30 marzo 2020

NON ABBIAMO ASCOLTATO IL GRIDO DEI POVERI





"non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti, pensando di rimanere sempre sani in un mondo malato

(Papa Francesco, marzo 2020)

26 marzo 2020

RIPORTIAMO A CASA I NOSTRI VECCHI




Ripropongo di seguito un bel pezzo di Concita De Gregorio, pubblicato oggi su LA REPUBBLICA, che dovrebbe far riflettere tanti. 

 Morire da soli
L’epidemia ci espropria anche del lutto il rito che ci rende umani
di Concita De Gregorio

Quando eravamo bambini, nell’altro secolo, si chiamavano ospizi. I ragazzi andavano in collegio e i vecchi all’ospizio quando e perché erano soli al mondo. Orfani, i ragazzi. Senza famiglia i vecchi — oppure, nei due casi: molto poveri. Facevano paura, i collegi e gli ospizi, ed erano nel lessico famigliare una minaccia o uno stigma. Ti mando in collegio. L’hanno messo all’ospizio. Quando eravamo bambini nessuna famiglia avrebbe messo un nonno all’ospizio se non fosse stato per una rovina improvvisa una sciagura, la miseria. Vergognandosene, in ogni caso, come di una disgrazia. Le case, nell’altro secolo, erano grandi come i cuori e semmai se ne andavano i nipoti, non i nonni. C’era più tempo, c’era chi lavorava solo a casa — le donne, di solito — o lavorava due volte: a casa e nei campi, a casa e in fabbrica, a casa e a scuola, solo di mattina. Le donne, ancora. Per qualcuno era meglio, per altri era peggio: era diverso, era così. Poi gli ospizi sono diventati “case di cura” o di “riposo” — il potere edilizio delle parole, che costruiscono la realtà — hanno messo i fiori alle finestre, la musica nelle sale comuni, gli infermieri sorridenti e grazie al denaro hanno smesso di fare paura. Non più cosa da poveri, i ricoveri migliori riservati ai più ricchi. Si sono chiamate Residenza Borromea, I Glicini e Villa Celeste, sono arrivati nelle case i depliant con le rette, sovente molto alte, del resto giustificate dal servizio offerto. Per la musica in camera un extra. Nell’alternativa fra pagare badanti e infermieri e trasferire i nonni in una “bellissima stanza” la soluzione migliore, diciamo così, la meno onerosa è diventata questa. Il miglior prezzo della nostra assenza.
A Mombretto di Mediglia, in provincia di Milano, di centocinquanta anziani ricoverati a “riposare” in Villa Borromea ne sono morti cinquantadue. A Mortegliano la casa di cura locale è diventata il maggior focolaio della provincia di Udine e del Friuli intero. Don Rafael Garcia, 89 anni, è fuggito dalla Residenza Loreto di Madrid (anche residenza è termine utile a mettere gli animi in maggior pace) quando ha capito che sei dei suoi compagni di corridoio erano morti. Ha chiesto a un infermiere, ha fatto la borsa in silenzio, è uscito a piedi.
Se qualcosa ci sta dicendo, in questo ridisegnarsi dell’ordine delle cose, che tornino a far paura i luoghi dove mettiamo i vecchi di cui non ci possiamo occupare — gli ospizi, le moderne case di cura trasformate ora in lazzaretti — è materia per fini analisti. Postuma la storia dirà. Nella cronaca, si legge, figli e nipoti di nonna Palmira protestano e minacciano ritorsioni per il fatto di non essere stati avvisati per tempo, al telefono, del pericolo che la generatrice dell’intera famiglia stava correndo. Essendo altrove, non sapevano. Nonna Palmira, o Cesira, o nonno Adelmo eppure avevano il telefonino. Potevano avvisare. Se non lo hanno fatto è perché non sono stati informati del pericolo per tempo — l’accusa. O forse non hanno chiamato perché non volevano preoccupare figli e nipoti così impegnati, può anche darsi, si immagini l’ipotesi: hanno da fare, non possono venire, non dica loro niente, infermiera. Sto bene.
