CESIM - Centro Studi e Iniziative di Marineo
“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
17 gennaio 2025
UN RITRATTO ANCORA ATTUALE DEGLI ITALIANI
SUL CINEMA DI DAVID LINCH
David Lynch
è una di quelle figure che trascendono il confine tra cinema e sogno, un
alchimista visivo capace di trasmutare l’ordinario in straordinario e
l’inspiegabile in familiare. La sua arte è una porta aperta su mondi paralleli,
dove il surreale abita accanto al quotidiano e l’oscurità è illuminata da una
luce straniante e ipnotica.
Nessun altro
regista ha saputo scandagliare le pieghe della mente umana con la stessa
audacia, immergendosi nei luoghi più nascosti dell’inconscio per estrarre
immagini e suoni che sembrano provenire da un’altra dimensione. Da Eraserhead a
Mulholland Drive, passando per l’iconica serie Twin Peaks, Lynch ci invita a
confrontarci con i nostri desideri, le nostre paure e le nostre ossessioni,
senza mai offrire risposte facili, ma sempre provocando domande profonde.
Le sue opere
sono composizioni meticolose, dove il silenzio è assordante e i suoni – una
finestra che cigola, un sussurro nella notte – diventano protagonisti tanto
quanto i personaggi. Lynch ci insegna che il terrore non sta solo nel
mostruoso, ma anche nell’insolito che si insinua nella normalità: la tazza di
caffè che trabocca, un sorriso che si congela nel momento sbagliato, un
telefono che squilla nel buio.
Eppure, c’è
anche bellezza. Una bellezza spigolosa, che emerge dai contrasti: i colori
vividi, il romanticismo di un ballo lento, la fragilità di un personaggio che
guarda l’abisso e decide di danzare. Lynch è un poeta del paradosso, un maestro
nel rendere il brutto sublime e il sublime perturbante.
Onorare
David Lynch significa riconoscere il coraggio di un artista che non ha mai
avuto paura di seguire la propria visione, per quanto oscura o incomprensibile
potesse sembrare. È celebrare un creatore che ci ricorda che l’arte non deve
essere sempre compresa, ma sentita, vissuta, temuta e amata.
Come direbbe lui stesso: “Life is strange.” Ma grazie a Lynch, questo strano, misterioso viaggio è infinitamente più affascinante.
Şenay
Boynudelik
16 gennaio 2025
FRANCO LORENZONI E TOMASO MONTANARI CONTRO VALDITARA
Capire i Lari nell’isola di Bali
Con un’intervista ad effetto il ministro leghista dell’istruzione, Giuseppe Valditara, ha presentato alcuni punti delle nuove linee didattiche che dovrebbero trasformare alla radice alcuni insegnamenti nelle nostre scuole dal 2026-2027. A proposito della Storia ha affermato che, fin dalla primaria, “l’idea è di sviluppare questa disciplina come grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche”, aggiungendo subito dopo che “dovrà essere privilegiata la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente”. Ma non è proprio questa la più “ideologica” delle scelte?
Di fronte a un mondo in tumulto e in straordinaria trasformazione, in cui non si comprende nulla di ciò che succede senza tenere presente ciò che accade ed è accaduto nel mondo tutto intero, in tutti e cinque i continenti a partire dalla storia delle tante migrazioni e dei tanti colonialismi, la scuola che Valditara sta cercando di imporre cerca le sue radici nella centralità dell’idea di “italianità”, proposta da Ernesto Galli della Loggia.
Tutto ciò mi sembra straordinariamente diseducativo e propongo un esempio per farmi capire. Anni fa mi capitò di ospitare in classe Tapa Sudana, un attore della compagnia del grande regista Peter Brook che veniva dall’isola di Bali. Ci raccontò che, quando venne in tournée per la prima volta in Europa, fu ospitato a Parigi dalla famiglia di un attore francese. Appena arrivato in quell’appartamento istintivamente si mise a cercare il luogo della casa dedicato agli antenati. Nelle povere capanne con il pavimento di terra battuta del suo villaggio non ce n’era una che non avesse un angolo dedicato a nonni, bisnonni e avi di più generazioni. Chiese conto di questa mancanza, che a lui pareva assurda, e si rese conto che in Europa questa antica tradizione di “tenere in casa” in qualche modo gli antenati si era spenta da tempo, forse da secoli, se non in certi aspetti della cultura contadina. Ne discutemmo a lungo in classe perché questo racconto ci fece capire profondamente cosa fossero i Lari per gli antichi romani, rendendo vive le letture e i documenti trovati nei libri che stavamo studiando in quinta primaria. Un’esperienza antropologica lontana nel tempo la stavamo intendendo facendo un viaggio di andata e ritorno nello spazio, dall’Europa all’Asia e dall’Asia all’Europa. Ci siamo domandati anche se le costruzioni e convinzioni culturali avessero viaggiato da una cultura all’altra o si presentassero simili in regioni tanto lontane perché derivavano da bisogni “elementarmente umani”, come ipotizzava l’antropologo Ernesto De Martino.
