far crescere un Paese è lì che bisogna investire. Il sapere è l’unica garanzia di progresso, civiltà, benessere. Altrimenti vinceranno “gli altri” quelli che ragionano non con la testa ma con le armi». Liliana Cavani, 86 anni di battaglie, di cinema e di vita, guarda dritta al futuro. E il futuro per cui val la pena di esistere e sognare per lei comincia dalla materia prima per diventare cittadini, l’educazione. «Va difesa, bisogna ridarle peso e qualità, approfondire la conoscenza del passato. Altro che tagliare storia e storia dell’arte! E poi, sostenere gli insegnanti, così vilipesi e sottopagati».

Da come ne parla, a lei la scuola ha dato molto.
«Non sono stata un’alunna modello. Ho cominciato male, alle elementari a Carpi, dove sono nata, finivo spesso in castigo. Tutto è cambiato al liceo, a Modena. Ottima scuola, professori che mi hanno fatta innamorare di greco, latino, filosofia. E poi Lettere Antiche a Bologna, avrei voluto fare archeologia ma non conoscendo il tedesco... Mi laureai in Filologia linguistica, tesi sul dialetto della mia regione».

A Carpi è rimasta sempre legata.
«Tutto è cominciato lì. I miei genitori si sono separati presto, mio padre è sparito, non porto neanche il suo cognome. Non l’ho voluto. E la mamma era un po’ naif, spesso in Liguria per sospetta Tbc, quando tornava a Carpi mi portava al cinema. Sono cresciuta con i nonni e gli zii, in modo laico e libertario. La passione per la politica, il gusto per la ribellione li ho respirati in quella famiglia della Romagna di una volta, il nonno anarchico e sindacalista, la zia Delfina discriminata a scuola perché si rifiutava di indossare la divisa del fascio, la nonna che appoggiava la Resistenza. Ero bimbetta quando vidi in corridoio una borsa piena d’uva, mi avvicinai per piluccare qualche acino, scoprendo nascoste sotto i grappoli delle bombe. Intanto in cucina la nonna stava discutendo con due partigiani, loro volevano sgozzare due prigionieri tedeschi, lei insisteva per un giusto processo».

Clima rovente, aveva paura?
«Ma no! Il paese era piccolo e diviso in due. Tutti sapevano che noi eravamo contro i fascisti, tutti sapevano che il nostro vicino di casa era un fascistone. Eppure mia nonna era molto amica di sua madre, la difendeva, “non ha colpa se il figlio è uno squadrista” diceva. I valori erano opposti, si è sfiorata la guerra civile, ma ci si parlava. Una tolleranza oggi perduta, con così tanta gente piena di odio, incarognita a difendere il proprio piccolo castello».

Quella visione di stampo sociale l’ha segnata per sempre?
«Mi ha dato le ali per volare senza tema. Mio nonno, tra una boccata e l’altra di toscano, ogni tanto mormorava convinto “Eppur si muove”. Una frase che mi tornò buona quando girai Galileo. Suggerii a chi lo interpretava di avere, al momento dell’abiura, quell’espressione di certezza».

«Galileo» girato nel ‘68, vietato ai 18 anni, mai visto in tv...
«Troppo anticlericale dicevano allora. E anche dopo visto che né Rai né Mediaset l’hanno mai mandato in onda».

La sua prima censura per un eretico. Ma anche il santo Francesco d’Assisi non ebbe vita facile.
«Non piacque che a interpretarlo fosse Lou Castel, reduce dai Pugni in tasca di Bellocchio dove faceva fuori tutta la famiglia. Ci fu un’interpellanza parlamentale, il patrono d’Italia non poteva avere quella faccia. Ma io volevo raccontare un ribelle, mica un santino».

Fu il suo film d’esordio, come riuscì a realizzarlo?
«Grazie alla Rai di un tempo. Dopo la laurea ero venuta a Roma, tentai il concorso Rai: 11mila partecipanti per 30 posti. Prova finale sul Wilhelm Meister di Goethe. Oggi sa di fantascienza, ma anche allora non è che l’avessero letto tutti. Per caso io sì, comprato su una bancarella pochi giorni prima, edizione Bur. Passai l’esame. Iniziai con dei documentari, il Terzo Reich, le Donne della Resistenza... Poi mi capita in mano un altro libro, la Vita di Francesco di Paul Sabatier, storico eretico messo all’indice dalla chiesa. Vado da Angelo Guglielmi, gli dico che voglio farne un film. L’idea gli piace ma bisognava trovare i soldi. Gli viene in mente un giovane, Leo Pescarolo: “Mangiamo una pizza con lui”. Pescarolo, simpatico e pure bello, voleva iniziare la carriera da produttore. Il suo primo film fu il mio. Partii per l’Umbria, cinepresa a mano, troupe di 7-8 persone, ma con un gigante delle luci come Domizio Ercolani. Abbiamo girato in povertà davvero francescana. Costo totale 30 milioni».

