19 dicembre 2021

CINEMA. LA MANO DI DIO E QUELLA DI SORRENTINO

 


ESTETIZZAZIONE, BORGHESIA, POSTPOSTMODERNISMO: LA DICHIARAZIONE DI POETICA DI SORRENTINO IN È STATA LA MANO DI DIO

di Christian Raimo

L’arte moderna nasce con un orfano. Amleto perde il padre e rischia di perdere il senno.

Come capita a Amleto, è difficile per gli orfani diventare adulti come tutti. Senza un padre da uccidere, il rischio di restare incantati in una pubertà eterna è alto. Il cinema di Sorrentino muove da questo rischio e lo contrasta in un modo originale: parlando dei vecchi. Vecchi vecchi, giovani vecchi, quasi vecchi, malati terminali che non lo dicono, quieti amanti del nulla. Tutti i film di Sorrentino parlano di come si sopravvive al trauma della sua giovinezza, la perdita di entrambi i genitori in un incidente, interessandosi a biografie di persone deluse dalla vita e vicine alla morte; È stata la mano di Dio parla esplicitamente del trauma.

Nell’Uomo in più uno dei due protagonisti si uccide, l’altro finisce in galera; nelle Conseguenze dell’amore il protagonista accetta di essere giustiziato; nell’Amico di famiglia il protagonista si ritrova ancora più solo e disperato; Il divo è la storia di un uomo che si spegne pur di mantenere il suo potere; in This must be the place il protagonista è un bambino invecchiato la cui vita sembra finita e riesce a crescere solo uccidendo non il padre ma chi ha oppresso il padre; nella Grande bellezza tutti i personaggi dichiarano l’amore per la fine, la decadenza, il protagonista vive come il fantasma di sé stesso; in Youth la fascinazione per l’annullamento è ancora più esplicita; in Loro Berlusconi dopo aver incarnato la maschera da commedia dell’arte del vecchio che non cede al tempo e che s’incanta con la bellezza franca e assoluta della gioventù nell’ultima scena sembra trovare conforto solo tra le rovine dell’Aquila…

Nei film di Sorrentino non esistono adulti, ci sono solo puer e senex, che alle volte si scambiano le parti: ragazzi che non saranno mai adulti fino in fondo e vecchi che magari non sono mai stati adulti, spesso giovani vecchi, stanchissimi o corpi decrepiti che non hanno più l’interesse per il sesso, e per cui l’amore è nel migliore dei casi trasognato. Nella maggior parte dei casi sembrano o dicono di essere sopravvissuti o fantasmi. Gioventù e senescenza non sembrano fasi della vità, ma condizioni.

È stata la mano di Dio sembra chiarire e addirittura mettere in scena questo sdoppiamento. Filippo Schisa, il protagonista, ha un solo modo per sopravvivere al dolore che lo schianta: non crescere. Rimanere eternamente giovane o pensare di avere già vissuto tutto. La scelta che lo salva dall’annullamento è la prima. Anthony O. Scott, elogiando È stata la mano di Dio, in una recensione sul New York Times lo definisce “un estetizzazore compulsivo e disinvolto”. È una formula efficace che va sottolineata. L’estetizzazione di Sorrentino non è solo una forma di glamourizzazione, di belletto. È un’espressione filosofica e una postura poetica. L’espressione filosofica è quella che descrive Kierkegaard esattamente nello stadio estetico.

Ogni essere umano, per poco dotato che sia, per subordinata che sia la sua posizione nella vita, ha un naturale bisogno di darsi una concezione della vita, una rappresentazione del significato della vita e dello scopo di questa.

Quale è quella di Fabietto/Fabio Schisa, il protagonista di È stata la mano di Dio? “Guardare è l’unica cosa che so fare”, confessa nel momento del film in cui sta mettendo a fuoco la propria vocazione, in quella che sembra una smaccata dichiarazione di poetica.

Che vuol dire, artisticamente, che guardare resta come unica possibilità di vita e di creatività?

Il modernismo aveva creduto che l’arte attraverso le avanguardie avesse una capacità di non solo di trasformare ma di rivoluzionare il mondo. In Teorie dell’avanguardia Peter Bürger piangeva il lutto della fine dell’avanguardia, e del progetto palingenetico, e mostrava come di quel lutto l’automatica elaborazione fosse il postmoderno. Cesare Brandi in Fine dell’avanguardia cercava in tutti i modi di riconoscere le forme di resistenza a questo passaggio, come se si potesse sperare in una permanenza anche episodica dell’ambizione di radicale cambiamento nell’arte.

Nel postmodernismo, per Jameson o Eco, questa possibilità politica era nella condivisione dei codici poetici, nella democratizzazione dell’esperienza artistica, e nella possibilità di mettere in discussione il valore di consumo del prodotto culturale attraverso una serie di interventi nell’opera e fuori dall’opera. Spiazzamento, detournément, campionamento, metanarrazione…

Alla fine degli anni novanta, negli stessi anni in cui Sorrentino esordiva, si è cominciato a parlare di postmodernismo. Il novecento stava iniziando a apparire come un secolo veramente lontano e anche il postmoderno un gioco ormai usurato. Qualcuno ha inaugurato l’espressione post-postmodernismo.