È solo un piccolo esempio per sostenere che il mondo è grande e non c’è cosa migliore che incuriosirsi alle tradizioni più diverse di ogni continente fin da piccoli, se vogliamo educare e porre basi per una concreta e consapevole fraternità universale, che i nostri chiacchieroni governanti dalle bugiarde radici cristiane, sembrano dimenticare o voler soffocare in una angusta idea di patria, piccola piccola, ignorante ignorante.
Pezzo ripreso da https://comune-info.net/capire-i-lari-nellisola-di-bali/
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𝗟𝗮 𝗻𝘂𝗼𝘃𝗮 𝘀𝗰𝘂𝗼𝗹𝗮 𝗱𝗶 𝗩𝗮𝗹𝗱𝗶𝘁𝗮𝗿𝗮, 𝗧𝗼𝗺𝗮𝘀𝗼 𝗠𝗼𝗻𝘁𝗮𝗻𝗮𝗿𝗶
(Rettore a Siena): “𝗜𝗹 𝗺𝗼𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗲̀ 𝗹’𝗮𝗹𝗴𝗼𝗿𝗶𝘁𝗺𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝘀𝗼𝗰𝗶𝗮𝗹: 𝘃𝗲𝗱𝗲𝗿𝗲 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲 𝘀𝗼𝗹𝗼 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗰𝗶 𝗽𝗶𝗮𝗰𝗲”
“𝑉𝑒𝑑𝑒𝑟𝑒 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑑𝑎𝑙 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑜 𝑝𝑢𝑛𝑡𝑜 𝑑𝑖 𝑣𝑖𝑠𝑡𝑎 𝑒̀ 𝑙’𝑒𝑠𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑛𝑡𝑟𝑎𝑟𝑖𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑙’𝑖𝑛𝑠𝑒𝑔𝑛𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑒 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑐𝑢𝑙𝑡𝑢𝑟𝑎”
Di Ste. Ca.
sul fatto del 16/01/2025
“Valditara
dovrebbe posare il telefonino e smetterla di riprodurre per la scuola lo schema
dell’algoritmo dei social network”.
Al rettore
dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari, non piace – per usare
un eufemismo – l’idea di “nuova scuola” del ministro dell’Istruzione e del
merito.
𝐌𝐨𝐧𝐭𝐚𝐧𝐚𝐫𝐢, 𝐢𝐧 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨 “𝐦𝐢𝐧𝐢𝐬𝐭𝐫𝐨 𝐩𝐨𝐬𝐚 𝐢𝐥 𝐭𝐞𝐥𝐞𝐟𝐨𝐧𝐢𝐧𝐨”?
Perché
questa nuova scuola mi ricorda tanto l’algoritmo dei social che ti fa vedere
solo quello che ti piace.
𝐈𝐧 𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐞𝐧𝐬𝐨?
Nel senso
che il punto è chiedersi a cosa serva la scuola. Elon Musk dice che la scuola
serve a imparare “a fare”, io invece penso che serva a imparare a pensare.
Valditara mi pare che pensi prima di tutto a confermare la nostra identità.
L’idea
ossessiva di tramandare la tradizione rivela in fondo che c’è qualcosa che non
funziona nel resto del mondo che non la insegna. È un’idea reazionaria, nel
senso di reazione alla realtà.
𝐍𝐞𝐢 𝐧𝐮𝐨𝐯𝐢 𝐩𝐫𝐨𝐠𝐫𝐚𝐦𝐦𝐢 𝐬𝐢 𝐝𝐚̀ 𝐚𝐧𝐜𝐡𝐞 𝐬𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐥𝐞𝐭𝐭𝐮𝐫𝐚 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐚 𝐁𝐢𝐛𝐛𝐢𝐚.
Se si impara
a leggere criticamente si può leggere tutto, il problema è come si insegna ai
ragazzi a formare un giudizio, altrimenti diventa una specie di catechismo. La
Bibbia va letta, come tutto il problema è come la leggi.
𝐈𝐧𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐫𝐞 𝐥𝐚 𝐬𝐭𝐨𝐫𝐢𝐚, 𝐬𝐢 𝐝𝐢𝐜𝐞, 𝐦𝐚 𝐬𝐞𝐩𝐚𝐫𝐚𝐫𝐥𝐚 𝐝𝐚𝐥𝐥𝐚 𝐠𝐞𝐨𝐠𝐫𝐚𝐟𝐢𝐚 𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐫𝐚𝐫𝐬𝐢 𝐬𝐮 𝐈𝐭𝐚𝐥𝐢𝐚, 𝐄𝐮𝐫𝐨𝐩𝐚 𝐞 𝐒𝐭𝐚𝐭𝐢 𝐔𝐧𝐢𝐭𝐢.