Soldi ben spesi, il film andò dritto al festival di Venezia.
«Era il ‘66, Rossellini vi portava La presa del potere da parte di Luigi XIV. I critici decisero che il suo e il mio erano i due film più belli della Mostra. Ci intervistarono insieme come il maestro e l’allieva. Alloggiavo al Des Bains, mi sentivo chissà chi...».

Trasmesso in due puntate, Francesco fu visto da oltre 20 milioni di spettatori.
«La prima mini-serie Rai! Un successo che mi permise di andare avanti nella mia indagine, di girare un secondo (con Mickey Rourke) e poi un terzo film, sempre su Francesco. Così avanti nei tempi per il suo amore per la natura, la sua idea di fraternità, ben più interessante dell’uguaglianza della sinistra. Non si può essere uguali, ma fratelli sì».

Bollata come cattolica dai comunisti, estremista dai democristiani, messa al rogo dai benpensanti per «Il portiere di notte», film-scandalo degli anni Settanta.
«Non era mia intenzione. Il tema, una donna scampata a un lager che ritrova il suo aguzzino e inizia con lui un rapporto sado-maso, era disturbante. Ma lo spunto era reale. Anni prima una signora della Milano borghese sopravvissuta a Auschwitz mi aveva confidato di una relazione oscura nata lì, che le aveva permesso di salvare la vita ma l’aveva lasciata morta dentro. Il Portiere è nato così. Da quel legame melmoso vittima-carnefice, metafora di tanti conflitti irrisolti. Dirk Bogarde e Charlotte Rampling hanno saputo interpretarlo con la dolorosa ambiguità necessaria. Quando il film uscì in Francia, Le Nouvel Observateur parlò de Il portiere “della” notte, il custode delle tenebre che hanno generato fascismo e nazismo. L’irrazionalità e la paura in cui l’Europa è tuttora immersa».

All’estero si accesero dibattiti sul nazismo sommerso, in Italia la censura vide il sesso...
«Fu ritirato tre volte. Poi vietato ai minori di 18 anni. Quando chiesi a uno della commissione di censura il perché di quel divieto, mi rispose: “Perché c’è una scena erotica dove la donna sta sopra l’uomo”. Restai di stucco. Trovai solo la forza di mormorare: “Beh, capita”».

Cosa è stato il cinema per lei?
«Una passione e una salvezza. Lavorare con una troupe è difficile, ma trovi sempre gente animata dal desiderio. Il cinema salva dal pessimismo».

Vale anche per il teatro e la lirica?
«Certo. I meccanismi sono gli stessi. L’opera mi coinvolge, mi emoziona, ne ho dirette tante... La Traviata realizzata anni fa per la Scala è diventata uno spettacolo-simbolo, l’anno prossimo la porteranno in Giappone per le Olimpiadi».

Il cinema italiano di oggi?
«Mah, mi pare che si occupi solo di mafia. Film, serie tv, traboccanti di malavitosi violenti, volgari... Dicono che è denuncia. A me sembrano solo pessimi modelli da proporre ai giovani. Sono così contraria a questo genere di film che, pur amandolo moltissimo come attore, non ho perdonato a Brando di aver offerto il suo talento al Padrino».

E il cinema italiano di ieri?
«Il più grande è stato De Sica. Dovessi salvare un film dall’apocalisse non avrei dubbi, L’oro di Napoli. Dentro c’è tutta l’Italia. Non ho mai incontrato De Sica ma amo ogni suo film, li proiettavo al cineclub che tenevo a Carpi».

Ora i cineclub sono quasi spariti e i grandi film del passato non li conosce nessuno.
«Andrebbero insegnati a scuola! Se non hai visto tre De Sica, tre Bergman, tre Fellini, non puoi dire di amare il cinema. I cineclub spariscono? Fossi sindaco, li darei da gestire agli anziani. I cinema di quartiere dei nonni per far scoprire i capolavori del passato ai nipoti».

E lei, quale film vorrebbe ancora realizzare?
«Le idee sono tante... Avevo in mente un film sul Bosone di Higgs, le nuove frontiere della fisica sono più affascinanti di qualsiasi fantascienza. Se il tempo non esiste non esiste neanche la morte... Non finisce nulla, si cambia! La nuova fisica è come la fede, ti dà speranza di continuare a vivere in altri modi... E la speranza è la virtù più civile che ci sia. Ma questo ai produttori fa sbarrare gli occhi. Adesso ho pronta una storia dei nostri giorni che riunirà due attori a me cari, Charlotte Rampling e Mickey Rourke. Ho finito di scrivere il copione, vediamo se riuscirà a andare in porto».

Corriere della Sera, 8 luglio 2019

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