Bruciare erbe o
essenze odorose è dai primordi dell'umanità aprire un canale di
comunicazione con dimensioni altre e superiori. L'uso di profumi
(l'incenso ad esempio) come strumento di purificazione, ma anche come
segno di trasmutazione della materia. Da qui l'uso, presente in tutte
le culture, di sostanza odorose nei riti religiosi, ma anche
nell'alchimia, e nell'uso simbolico che ne fa Dante nella Divina
Commedia.
Raffaele K. Salinari
Il profumo, incanto e
sortilegio
Cosa c’è di più
effimero e, al tempo stesso, più penetrante di un profumo? Quando le
immagini legate ai ricordi scompaiono e la memoria rincorre vanamente
una data, un luogo, un nome, quando tutto nella mente è silenzio,
basta il solo il richiamo di un’essenza per rievocare il passato
senza forma con la potenza del presente.
La parola profumo deriva
dal latino per fumus che si riferisce al suo uso sia nelle
cerimonie sacrificali verso la divinità, sia per raggiungere quello
stato di estasi, di uscita da se stessi, che consente il
ricongiungimento con l’Essere. Se, infatti, la luce è la
manifestazione del Divino, il profumo è la quintessenza dello
Spirito. Ma, poiché «ciò che è alto è come ciò che è in basso»
– secondo quanto sostiene la Tavola Smeraldina di Ermete
Trismegisto, il testo alchemico al tempo stesso più poetico e
criptico – esso è anche un potente indicatore dell’Opera. E
ancora, mentre il profumo, o l’essenza odorosa, sono strumenti per
così dire ascensionali, cioè di elevazione verso il divino, il loro
contrario, il lezzo, la puzza, i miasmi, evocano invece il mondo
infero, quello della discesa verso la pura materialità senza
spirito. Ecco che, allora, attraverso gli odori, vediamo emergere
collegamenti ermetico-archetipici, ad esempio tra il bel Narciso e
l’epicureo Farinata degli Uberti, o tra l’Opera al Nero e quella
al Bianco.
La Bibbia
Un esempio fondante di
uso sacrificale del profumo ci viene direttamente dalla Bibbia:
nel Genesi 8-21, infatti, Noè esegue, dopo il Giudizio
Universale, l’ordine di Dio di sbarcare e lasciar uscire gli
animali salvati «perché possano diffondersi sulla terra, siano
fecondi e si moltiplichino su di essa». Il patriarca obbedisce ma,
per assicurarsi che il Signore non ci ripensi, eleva un altare ed
offre in sacrificio animali ed uccelli «mondati da ogni impurezza».
E qui il testo biblico ci dice che «il Signore ne odorò la soave
fragranza e pensò che non avrebbe maledetto più il suolo a causa
dell’uomo»; così, finalmente, dopo questo sacrificio, la vita
poté ricominciare. Interessante notare come Dio trovi «soave» la
fragranza degli animali uccisi in suo onore e che sia proprio questa
sensazione olfattiva a fargli decidere in favore della permanenza
della vita sulla terra. Da questa primissima testimonianza biblica,
dunque, possiamo già capire il significato essenziale che
nell’antichità si attribuiva al ruolo del profumo, dato che senza
di esso, forse, Dio avrebbe deciso altrimenti.
Anche la classicità
greca annovera molti miti che ci parlano della nascita delle essenze
profumate, tutte legate, non a caso, ad una relazione essenziale, è
il caso di dirlo, con i quattro elementi fondamentali: aria, acqua,
terra, fuoco, cioè con una lettura alchemica e trasmutativa del loro
uso. I più emblematici, a questo riguardo, sono certo quelli che
descrivono la nascita dell’incenso, della mirra e del fiore di
narciso.
Mirra e Incenso
Riguardo al primo,
Ovidio, nelle sue Metamorfosi, narra come Il dio Sole fu il
primo a sapere dell’adulterio di Venere con Marte e, indignato, lo
raccontò a Vulcano, legittimo marito della dea. Questo, per
coglierli in flagrante, fabbricò catene di bronzo, reti e lacci così
sottili da sfuggire alla vista, poi li dispose intorno al letto e
fece in modo che scattassero al minimo tocco. Una volta scoperti gli
amanti, Vulcano chiamò tutti gli dei ad assistere alla scena, e
questo fu motivo di chiacchiere per eoni nelle sale olimpiche.