Liliana Segre — tornata viva dai campi di concentramento a raccontarceli — ha detto che la paura più grande, oggi, è morire da soli. De Andrè cantava che quando si muore si muore da soli, ed è anche questo vero. Ciascuno di noi ha esperienza, se ha il privilegio di averla, di aver accompagnato oltre confine una persona amata che nell’ultimo respiro non ha detto il nome di chi gli teneva la mano, ha detto: mamma. Il rimpianto di non esserci, di non esserci stati in quel momento, è cosa dei vivi: il peggior rammarico. I morenti, nel varcare la soglia, succede che siano già con chi pensano di raggiungere — madre, moglie, figlio — di questo, speriamo, nel sospiro di quell’attimo lieti. Ma non sappiamo, immaginiamo.
La tragedia più grande, in questa grande tragedia, sono le morti solitarie. Decine, centinaia. I carri scortati dai militari. A Ferrara sono arrivate venti bare, ieri, da Bergamo: seppellite tutte insieme senza nessuno a salutare, con il Silenzio suonato dal megafono su base registrata nel deserto del cimitero monumentale. Chi erano, non sappiamo. Forni crematori con due settimane di lista d’attesa, i corpi nudi avvolti nelle lenzuola. Non poterli vestire. Non potergli mettere gli abiti che amavano, o che ci sembrano opportuni — i più propri per loro. In alcune tradizioni i morti si truccano. Tanoesteta, si chiama chi lo fa. In un film bellissimo e premiato, Departures, restituire al morto il volto che aveva da vivo è un rito indispensabile. Perché i morti sono irriconoscibili, se avete avuto il dono terribile di averne accompagnato uno lo sapete, privati dello sguardo siamo solo maschere di cera.
Il rito del funerale, anche questo ci manca. Perché nei funerali scorre davanti la vita intera. Che peccato non poterci essere da vivi: gli amici di quando eravamo ragazzi, la vecchissima maestra, gli amori amati e da un certo momento disamati, chissà perché. Chi siamo noi, senza il rito che ci consacri umani. E tutti, tutti conosciamo in questi giorni il dolore innominabile di non poter viaggiare a salutare l’immenso amico — Gianni, un calice di rosso superbo — il padre di un altro nella cui casa siamo cresciuti, il nostro. Franco Arminio, poeta, propone di dedicare cinque minuti alla celebrazione del lutto. Accanto ai canti dai balconi, che già un poco scemano nell’abbrivio della rabbia, cinque minuti a mezzogiorno di domenica 29 marzo: in tutte le case, un raccoglimento corale senza tv senza telefono senza computer, bello sarebbe che restasse in silenzio anche la tv — dice — che il governo sentisse il dovere di dire sì, facciamolo insieme. Per i funerali che non si possono celebrare, per i morti che non si possono seppellire, per loro che vanno — da soli, nudi — e per noi che restiamo. Anche, soli. In qualche modo nudi. Qualche anno fa, a Stromboli, durante una magnifica festa di teatro, ho visto un attore dire al pubblico venite a dirmi all’orecchio il nome dei vostri morti, li custodirò per voi. Era nel cimitero sulle pendici del vulcano, pieno di bambini e di vecchi uccisi dalla peste dell’altro secolo, quello in cui I Glicini non c’erano. Ho visto piangere lui, e tutti quelli che in fila andavano a dire al suo orecchio un nome. Dunque sì. Ci serve il rito. E’ indispensabile. Ci serve il teatro per celebrarlo. Usiamo i nostri balconi, in assenza di un palco: le nostre finestre. E diciamo al cielo, ciascuno, piano, quel nome. Domenica a mezzogiorno va bene, ma poi va bene sempre. Importante è farlo. Diamo un posto a tutto questo dolore, perché solo se glielo diamo insieme potremo sopportarlo. E chi scappa dagli ospizi, come don Rafael, speriamo che non incontri nessun posto di blocco. Riportiamo i nostri vecchi a casa, riprendiamoli — nel modo che si può. In ogni modo.
Concita De Gregorio
LA REPUBBLICA



25 marzo 2020

STENDHAL SULLE MENZOGNE DEGLI STORICI








"Quando si vuol conoscere la storia d'Italia, bisogna prima di tutto evitar di leggere gli scrittori generalmente approvati: in nessun paese è stato meglio conosciuto quale valore ha la menzogna, in nessuno essa è stata meglio pagata."

