Note a Il tempo lungo di E. P. Taormina
Gianfranco Perriera
Si dà una stagione – della vita individuale come di un’epoca intera – in cui il tempo appare sfarinarsi, come sabbia impalpabile che tutto copre e persino le stelle si vedono rugose come mani di pescatore? E’ possibile che scocchino momenti, o persino periodi, in cui l’occhio vede gli enti e il mondo che li contiene non tanto svanire, ma trasformarsi in un deserto? C’è una bolla del tempo in cui, come al temine del leopardiano Dialogo della Natura di un islandese, un burrascoso vento solleva una tempesta ed edifica sui corpi un superbissimo mausoleo di sabbia? Il lemma sabbia ricorre nei primi due componimenti di questa nuova raccolta di Paolo Emilio Taormina: è il tempo che si sgrana ma, anche, nella lirica d’apertura, la donna di sabbia che le onde del tempo non hanno sgretolato. Allo sgranarsi di persone, cose ed eventi il poeta oppone l’artigiana, pazientissima, opera della scrittura: la memoria, così, il suo tempo lungo, e il suo essere promessa, comunque, di un futuro di grazia, gli siede accanto, ombra di desideri, che, fatta della stessa materia sgranabile del tempo, allo sparpagliarsi e polverizzarsi resiste. Cos’altro fa il linguaggio – si chiedeva Gadamer – se non fondare la memoria, rendere rappresentabile e presente ciò che non è? E questo in effetti tesse e ritesse, da tempo e in particolare in questa raccolta, il sapiente e lieve dettato di Taormina. Dietro la sfingea maschera di un vecchio, perciò, baluginano, curiosi e per vocazione festosi, gli occhi di un bambino che vuol giocare col mondo. Il tempo, in effetti, è un bambino che gioca – scriveva Eraclito. Il poeta – pare ribattere Taormina – accetta il gioco, sa giocarlo con finezza e sguardo che va lontano e sa fissare con malinconica ispirazione gli istanti più intensi, i lampi di antica bellezza. Accetta il gioco, dunque, il poeta, sino alla fine, fin dopo la fine, perché se il tempo a volte appare una morta gora e qui resta tutto uguale, il poeta saprà pure andare a samarcanda/ a comprare/ un tappetto volante e tornare bambino/ sdraiato sotto l’azzurro/ e sentire sulla pelle/ l’erba crescere come piume/ volare sui tetti. Gli enti passano, sì: distrazione e dimenticanza sembrano la legge del tempo: il verme della tristezza mi divora – confessa il poeta - i cipressi davanti alla finestra sono le sbarre della mia prigione – insiste qualche poesia più in là. Eppure la scrittura non smette il suo lavoro di spola tra quiescenza all’oblio e ritorno del canto immemore, tra la muta ora della sparizione e il riverbero dell’eco dei ricordi più gioiosi ed immaginosi. Io sono presente assente, titola una delle poesie. Il poeta è allora – già suggeriva Starobinski - saturnino e impacciato come un funambolo: la mia ombra è un pierrot – sottolinea con soavità Taormina - sgambetta tra gli sterpi/ s’abbraccia alle caviglie dei cipressi/ tu invisibile/ cammini accanto a me/ non hai forma ascolto lo zufolio/ del tuo canto/ come poggiando/ l’orecchio/ a una conchiglia. Il rumore del mare, della pioggia che lascia sempre qualche segno sui vetri quel che raggiungono l’orecchio del poeta; il lontano zufolio del canto è l’umore ristoratore che sempre torna a scorrere e rianimare le attese, anche quando le giunture fossero cigolanti, anche quando era così stretta la porta del silenzio che la parola vi lasciò una traccia di sangue. Il poeta pierrot, fragile e sognatore, Sisifo della memoria, perché non disconosce che abbiamo negli occhi/ una tristezza di rosa recisa, frequenta comunque le altezze, cammina sui tetti: da lassù, anche se la cenere ha ricoperto un’intera città, ne intuisce le sagome, ne smuove i contorni. In questi versi persino le statue al cimitero aprono gli occhi nel buio/ escono dal marmo senza rumore. Al consumarsi del e nel tempo la scrittura incantata di Taormina, con sorniona ironia, sa sfuggire – si è detto - anche oltre la fine: quando la poesia/ dentro di me morirà/- scrive - la veglierò con le candele/ spargerò sul suo letto/ papaveri margherite di campo. Un simbolo di eterno riposo si unisce a un simbolo di nobiltà d’animo, il rosso del sangue si miscida al niveo pallore. In questo gioco di opposizioni scorre la soave poesia di Taormina. Il rumore della pioggia/ il ronzio degl’insetti/ una foglia che cade/ – scrive Taormina, descrivendo l’essenza della sua poetica - e l’agonia di una mosca/ la poesia nasce da cose da niente. Non ha spiegazioni, ma esiste da sempre, da prima che Adamo desse il nome alle cose. La poesia di Taormina, e di quest’ultima raccolta con particolare evidenza, sta nella delicatezza con cui sospende il vano scorrere del tempo, sta nell’ombra sognante che sa far proiettare anche dalle cose da nulla, da quelle più semplici come ama ripetere. Gadamer, ancora, ricordava che “per quanta luce si possa portare nell’oscurità della storia originaria dell’anima umana, la capacità di sognare resta la sua forza più grande”. E grande, nella leggerezza del verso, nel riverbero trasognato del dettato, nella fragranza delle figurazioni naturali, è la forza compositiva di Taormina. Forte come la morte, nella delicatezza del dettato, è l’amore per gli incanti che il tran tran quotidiano rischia di seppellire nella dimenticanza. Perciò come epitome della raccolta non posso che riconoscere i seguenti versi: il vecchio seduto nell’ultimo raggio/ esclamò/ la vita è bella/ mentre lacrime incontenibili/ scendevano/ per le gote come arilli di melagrana. Con l’augurio, ovviamente, che questo vecchio con gli occhi di bambino continui a lungo a regalarci le trame della sua innamorata saggezza.
Gianfranco Perriera
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