Separare
geografia e storia significa non imparare né l’uno né l’altra. Un saggio
fondamentale di Carlo Dionisotti s’intitola Geografia e storia delle
letteratura, per capire quanto le discipline siano interconnesse.
L’idea poi
che si debba studiare la storia di una parte sola è suicidaria, ma è certamente
più funzionale all’idea di fondo che anima questa destra: se non sai nulla
dell’Africa potrai legittimamente pensare che il colonialismo italiano abbia
portato solo civiltà e benessere in Etiopia e in Libia.
Vedere tutto
dal nostro punto di vista è l’esatto contrario della cultura.
Come diceva
Virginia Woolf, lo scopo dello studio è insegnare lo sguardo degli altri,
perché il nostro lo conosciamo già. Insomma, questa riforma assomiglia molto a
una terapia collettiva per un Occidente insicuro
𝐀𝐥𝐦𝐞𝐧𝐨 𝐢𝐥 𝐫𝐢𝐭𝐨𝐫𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥 𝐥𝐚𝐭𝐢𝐧𝐨 𝐚𝐥𝐥𝐞 𝐦𝐞𝐝𝐢𝐞 𝐥𝐨 𝐬𝐚𝐥𝐯𝐢𝐚𝐦𝐨?
Dipende come
lo facciamo, non vedo perché subito alle medie, e lo dico da figlio di due
filologi classici. Mi pare un inutile vezzo, chi decide di fare il liceo lo
studierà lì. Mi sembra davvero una nostalgia diciamo gentiliana e se c’è un
modo per far stare sulle scatole la cultura classica questa è la strada giusta.
𝐋𝐞 𝐝𝐢𝐫𝐚𝐧𝐧𝐨 𝐜𝐡𝐞 𝐥𝐞 𝐬𝐮𝐞 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐜𝐫𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐢𝐝𝐞𝐨𝐥𝐨𝐠𝐢𝐜𝐡𝐞…
È questa
riforma a essere ideologica, riforma di destra e reazionaria, con una bella
quota di nostalgia dell’epoca del regime di Giovanni Gentile, che in questo mi
sfugge come si chiamasse.
Ma chi ha
fatto buone scuole forse se lo ricorda.
https://www.ilfattoquotidiano.it/.../la-nuova.../7838842/
LA ROSA INSEPOLTA
La rosa insepolta. Il 15
gennaio 1919 veniva assassinata Rosa Luxemburg
Neanche del
suo cadavere si ebbe pietà. Assassinata il 15 gennaio del 1919 dai soldati dei
Freikorps (che appoggiavano il governo del socialdemocratico Friedrich Ebert)
insieme al compagno di lotte Karl Liebknecht, che con lei aveva fondato il
Partito Comunista Tedesco, Rosa Luxemburg fu gettata in un canale, e non ebbe
neppure diritto ad una tomba, se non per breve tempo.
Una donna
emancipata da una cultura forte, una ebrea polacca, che già nel sangue
possedeva un destino di esclusione e rivolta, un'economista non ortodossa, una
comunista che amava giustizia e libertà perché credeva fermamente nella
bellezza mai più ripetibile della vita, non poteva sperare in un destino che
non fosse tragico fino alla fine.
Quando, dopo
più di quattro mesi, il suo corpo fu ritrovato, venne sepolta nel cimitero di
Friedrichsfelde, a Berlino. Ma nel 1935 i nazisti dispersero i suoi resti,
radendo al suolo anche la sua tomba.
Il suo corpo
non fu mai più trovato. Ma se non c'è un luogo dove sedersi a parlarle, c'è la
sua forza che rimane più radicata, nella pietà che lei stessa aveva spogliato
della retorica per renderla alla giustizia.
Tra le sue opere,
fondamentali per una storia critica del capitalismo e del militarismo, è
rimasta tuttavia più nota una lettera, che nel dicembre del 1917 scrisse dal
carcere all'amica Sonia, femminista di origini russe, moglie di Karl
Liebknecht. Una strana lettera di Natale che contiene una delle sintesi più
potenti dell'immagine della disumanità. Negli occhi muti e innocenti di un
animale straziato dalla fatica, reso servo in un paese straniero (un animale
slavo in terra nemica) e nell'indifferenza del soldato che lo vede soffrire,
nello sguardo impotente di chi chiede perché senza poter sperare in nessuna
risposta, è la guerra. Queste parole di Rosa Luxemburg sono la lapide che
nessun nazista, nessun padrone, nessun anticomunista potranno mai distruggere:
"[…]
È un anno che Karl [Liebknecht] e in prigione a Luckau. In questo mese ci ho
pensato spesso; giusto un anno fa eravate da me a Vr.[onke], mi regalaste un
bell’albero di Natale… Quest’anno me lo sono fatto acquistare ma me ne è stato
portato uno misero, gli mancano i rami… niente a che vedere con quello
dell’anno scorso; non so come potrò appendervi le otto candele che mi sono
procurata. E il mio terzo Natale in gattabuia, mi raccomando non prendetela
tragicamente. lo sono calma e allegra come al solito.