 (Stendhal, La badessa di Castro in Cronache italiane)

23 marzo 2020

IL RISCHIO DELLA DECIMAZIONE DI UNA GENERAZIONE





Ieri il Presidente della nostra Repubblica, meno diplomatico del solito, con riferimento alla pandemia in corso, ha parlato del rischio di "decimazione di una generazione". 
L' allarme di Mattarella merita un'attenzione maggiore da parte di tutti. (fv)

21 marzo 2020

UNA TRISTE PRIMAVERA







Mi adagio nel mattino
di primavera. Sento
nascere in me scomposte
aurore. Io non so più

se muoio o se rinasco.

Sandro PENNA

18 marzo 2020

LA CULTURA CHE MANCA OGGI









Ecco la cultura che manca oggi:

 "Non più una cultura che consoli nelle sofferenze ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini." (Elio Vittorini)

CHISSA' DOVE CI INCONTREREMO ANCORA







Versa dell'altro vino e rimani
non aver fretta d'andare via
Di tre parti si compone primavera:
due parti sono di tristezza
la terza parte di vento e di pioggia


I fiori sbocciano, i fiori muoiono:
nessuno arriva molto lontano -
allora smettila di lamentarti
ma canta ad alta voce:
Chissà dove ci incontreremo ancora
l'anno venturo al tempo delle peonie.


Ye Qingchen
XI ° secolo

15 marzo 2020

M. GUALTIERI, Ci dovevamo fermare ...














Questo ti voglio dire
ci dovevamo fermare.
Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti
ch’era troppo furioso
il nostro fare. Stare dentro le cose.
Tutti fuori di noi.
Agitare ogni ora – farla fruttare.


Ci dovevamo fermare
e non ci riuscivamo.
Andava fatto insieme.
Rallentare la corsa.
Ma non ci riuscivamo.
Non c’era sforzo umano
che ci potesse bloccare.


E poiché questo
era desiderio tacito comune
come un inconscio volere -
forse la specie nostra ha ubbidito
slacciato le catene che tengono blindato
il nostro seme. Aperto
le fessure più segrete
e fatto entrare.
Forse per questo dopo c’è stato un salto
di specie – dal pipistrello a noi.
Qualcosa in noi ha voluto spalancare.
Forse, non so.


Adesso siamo a casa.

È portentoso quello che succede.
E c’è dell’oro, credo, in questo tempo strano.
Forse ci sono doni.
Pepite d’oro per noi. Se ci aiutiamo.
C’è un molto forte richiamo
della specie ora e come specie adesso
deve pensarsi ognuno. Un comune destino
ci tiene qui. Lo sapevamo. Ma non troppo bene.
O tutti quanti o nessuno.


È potente la terra. Viva per davvero.
Io la sento pensante d’un pensiero
che noi non conosciamo.
E quello che succede? Consideriamo
se non sia lei che muove.
Se la legge che tiene ben guidato
l’universo intero, se quanto accade mi chiedo
non sia piena espressione di quella legge
che governa anche noi – proprio come
ogni stella – ogni particella di cosmo.


Se la materia oscura fosse questo
tenersi insieme di tutto in un ardore
di vita, con la spazzina morte che viene
a equilibrare ogni specie.
Tenerla dentro la misura sua, al posto suo,
guidata. Non siamo noi
che abbiamo fatto il cielo.


Una voce imponente, senza parola
ci dice ora di stare a casa, come bambini
che l’hanno fatta grossa, senza sapere cosa,
e non avranno baci, non saranno abbracciati.
Ognuno dentro una frenata
che ci riporta indietro, forse nelle lentezze
delle antiche antenate, delle madri.


Guardare di più il cielo,
tingere d’ocra un morto. Fare per la prima volta
il pane. Guardare bene una faccia. Cantare
piano piano perché un bambino dorma. Per la prima volta
stringere con la mano un’altra mano
sentire forte l’intesa. Che siamo insieme.
Un organismo solo. Tutta la specie
la portiamo in noi. Dentro noi la salviamo.