Sorrentino è stato un autore in bilico tra il postmoderno e il postpostmoderno finché ha deciso di abbandonare l’ambivalenza politica del postmoderno e concentrarsi su uno stile che oggi è la sua cifra: l’estetizzazione postpostmodernista. Il passaggio si compie a cavallo della crisi economica del 2008. L’Amico di famiglia Il divo appartengono ancora alla prima fase, This must be the place è un film confuso e mostra gli elementi contraddittori di questo passaggio, La grande bellezza è già un’opera coerente della nuova poetica. Questo salto nel postpostmodernismo implica la rinuncia agli elementi più dissonanti della sua cinematografia, come la colonna sonora di Teho Teardo o il montaggio di Giogiò Franchini.

L’estetizzazione postpostmoderna è una reazione al postpostmoderno. Se mettiamo vicino il finale del Divo con Da da da dei Trio sovrapposto allo scorrere dei resoconti dei processi di Andreotti con Napol’è di Pino Daniele alla fine di È stata la mano di Dio con il protagonista con la faccia al finestrino, riconosciamo facilmente come la prospettiva delle due poetiche è quasi antitetica.

Se il postmoderno è radicalità, critica, intertestualità, il postpostmoderno dà per avvenute le ibridazioni, lavora sulle iperfetazioni, il citazionismo collima con la letteralità. Ecco il mimetismo esagerato, i ralenti, la fotografia quasi sempre satura, le giustapposizioni epifaniche, la voluta mancanza di correlati oggettivi, l’incanto per l’incanto.

Cos’è allora che stona in questo È stata la mano di Dio? La difficoltà che la poetica di Sorrentino ha con le storie. Allo storicismo del moderno, e alla frammentazione che mostra la crisi e perdita di senso della storia del postmoderno, il postpostmoderno sostituisce una una giustapposizione di scene che sembra dinamica: un modello che Sorrentino incarna alla perfezione, con la sua pseudosequenzialità, la sovrabbondanza, la simulazione di un’evoluzione.

Solo che in È stata la mano di Dio sembra che noi assistiamo a un romanzo di formazione, anzi a un romanzo di formazione drammatico, esemplare? È così?

Per capirlo non concentriamoci sul personaggio di Fabietto/Fabio Schisa e sulla sua tragedia, ma sul suo rapporto con l’ingombrantissima protagonista del film: Napoli.

William Faulkner dice che esistono due tipi di storie: le storie di un uomo che arriva in città e quelle di un uomo che lascia la città. La nostra sembrerebbe del secondo tipo. La storia di un abbandono. Tra le relazioni che Sorrentino ha invitato esplicitamente a evocare per il suo film, come quella con Federico Fellini o quella con Antonio Capuano, ne manca una che sembra invece pertinente: quella con Massimo Troisi di Ricomincio da tre.

Le analogie tra Ricomincio da tre È stata la mano di Dio, casuali o meno, non sono poche. Ci sono due ragazzi impacciati, con un rapporto edipico con la città, che se ne vanno. La Napoli degli anni ottanta di Troisi e quella di Sorrentino hanno punti di contatto e punti di assoluta divergenza: una del resto è San Giorgio a Cremano, l’altra è il Vomero. Ma non è solo l’affrancarsi dalla provincia che spinge Gaetano, il protagonista di Ricomincio da tre, a andarsene: è la necessità di Troisi e della scena artistica napoletana degli anni ottanta era quella di affrancarsi dalla città dei luoghi comuni, della pulcinellitudine, e attraverso quest’affrancamento poter compiere anche un’emancipazione culturale e un’ascesa sociale. L’incanto nel quale Gaetano/Troisi rischia di rimanere imbrigliato è quello del familismo amorale.

La scena nella quale comunica ai genitori che vuole andarsene è un capolavoro di scrittura:

“Ma perché te ne vuoi andare così, mo tenevamo pure la casa nuova? Perché vuoi emigrare?”
“Mamma, ma chi ha ditt’ che voj emigrà… Io voj viaggà, voj conosc’, non è che non son content’ d’ sta qua…”
“Proprio mo… che avevi fatto tant’ per trovare un buon lavoro…”
“Sì, un buon lavoro: tutt’e mattin e cinque dint’a chill tren’, arriv’ fin a là, mettit’ a ffà l’aranciata, mammà i’n tengo cchiù genio, […] Sentite, qua ci stanno due alternative: o part’…”
“Oppure?”
“Oppure… part’”.
“E l’altra alternativa?”
“Quale altra alternativa?”
“Tu hai detto che stavano due alternative!”
“I’ agg’ ditt’ che stavan’ due alternative?”
“Sì” “Sì”.
“No’, ‘i agg’ ditt’ qua ci sta un’alternativa… io mi ricord’, io ho sempre ditt’ che ci sta un’alternativa…”

Il momento in cui Schisa si confronta con la scelta di andarsene è il confronto serrato con quello che vorrebbe fosse il suo mentore, il regista Antonio Capuano.