Ieri
sono rimasta sveglia a lungo – attualmente non riesco mai ad addormentarmi
prima dell’1 di notte, ma sono costretta ad andare a letto alle 10 perché
spengono la luce — e nell’oscurità ho sognato diverse cose. Ieri, quindi mi
dicevo: e strano che io viva sempre in una felice ebbrezza senza ragioni
particolari. Per esempio, sono distesa qui, in questa cella oscura, materasso
duro come la pietra, mentre mi circonda l’abituale pace da cimitero che regna
nell’edificio; c’è da credersi in una tomba, mentre attraverso il vetro, sul
soffitto, si disegna il riflesso della lanterna che arde tutta la notte davanti
alla prigione. Ogni tanto si sente il rumore davvero assordante di un treno che
passa in lontananza oppure, molto vicino, sotto le mie finestre colpi di tosse
della sentinella che, calzata dei suoi pesanti stivali lentamente fa qualche
passo per sgranchirsi le gambe.
Sotto
i suoi piedi lo scricchiolio della sabbia è così disperato che, nella notte
umida e buia, si avverte il vuoto e l’assenza di prospettive di vita. E io
giaccio sola e in silenzio, avviluppata dai tanti veli neri delle tenebre,
dalla noia dell’inverno che tiene prigionieri; eppure il mio cuore batte,
scosso da una gioia interiore sconosciuta incomprensibile, come se,
attraversassi un prato fiorito inondato di sole. E nel buio sorrido alla vita,
come se conoscessi qualche magico segreto che smentirà tutto quanto c’è di
cattivo e triste ed esplodo in un mondo di luce e di felicità. E al tempo
stesso, mi interrogo sulla ragione di questa felicità; non ne trovo affatto e
non osso impedirmi di sorridere ancora di me. Credo che questo segreto non sia
altro che la vita stessa; la notte profonda è così bella e morbida come velluto
purché la si sappia guardare bene. E anche lo scricchiolio della sabbia umida
sotto i passi pesanti e lenti della sentinella risuona della canzone della
vita, una piccola e bella canzone: purché la si sappia ascoltare bene. In
questi momenti io penso a voi e mi piacerebbe tanto trasmettervi questa chiave
magica, affinché percepiate sempre e in qualsiasi situazione il lato bello e
gioioso della vita, affinché anche voi viviate nell’ebbrezza e camminiate come
in un prato iridescente. Lungi da me l’idea di proporvi ascetismo, felicità
immaginarie. Vi auguro tutte le gioie dei sensi. Semplicemente, vorrei darvi in
più la mia inesauribile serenità interiore, affinché non siate più inquieta e affrontiate
la vita avvolta da un mantello trapunto di stelle che vi protegga da tutto ciò
che c’e di meschino, volgare e angosciante.
Avete
raccolto nel parco di Steglitz un bel mazzolino di bacche nere e viola—porpora.
Le bacche nere potrebbero essere di sambuco — le sue bacche pendono in pesanti
fitti grappoli tra grandi fasci di foglie piumate, le conoscete certamente —
oppure più verosimilmente di ligustro, esili ed eleganti pannocchie di bacche,
dritte e con piccole foglie verdi, strette e abbastanza lunghe. Le bacche
viola-porpora nascoste sotto delle foglioline potrebbero essere del nespolo
nano; in realtà sono rosse, ma in questa fase della stagione, già un po’
ammaccate e troppo mature, prendono spesso dei toni di un viola—rossastro; le
foglioline assomigliano a quelle del mirto, piccole, lanceolate, la faccia
superiore verde scuro, simile a cuoio, quella inferiore ruvida.
Sonioucha,
conoscete la poesia di Platen “Forca fatale”? Potreste portarmela o inviarmela?
Karl un giorno ha detto d’averla letta a casa. Le poesie di George sono belle;
ora so da dove e stato tratto il verso: “E sotto il fruscio del grano
erubescente…” che voi recitate di solito quando passeggiamo nei campi. Quando
capita, potreste ricopiarmi il racconto “Amadis”?‘ Mi piace tanto questo poema
– naturalmente grazie al lied di Hugo Wolf – ma non l’ho qui con me. State
leggendo ancora La leggenda di Lessing? Io ho ripreso la storia del
materialismo di Lange, per me sempre suggestiva e rinfrancante. Mi piacerebbe
tanto che un giorno la leggeste.
