Giacomo Balla, Lampada ad arco, 1909
Alessandro
Beltrami, Sul futurismo una mostra poco futurista
Avvenire, 2 dicembre
2024
È complicato visitare la mostra sul Futurismo che oggi apre
al pubblico a Roma cercando di concentrarsi soltanto su quanto si vede, sul
progetto espositivo, sulle opere e lasciando sugli scalini della Galleria
nazionale di arte moderna tutto quanto l’ha preceduta. Arduo lasciare da parte
la vicenda politica e mediatica (e ben poco culturale) che ha accompagnato fin
dall’inizio “Il tempo del Futurismo” (un tempo brevissimo almeno dal punto di
vista espositivo: chiuderà il 28 febbraio, una finestra davvero esigua per un
progetto nato e dichiarato ambizioso, in un momento tra l’altro in cui le
mostre hanno lunghe teniture – ma, come qualcuno forse ricorderà, lo mostra doveva
aprire a ottobre) e che non serve qui riassumere. Basterà osservare che era
difficile che non finisse così, viste le premesse che affondano nel dirigismo
“Italy first” (Tolkien a parte) dell’ex ministro Sangiuliano, oggi riemerso per
ricordarci di essere un entusiasta biografo trumpiano, e in un pressapochismo
nella gestione della componente organizzativa, a partire dall’incapacità di
costruire un comitato scientifico.
Quella sul Futurismo era stata annunciata subito come mostra
programmatica di un corso governativo e di un rilanciato orgoglio nazionale (e
così è avvenuto ieri in una conferenza stampa che ha visto presenziare il
ministro della Cultura Alessandro Giuli, il presidente della commissione
cultura della Camera Federico Mollicone e Massimo Osanna, capo della Direzione
generale Musei), ma profumava assai più di bandiera della revanche di
una destra intenta a costruire una nuova egemonia presto rivelatasi piuttosto
una endogamia culturale. Una mostra forse anche frutto di un malinteso e di
ingenuità: il Futurismo non ha certo più bisogno di riabilitazioni, semmai di
studio e divulgazione. Ma il peccato originale di questa mostra, in un ultima
analisi, sta nell’essere stata di fatto organizzata e gestita direttamente dal
ministero della Cultura, come se fosse l’assessorato di un comune qualsiasi.
Una sala della mostra “Il tempo del Futurismo” alla Galleria
Nazionale d'Arte Moderna e Contemporanea (Gnam) di Roma - Ansa/Maurizio
Brambatti
Dunque, in tutto questo marasma, che mostra ha preparato il
curatore Gabriele Simongini? La chiave dichiarata è nella relazione tra arti,
scienza e tecnologia che caratterizza “il tempo del Futurismo” e che lo
avvicinerebbe al nostro presente sottoposto, scrive Simongini, allo «tsunami
tecnologico dell’intelligenza artificiale» che avvera «la profezia della
macchinizzazione dell’umano e dell’umanizzazione della macchina preconizzata
proprio dai futuristi». La mostra è oggettivamente gigantesca, con 350 tra opere,
progetti, disegni, oggetti d’arredo, film e un centinaio fra libri e manifesti,
insieme a automobili, motociclette e strumenti scientifici dell’epoca e un
modello in scala reale dell’idrovolante Macchi-Castoldi M.C.72, con cui
Francesco Agello nel 1934 ottenne il record del mondo di velocità (709
chilometri orari), ancora imbattuto. In questo senso Simongini introduce come
figura centrale Guglielmo Marconi, considerato come un futurista – forse un po’
forzatamente: tutti gli scienziati e i tecnologi lo sarebbero stati, ma
certamente le sue apparecchiature restituiscono il brivido di un’epoca di
pionieri.
L’idea è giusta, ma l’allestimento fatica a restituirla.
L’unica sala in cui questo si compie in maniera efficace è la prima, in cui
vengono accostati i precedenti divisionisti del Futurismo ma soprattutto viene
istituito un rapporto visivo diretto tra Il Sole di Pellizza
da Volpedo (1904) e Lampada ad Arco di Giacomo Balla (1911),
giunta dal MoMA di New York, dove il lavoro comune sulla luce si sposta
simbolicamente e graficamente dal naturale all’artificiale, dal mondo rurale
alla città. Accanto, una lampada ad arco francese dei primi del Novecento. Poi
la mostra si diluisce e si perde. Un problema essenziale è dato dagli spazi
troppo grandi e iper-illuminati della Gnam per opere che soprattutto nella
prima parte hanno dimensioni esigue e borghesi (meglio sarebbe stata una sede
espositiva più contenuta e articolata come le Scuderie del Quirinale), che
schiacciano la mostra in particolare nelle fasi iniziali costretta a riempire
le sale in modo un po’ confuso. Ma soprattutto non c’è un guizzo nella scansione
omogenea e priva di brio delle pareti, sulle quali un quadro è appeso
invariabilmente ogni 60 centimetri, e dove le poche opere maggiori sono
disperse tra i molti quadretti. Mentre la pannellistica anodina e burocratica
non prova neppure (ma quando lo fa è davvero discutibile) a recuperare
l’energia anarchica e strafottente della grafica futurista, questa invece sì
ben documentata nelle molte edizioni in mostra. Per quanto riguarda
l’accostamento tecnologia e arte, è difficile non notare come nel grande salone,
senza dubbio spettacolare, le automobili e le motociclette oscurino e divorino
i quadri alle pareti. Tra l’altro quasi nessuno di questi improntato al tema
della velocità: tutti i lavori astratti di Balla sul movimento li troviamo in
una sala successiva, dedicata all’intonarumori. Coerente invece la sala
sull’aeropittura (ma in generale il secondo Futurismo è meglio rappresentato
del primo), costruita attorno all’idrovolante.
La mostra in sé è onesta e tutto sommato esaustiva del mondo futurista, con molti
nomi di secondo e terzo piano a testimoniare la vastità del fenomeno, ma non
appare di portata internazionale come nelle intenzioni. Inoltre, ed è un
pregio, evita secche ideologiche. Eppure è difficile sfuggire alla sensazione
che anche con lo stesso materiale, abbondante ma non sempre entusiasmante,
sarebbe stato possibile suggerire un percorso differente. Sarebbe bastato osare
con più libertà, sovvertendo la consequenzialità cronologica e riavvolgendo più
volte il tempo su se stesso per proiettarlo, davvero futuristicamente, di nuovo
in avanti.
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