A quella stretta
di un palmo col palmo di qualcuno
a quel semplice atto che ci è interdetto ora -
noi torneremo con una comprensione dilatata.
Saremo qui, più attenti credo. Più delicata
la nostra mano starà dentro il fare della vita.
Adesso lo sappiamo quanto è triste
stare lontani un metro.


Mariangela Gualtieri

13 marzo 2020

ONESTA' E SOBRIETA'






Oggi sono necessarie, più che mai, onestà e sobrietà. Mi tornano alla mente le parole di Gramsci:



"Tutti i più ridicoli fantasticatori che nei loro nascondigli di genî incompresi fanno scoperte strabilianti e definitive, si precipitano su ogni movimento nuovo persuasi di poter spacciare le loro fanfaluche. D’altronde ogni collasso porta con sé disordine intellettuale e morale. Bisogna creare uomini sobri, pazienti, che non disperino dinanzi ai peggiori errori e non si esaltino a ogni sciocchezza. Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà." (A. Gramsci, Quaderni del carcere )

VOGLIA DI NOTTE. Il romanzo inedito di PINO BATTAGLIA







Negli ultimi mesi dell'anno scorso è stato finalmente pubblicato un racconto inedito del poeta di Aliminusa. Nelle pagine palermitane de La Repubblica, oggi ne parla Salvatore Ferlita. Di seguito potete leggere l'articolo.(fv)



Il romanzo di Battaglia il poeta che cantò le lotte dei contadini
Amato da Sciascia, citato da Pasolini, l’autore di Aliminusa morto nel ’ 95 torna il libreria con " Voglia di notte": storia picaresca di latifondo ed eros.
I suoi versi dialettali più incontaminati di quelli di Buttitta piacquero anche a De Mauro e a Nigro La storia erotica di un barone e la moglie
di Salvatore  Ferlita