Ah!
mia piccola Sonia, qui ho provato un dolore acuto. Nel cortile in cui passeggio
arrivano ogni giorno dei veicoli di sacchi con vecchie divise da soldato e
camicie spesso macchiate di sangue…
Vengono
scaricate qui prima di dividerle nelle celle in cui le prigioniere le
rammendano, poi le ricaricano sulla vettura per portarle all’esercito.
Qualche
giorno fa arrivò uno di questi veicoli tirati non da cavalli, ma da bufali. Era
la prima volta che vedevo questi animali da vicino. La loro struttura è più
robusta e più ampia di quella dei nostri buoi, hanno il cranio piatto e corna
incurvate verso il basso; la loro testa tutta nera con i grandi occhi dolci
assomiglia più a quella dei montoni nostrani. Sono originari della Romania e
costituiscono bottino di guerra… I soldati che conducono il carretto raccontano
che è stato molto difficile catturare questi animali che vivono allo stato
brado e più difficile ancora aggiogarli per trainare pesi. Queste bestie
abituate a vivere in libertà sono state orrendamente maltrattate fino al punto
da capire che hanno perso la guerra: l’espressione vae victis si applica anche
a questi animali… Un centinaio di queste bestie si troveranno ora perfino a
Breslavia. Quelle che erano abituate ai rigogliosi pascoli della Romania, oltre
ai colpi ricevono per nutrimento solo foraggio di pessima qualità e in quantità
del tutto insufficiente. Le fanno lavorare senza riposo, facendo loro trainare
ogni sorta di carretto e con questo ritmo non durano a lungo. Qualche giorno
fa, quindi, uno di questi veicoli carico di sacchi entrò nel cortile. Il carico
era così pesante e c’erano tanti sacchi pieni che i bufali non riuscivano a
superare la soglia del portone. Il soldato che li accompagnava, un tipo
brutale, iniziò a colpirli così violentemente col manico del suo frustino che
la guardiana della prigione indignata gli chiese se non avesse pietà delle
bestie. E di noialtri, chi ha dunque pietà? rispose, con un sorriso cattivo
sulle labbra, ricominciando a colpire con forza… Alla fine, le bestie fecero
uno sforzo e riuscirono a superare l’ostacolo, ma una di queste sanguinava…
Sonichka, lo spessore della pelle dei bufali e proverbiale, eppure era
lacerata.
Mentre
si scaricava il veicolo, le bestie restavano immobili, sfinite, e uno dei
bufali, quello che sanguinava, guardava dritto davanti a sé e, sul muso scuro
dagli occhi neri e dolci, aveva un’aria da bimbo in lacrime.
Era
esattamente l’espressione di un bambino che viene punito duramente e non sa per
quale motivo né perché, che non sa come scappare dalla sofferenza e dalla forza
bruta… Ero, davanti a lui, l’animale mi guardava, le lacrime colavano dai miei
occhi, erano le sue lacrime. Davanti al dolore di un fratello caro è
impossibile non essere scossi dai più dolorosi singhiozzi come lo ero io nella
mia impotenza davanti a questa muta sofferenza. Quanto erano lontani i pascoli
della Romania, quei pascoli verdi, rigogliosi e liberi, quanto erano
inaccessibili, perduti per sempre. Come tutto laggiù — il sole sorgente, le
belle grida degli uccelli o il richiamo melodioso dei pastori —, come tutto era
diverso. E questa orribile città straniera, la stalla opprimente, il fieno
disgustoso e ammuffito misto a paglia putrida, questi uomini sconosciuti e
terribili e i colpi, il sangue colante dalla piaga aperta… Oh! mio povero
bufalo, povero amato fratello, siamo qui entrambi così impotenti, così
inebetiti e il dolore, l’impotenza, la nostalgia fanno di noi un solo essere.
Nel
frattempo, le prigioniere si affannavano attorno al carro scaricandolo dai
pesanti fardelli, portandoli nell’edificio Quanto al soldato, con le mani
ficcate nelle tasche dei pantaloni iniziò a percorrere il cortile a grandi
passi, un sorriso sulle labbra, fischiando un ritornello popolare. E davanti ai
miei occhi vidi passare la guerra allo stato puro…
Scrivete
presto, vi abbraccio, Sonichka.
Vostra
Rosa.
Sonioucha,
mia cara, state calma e allegra nonostante tutto. La vita è così, e occorre
prenderla con coraggio, senza soffrire e con il sorriso… nonostante tutto. Buon
Natale.