“Pensavo di andare a Roma a fare il cinema così capisco se ci sono tagliato”
“A Roma?… La fuga… So’ palliativ’ d’o’ cazz’. Alla fine torni sempre a te, Schisa. E torni qui al fallimento, perché tutt’ nu fallimento, tutt’ na cacata. He capit’ o no? Nessuno inganna il proprio fallimento. E nessuno se ne va veramente da questa città. Roma? Ma che cazz’ ci vai a fa a sta Roma? Solo ‘e strunz vann’ a Roma! Hai visto quante cos’e raccuntà ci stanno in chest’ città? Guarda!… Ma è mai possibile che sta città non te fa venì in mente niente ‘a raccuntà? Insomma, Schisa, la tieni qualcosa ‘a ricere? O sì nu strunz come a tutti gli altri? A tieni una cosa da raccuntà? Forza, curaggio, la tieni o no na cus’a raccuntà? E muovit’ scemo! A tieni na cosa ‘a raccuntà? Tieni o coraggio e lo dici! Ti vuoi muovere o no? A tieni a cosa da raccontà o no?”
“Sì”.
“E dimmell’!”
“Quando sono morti non me li hanno fatti vedere!”, grida alla fine Schisa.
La tensione si placa e Capuano può pronunciare la sentenza: “Non ti disunire, Schisa”.

L’escalation sembra quella di uno psicologo che incalza maieuticamente un paziente che non riesce a dare un nome al trauma. (Il primo paragone che viene in mente è con la scena capolavoro di Ordinary people che mette uno di fronte all’altro tra il Dr. Tyrone C. Berger (Judd Hirsch) e Conrad Jarrett (Timothy Hutton) fino a quando Conrad riesce finalmente a fare uscire la propria rabbia e il proprio dolore).
Ma la tensione sottesa a questo scontro è un’altra, la spiega bene Capuano stesso in questa bella intervista di Concetto Vecchio: non solo quella di un adulto e un ragazzo addolorato. Ma quella tra un borghese e un proletario.

Le disse mai che aveva perso i genitori?
“No, lo seppi da altri. Con me non ne ha mai parlato. Il suo dolore era trattenuto, nascosto”.

Perché tacque?
“Me lo sono chiesto tante volte. Fa parte della sua natura borghese di non aprirsi mai del tutto. Noi proletari siamo più liberi, più scoperti, e magari pure più fessi”.

Qualunque romanzo di formazione napoletano passa da questo rapporto conflittuale tra borghesia e proletariato. Per Troisi proletario l’ascesa sociale può avvenire solo fuori – andarsene da Napoli vuol dire anche tradire la sua classe sociale. Per Sorrentino andarsene da Napoli a Roma vuol dire lasciare la propria città per non tradire la propria appartenenza borghese.
Napoli è chiaramente questa relazione oppositiva tra borghesia e popolo. La sua tragedia è nell’impossibile alleanza tra queste due componenti: è il referto che stila Vincenzo Cuoco già nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799La borghesia del Vomero e il popolo di San Giorgio a Cremano possono andare allo stadio insieme, ma non potranno mai concepire una rivoluzione che cambi le sorti della città.
L’estetizzazione postpostmoderna di Sorrentino diventa così un dispositivo poetico di una dichiarazione di resa: Napoli è una città irredimibile.

C’è un personaggio singolarmente simile in Ricomincio da tre e in È stata la mano di Dio. Nel primo la signora Ida (interpretata da Laura Nucci), un’amica di famiglia da cui Frank porta Gaetano a fare visita. La signora Ida è un’anziana signora dell’aristocrazia o della buona borghesia, madre oppressiva di Robertino, un adulto che tiene segregato in casa, come una parodia di Psycho. In una scena celeberrima Gaetano, appena Ida si allontana, prova convincere Robertino a scappare, per non lasciarsi soffocare dalla madre castrante.

In È stata la mano di Dio l’amica di famiglia è la baronessa Focale. Anche lei sembra di un’altra epoca, una donna sola che sembra uscita – come del resto la signora Ida – da un quadro dell’ottocento. Fabietto non vuole scappare dalla signora Focale, anzi – quando morti i suoi – va a farle visita, si trova irretito e accetta di avere il suo primo rapporto sessuale con lei.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

In questa scena, ancora di più che dal confronto con Capuano, riusciamo a cogliere il nucleo generativo della poetica di Sorrentino. Il suo postpostmodernismo vuol dire un dichiarato rifiuto del superamento dell’Edipo da una parte e dall’altra, in maniera plastica, la congiunzione posttraumatica tra borghesia orfana e nobiltà decaduta. In questa alleanza consolatoria tra due forme di malinconia luttuosa si forma una legittimazione dell’estetizzazione.

Mentre la casa della signora Ida ci sembra un antro da cui scappare, quella della baronessa Focale un rifugio possibile per chi sente di aver perso tutto


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