«Tra i giovani ricordo soltanto un ragazzo palermitano, di vent’anni, che ha pubblicato un esiguo libro in versi siciliani con la prefazione di Leonardo Sciascia»: a evocare il ventenne in questione, il poeta di Aliminusa Giuseppe Giovanni Battaglia, è niente meno che Pier Paolo Pasolini, intervistato nei primi anni Settanta da Enzo Golino sul rapporto tra nuove generazioni e dialetto. È il solito Sciascia a mettere il romanziere e cineasta friulano sulle tracce di Battaglia: allo scrittore di Racalmuto infatti si deve la presentazione appassionata a " La piccola valle di Alì" (Fausto Flaccovio 1972), raccolta che rifonde la prima silloge dell’autore, ossia " La terra vascia" del 1969, che recava l’imprimatur di Ignazio Buttitta. Di lì a breve, quasi a passarsi il testimone, di Battaglia si occuperanno Tullio De Mauro, Salvatore Silvano Nigro e Giovanni Ruffino, estensori rispettivamente delle prefazioni a "Campa padrone che l’erba cresce" ( 1977) e a " L’ordine di viaggio" (1982 e 2005). Ma nonostante tale pedigree esegetico, da far tremare le vene ai polsi di critici e linguisti, Giuseppe Giovanni Battaglia rimane confinato in una sorta di limbo, letto e stimato da un gruppo sparuto di sodali. Tra questi, vero e proprio sacerdote della sua memoria, il pittore Vincenzo Ognibene, amico fraterno di Battaglia, instancabile animatore di iniziative editoriali.
L’ultima riguarda la pubblicazione dell’unico romanzo del poeta di Aliminusa, ossia " Voglia di notte" ( edizioni Arianna, 152 pagine 13 euro). Ma prima di illustrare le sorprendenti peculiarità di quest’opera testamentaria appena uscita, vale la pena di ricostruire le tappe biografiche di Battaglia e il suo percorso artistico, per dar conto di una parabola originalissima e bruciante. Egli infatti attraversò il cielo letterario isolano alla stregua di una meteora: nato nel 1951 ad Aliminusa, si iscrive alla facoltà di Lettere a Palermo senza mai laurearsi e nel 1975 entra alla Camera del Lavoro, avvia l’attività sindacale e collabora con la rivista "Sindacato". Questo dato biografico è legato a doppio filo alla sua produzione in versi, al centro della quale troviamo Aliminusa, paese di contadini, caratterizzato dalla rudimentalità delle colture, dalla povertà dei mezzi . Una realtà agraria arretrata ( che dispone di un unico, vero possesso: il dialetto e la memoria ancestrale) e segnata tragicamente dalla fine della civiltà contadina. Da un lato, dunque, il sogno della terra che anima i contadini siciliani, che li spinge all’occupazione; dall’altro, la resistenza del blocco agrario-mafioso, durissima, che si traduce in una repressione violenta. Ne deriva una vera e propria guerra civile: a farne le spese saranno sindacalisti e braccianti agricoli.
Tutto questo diventa, tra le mani di Giuseppe Giovanni Battaglia, dolorosa materia poetica che prende forza in un dialetto terragno, « integrale, incontaminato, ancestrale » (Nigro), agli antipodi rispetto a quello italianizzante di Buttitta. « La terra ia vascia, / vascia Signuri, / e si zappa calatu; / suduri e suduri / ca ia megghiu la morti»: la terra è bassa e si zappa chini, tanto si fa fatica che ancor meno è la morte. Sono i versi che impressionarono Sciascia, tanto da spingerlo a tenere a battesimo l’esordio di Battaglia. Il quale darà prova del suo talento anche nelle poesie in lingua (" Luoghi di terra e di cielo", 1982): dal tronco di una poesia corporea e contundente sbocciano versi attraversati da un tarlo verrebbe da dire filosofico, meditativo. L’orizzontalità del paesaggio cede il passo alla profondità dello sguardo e della ricerca. Le raccolte che da questo punto in poi si susseguono continuano a esibire l’imprimatur del fior fiore dei lettori di professione: Giovanni Tesio, Giacinto Spagnoletti, Giorgio Bàrberi Squarotti. Insomma, per Battaglia si sono scomodati i mammasantissima della critica letteraria.
Ed ecco il romanzo, scritto quando già il suo autore, tornato in Sicilia è tallonato dalla malattia che avrebbe poi avuto la meglio nel 1995. La Sicilia che fa da sfondo è insieme un luogo mitico e senza tempo, l’isola degli anni del dopoguerra e della rivolta contadina: le vicende narrate si svolgono nel paese di Alimina, dimidiato tra i pochi signori latifondisti che se la godono esercitando un potere cieco e ottuso e i poveri diavoli degli straccioni che invocano la terra e i diritti negati. Il barone Giulio Trecase, «superbo sul suo cavallo bianco, pantaloni di velluto a costine color ghiaccio, camicia bianca, maglioncino bianco e per cappello un borsalino bianco » , si aggira tronfio tra i suoi possedimenti investiti da una luce abbacinante. Ha una moglie giovane, effervescente, dal corpo in fiamme, che però egli trascura ricavando esclusivamente il suo piacere solo dalla terra, dal sangue versato dai contadini, dall’odio verso i pezzenti. Ma la consorte, Annunziata Spampinato di Cavuso d’Oro, « grassa, le belle cosce grosse, floride, le mammelle e la facciona rotonde come la luna», sa come vendicarsi dell’indifferenza del consorte: quale amante insaziabile e divoratrice si concede a quelli che le capitano sotto tiro, quasi tutti di provenienza popolare. Si tratta di un esercizio del sesso quale risarcimento paradossale e visionario (gli amplessi narrati hanno qualcosa di iperbolico) nei confronti degli ultimi, anche se donna Annunziata prosciuga le energie degli uomini che calamita. Ha ragione Paolo Ferruccio Cuniberti, autore della postfazione: questa Alimina ha qualcosa della Macondo di Garcìa Marquez, per la dimensione polifonica e a tratti picaresca della narrazione. Ne viene fuori un apologo sorprendente, col suo finale quasi onirico e felicemente liberatorio.
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02 marzo 2020

L' ULTIMA PROPOSTA DI GIORGIO CAPRONI




ph. Masao Yamamoto






"L' ultima mia proposta è questa: 
 se volete trovarvi, 
perdetevi nella foresta." 

Giorgio Caproni,  da Il conte di Kevenhuller