ROSA LUXEMBURG
IL PESO DELLE IDEOLOGIE OGGI
Sono sempre più convinto del fatto che le "ideologie" contano più di quanto si creda. Anche l'ultima trovata di rimettere lo studio del latino a scuola rientra in questo quadro. E tanti hanno dimenticato che,
nel corso della storia, gli uomini sono stati sempre guidati da
ideologie.
C'è stato un
momento nel 900 in cui è sembrata prevalere l'ideologia marxista. Oggi questa è
palesemente in crisi. Ma non è vero che, con il crollo dell' Unione Sovietica e
di una delle tante forme dell'ideologia comunista, le ideologie siano morte. La
storia continua e non la ferma nessuno. Ed oggi le destre mostrano di sapere usare le ideologie meglio della finta sinistra.
Le ideologie sono sempre ben vive e chi oggi ciancia di "morte delle ideologie" fa ideologia!
Come ho cercato di mostrare nel mio ultimo libro "EREDITA' DISSIPATE", una delle ragioni che spiega la straordinaria capacità mostrata da Gramsci di resistere al logorio del tempo e di riuscire ancora a illuminare il presente è dovuto alla sua grande apertura mentale e al suo approccio storico e non dogmatico ai problemi.
Quando nei suoi Quaderni scrive della
necessità di liberarsi dalla ‘prigione delle ideologie’ , Gramsci sa di cosa
parla. Infatti mostra di avere ben compreso il senso della critica marxiana ad
ogni forma di sapere ideologico, inteso esattamente come forma di falsa
coscienza, malgrado ai suoi tempi non fosse ancora nota L’ideologia
tedesca di K. Marx .
Il nostro
presente rischia di passare alla storia come l’epoca del tramonto delle
“ideologie”. Eppure, secondo me, nel corso della storia non c’è stato un tempo
più “ideologico” di questo. Dopo il 1989, a seguito del crollo del muro di
Berlino e della successiva implosione dell’URSS, la casta odierna degli
intellettuali ha trasformato il presente nel tempo più ideologico che il genere
umano abbia mai conosciuto. Le favole, tra le altre cose, insegnano che una
cosa tanto più invisibile è, tanto più reale può apparire. Ma il gioco funziona
fino ad un certo punto. Che l’imperatore ed ogni forma di potere siano nudi,
oggi possono vederlo tutti. E la storia che si dava per finita – una delle
peggiori ideologie del nostro tempo – non è finita affatto. La storia continua.
Francesco Virga
PER UNA STORIA DEL PATRIARCATO
Riprendiamo
in anteprima da https://www.leparoleelecose.it/?p=50723 un contributo di Enrico Redaelli contenuto nel nuovo numero
di “Shift.
International Journal of Philosophical Studies”, intitolato “Radical
Thought 2”, a cura di Daniela Calabrò e Massimo Villani, di prossima uscita per
le edizioni Mimesis
PER UNA STORIA DEL PATRIARCATO
di Enrico
Redaelli
Nome
Il
patriarcato è stata una forma di biopolitica. Ossia, come direbbe Foucault, un
certo modo di gestire la vita umana e la sua riproduzione. Per molti secoli,
nelle società patriarcali, la vita è stata gestita e riprodotta sulla base del
Nome. Il Nome del padre tramandato di generazione in generazione. Ossia, il
patronimico. Non semplicemente un cognome, come è oggi, ma il contrassegno
dell’appartenenza a una dinastia, a un clan familiare, a una tribù: un
vessillo, uno stemma, una bandiera. Di più. Il Nome è, nel contesto delle
società arcaiche, un vero e proprio dispositivo di soggettivazione: una sorta
di stampo attraverso cui la vita si riproduce prendendo una determinata forma.
In quella forma venivano forgiati soggetti, ruoli, relazioni, usi e costumi.
Marchio
Leggiamo nel
Genesi: «A centotrenta anni Adamo generò come sua somiglianza secondo la sua
Immagine» (Gn 5,3). L’atto generativo umano perpetua l’immagine (la «forma»)
del padre, in questo caso Adamo, a sua volta creato a immagine e somiglianza
del Padre. Nelle società patriarcali non si riproduce mai la semplice e
generica vita, ma sempre una vita forgiata nella forma, ossia una «forma di
vita». Il Nome è qui il primo «marchio» che iscrive la vita ancora anonima
all’interno della comunità: nei termini di Lacan, è il «tratto unario» che
soggettivizza[1], sicché l’essere vivente, nel momento
stesso in cui è nominato e viene alla luce come soggetto, è marchiato. Sarà
perciò erede di questo marchio e indebitato con la sua provenienza. Infatti,
secondo un leitmotiv tipicamente indoeuropeo, il Nome imprime alla vita
naturale ancora indistinta (matrice «femminile» della generazione) la forma
culturale della Legge (lo stampo «maschile» che mette ordine al caos).
Nella
cultura occidentale questa concezione della vita e della sua riproduzione trova
una formulazione esemplare nelle Eumenidi di Eschilo – vera e
propria fondazione mitologica del patriarcato – dove il principio maschile e
paterno è elevato a forza attiva e generatrice della vita, mentre il principio
femminile e materno viene retrocesso a semplice supporto passivo[2]. L’azione della cultura sulla natura è
perciò vista come una dominazione del maschile sul femminile che trova il suo
analogo nel lavoro agricolo dove l’azione culturale dell’uomo (la tecnica
agricola) permette di penetrare e seminare una natura passiva (la terra da
arare). La stessa logica di fondo permea la metafisica aristotelica (l’atto
agisce sulla potenza come la forma plasma la materia e come l’intelligenza
maschile domina la natura femminile[3]).
Eternità
Verso la
fine del film Barbie (Greta Gerwig, USA 2023) a un certo punto
si dice che gli esseri umani inventano cose come il patriarcato per affrontare
la morte. Profonda verità. Quale altra funzione dovrebbe avere il Nome? Se esso
è il primo dispositivo biopolitico è perché, in quanto «forma», è la vera
garanzia contro la morte. Infatti, la vita individuale è inevitabilmente
destinata al trapasso. Non così il Nome, da intendersi come stampo che
riproduce la vita entro la stessa forma, come marchio che si perpetua nel
tempo. Si radica qui il sogno di vita eterna del mondo antico: «io morirò, ma
il mio nome (il buon nome di famiglia, la fama, la gloria, lo stemma) saranno
eterni». S’intende: se i figli sapranno portare questo Nome, se cioè
ricalcheranno le orme del padre, se la loro vita si plasmerà nel calco di
questa forma. Leggiamo nel Libro del Siracide: «suo padre è defunto, ma è come
se non fosse morto, perché ha lasciato dopo di sé uno simile a sé» (Sir 30,4).
Grazie ai figli è come se non si morisse del tutto. La discendenza assicura la
sopravvivenza del Nome: eternità della «forma di vita» – al di là della morte
del singolo individuo – riprodotta nel Nome del padre.
Patria
potestas
Affinché il
Nome sia la forma eterna entro cui la vita si riproduce sono necessarie due
condizioni. La prima è che la discendenza sia di sangue. E poiché mater
semper certa, pater numquam, il possesso esclusivo della donna è l’unica
garanzia della consanguineità della prole.
La seconda
condizione è che tale prole viva, appunto, nel Nome del padre, prosegua cioè la
sua opera, la sua vita, le sue regole. Riferendosi a Yoyakin, re di Giuda
deportato a Babilonia, dice Geremia: «Registrate quest’uomo come sterile, uno
che non è riuscito nella sua vita, perché della sua discendenza neppure uno
riuscirà a sedere sul trono di Davide e a governare su Giuda» (Ger 22,30).
In breve, le
due condizioni per sconfiggere la morte attraverso la reiterazione del Nome,
sono la disposizione esclusiva della moglie e la disposizione asservita dei
figli, ossia la patria potestas. Ma quella codificata nel diritto
romano è solo la versione più celebre di una delle più antiche forme di
biopotere conosciute dall’essere umano nelle società patriarcali: potere sulla
vita per rendere eterna la propria «forma di vita».
Pedine
Nelle
società patriarcali i figli sono perciò proprietà dei genitori, sorta di
«protesi vitale» del padre attraverso cui la sua «forma di vita» è garantita
contro la morte. Più se ne hanno, più si allarga il cerchio delle parentele e
la possibilità di perpetuare il proprio Nome. Per questo motivo, i figli
diventano pedine sulla scacchiera sociale, ossia doni scambiati con altri
gruppi familiari. Hanno origine qui le relazioni di scambio all’interno della
comunità (la cosiddetta «economia del dono» studiata da Mauss e Malinowski). In
particolare, il corpo delle figlie (in quanto in grado di rigenerare la vita)
diventa uno dei doni più preziosi (l’uomo che lo riceverà potrà riprodurre il
proprio Nome) ovvero la prima effettiva forma di moneta. Grazie a questa è
possibile tessere alleanze e parentele con gli altri clan, da cui il noto
scambio delle donne ampiamente indagato da etnologi e antropologi[4]. Ricevere il Nome significa perciò essere
accolti, ma anche immediatamente subordinati, in quanto iscritti nella rete
patriarcale dei doni e dei loro scambi, ossia nella rete dei debiti e dei
crediti sociali.
Numero
Se il
patriarcato è un modo di gestire la vita nel tentativo di sconfiggere la morte,
la sua crisi, avviata con l’inizio dell’età contemporanea, è anzitutto una
crisi del Nome come dispositivo biopolitico. Il dispositivo patriarcale non è
sostituito da uno di segno opposto (femminile o matriarcale), ma da un
dispositivo completamente altro: un nuovo ordine biopolitico che non ruota più
attorno al Nome quanto piuttosto attorno al Numero. Per così dire, non importa
che nome hai ma quanti numeri fai.
Nel corso
degli ultimi secoli assistiamo in più ambiti a un passaggio dal regime del Nome
al regime del Numero. L’alba di questa trasformazione potrebbe essere
ricondotta alla nascita e allo sviluppo della moneta a partire dalla fine del
VII secolo a. C. Questa segna il transito dal regime simbolico dei vincoli e
degli obblighi sociali legati al Nome (l’economia del dono) a un regime di meri
rapporti quantitativo-astratti del tutto anonimi (l’economia monetaria). Se lo
scambio di doni si basava sul Nome e sulla sua rete di alleanze e filiazioni,
ora non importa più chi sei, a che stirpe appartieni, a quale tribù, tradizione
e religione sei legato: pecunia non olet. I due regimi convivono a
lungo, finché, in epoca moderna, la matematizzazione della natura avviata con
Galilei e Cartesio e lo sviluppo del capitalismo non portano a un sorpasso
della potenza del Numero su quella del Nome. È l’ascesa dell’algoritmo sulla
logica «umanistica» della parola.
Prende così
piede il sogno di un mondo in cui l’eternità è garantita non più socialmente (sogno
di rendere eterno il Nome come «forma di vita» che si tramanda attraverso
generazioni) ma individualmente (sogno di rendere eterna
l’identità del singolo travasata in un chip e trapiantata in corpi sempre
nuovi). Un altro sogno biopolitico di vita eterna, un altro tentativo di
sconfiggere la morte, che rende più comprensibile l’altrimenti inspiegabile fenomeno
del calo delle nascite: per interi millenni la prolificità è stata un valore,
nonché un vanto, in tutte le civiltà umane conosciute, mentre nella moderna
società occidentale non si fanno più figli. Il potere non risiede più nel
riprodurre la vita iscritta nella parola e nel Nome della stirpe ma nella capacità
di riprodurre la vita iscritta nel codice informatico.
Monismo
Col crollo
del patriarcato viene meno, un pezzo per volta, anche tutta la metafisica
sottostante. Non semplicemente i rapporti tra uomo e donna e tra padre e figli,
ma l’idea stessa di una natura passiva segnata da un’azione della cultura. Non
a caso l’odierno pensiero ecologista – da Bruno Latour a Timothy Morton – e
alcune avanguardie del pensiero femminista – da Donna Haraway a Jane Bennett a
Karen Barad – non si limitano a mettere in questione l’idea di un mondo in cui
la natura sarebbe inerte e passiva e l’agency un’esclusiva
dell’essere umano, ma smontano lo stesso dualismo natura/cultura prediligendo
una visione monista: tra la materia inorganica e l’organizzazione organica in
tutte le sue forme, compresa la vita umana, non c’è soluzione di continuità. Già
nei primi anni Novanta Judith Butler aveva mostrato come il paradigma di una
cultura (attiva) che incide/insemina/plasma la natura (passiva) è un paradigma
pregiudicato che informa anche la nostra concezione di sesso/genere, per cui vi
sarebbe un sesso (naturale) come base e supporto sul quale viene poi a
iscriversi il genere (culturale)[5].
A non
reggere più è un intero sistema di metafore, di dualismi, di partizioni e di
ruoli (passivo/attivo, naturale/culturale, femminile/maschile) che tentano
ancora di catturare la vita e la sua riproduzione a patire dalla logica del
Nome. Il crollo coincide con un grande processo di emancipazione della vita
individuale e sociale mentre tutti i vincoli si spostano altrove. Vincolante è
ora solo la logica del Numero, le cui promesse di libertà e le cui nuove forme
di schiavitù sono tutte da vagliare.
Note
[1] Lacan ne parla nel Séminaire,
Livre IX, L’identification (1961-1962), inedito.
[2] Cfr. Eschilo, Orestea.
Agamennone, Coefore, Eumenidi, Mondadori, Milano 2017.
[3] Sul dominio dell’uomo sulla
donna cfr. Aristotele, Politica, Laterza, Roma-Bari 1973, in
particolare 1252a-1252b.
[4] Cfr. in merito il fondamentale
lavoro di Claude Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela,
Feltrinelli, Milano 2010.
[5] Cfr. J. Butler, Corpi
che contano. I limiti discorsivi del “sesso”, Feltrinelli, Milano 1996.