Qualche divinità, Mercurio in particolare, disse anche chiaramente
che avrebbe voluto trovarsi al posto di Marte. Ma la dea decise di
umiliare con un amore tragico chi l’aveva umiliata; ora, in quel
tempo fuori dal tempo, il Sole era innamorato di Leucòtoe, figlia di
Eurinome, la più bella ninfa che esistesse nel paese del re Orcamo.
Si narra che una notte il dio entrò nella dimora della ragazza e,
dopo aver mandato via le ancelle, le svelò la propria identità,
possedendola con la forza. Ovidio ci dice che ella «subì la
violenza senza lamentarsi». Qui entra in scena la sorella di
Leucòtoe, la ninfa Clizia che, infiammata d’amore per il Sole da
parte di Venere, e dunque ingelosita dell’accaduto, racconta tutto
al padre che, furibondo, seppellisce viva Leucòtoe in una fossa
coprendone il tumulo di macigni. Il sole cerca allora con i suoi
raggi di liberare la fanciulla, ma gli sforzi non servono a niente, e
così cosparge di nettare profumato la sepoltura; alcuni giorni dopo
nasce un virgulto d’incenso che raggiunge il cielo e quindi il dio
Sole. Clizia, a cui il Sole non volle mai avvicinarsi, presa
dall’angoscia, per nove giorni non toccò cibo né acqua, non si
mosse da terra ed il suo corpo iniziò ad aderire al suolo: si
trasformò così in un girasole, il fiore che osserva e ammira il
sole da lontano.
Qui l’incenso è
l’essenza che simboleggia la mediazione tra due corpi essenziali,
cioè tra l’elemento fisso e passivo per eccellenza, la terra, e
quello massimamente mobile ed attivo, il fuoco, poiché, pur nella
loro diversità, essi condividono la secchezza, una delle qualità
degli elementi fondamentali insieme all’umidita, al calore ed al
freddo. Nella visione alchemico latomistica dei quattro elementi,
ognuno ha con un altro una qualità in comune: caratteristica
fondamentale perché rappresenta la base della trasmutazione dell’uno
nell’altro, e dunque la ciclicità della Vita. Ritroveremo più
avanti la pienezza di questa immagine nelle cerimonie indù.
Anche nella storia dei
Magi i doni hanno lo stesso valore simbolico archetipico: da una
parte ritroviamo l’oro, cioè il Sole, il fuoco creatore, che
simboleggia la regalità, l’eternità della Vita, della Zoé nella
sua continuità, nell’insopprimibile ciclicità. Alla polarità
opposta ecco invece la mirra: simbolo della morte e della rinascita,
un’essenza con la quale si conservavano i corpi, di sapore amaro
come il transito verso l’oltre tomba.
Anche la sua origine ce
la racconta un mito: il brevissimo racconto dello Pseudo-Apollodoro
dell’amore incestuoso tra Teia, un re assiro, e la figlia
Smyrna, Mirra appunto, punita da Afrodite per la sua scarsa
devozione con l’amore verso il genitore. La ragazza riesce con
l’inganno a giacere col padre fino a quando egli non la scopre e la
insegue per ucciderla. Smyrna fugge e gli dei la trasformano in un
albero dalla resina profumata: la mirra appunto. Dopo nove
mesi la pianta si apre e dal suo fusto viene alla luce il
bellissimo Adone, a sua volta amato da Venere e Persefone, la
cui nascita dall’albero-donna rappresenta, allo stesso modo della
preziosa gommaresina, un mito di morte e resurrezione: il bel giovane
morente, azzannato da un cinghiale, feconda la terra col suo sangue
facendo così rinascere la primavera. Le Adonie venivano,
infatti, festeggiate nell’antica Grecia in questo periodo.
Ed infine l’incenso,
che bilancia gli altre due elementi; simbolo della purificazione,
ovvero del percorso di una vita che vuole arrivare alla morte in modo
consapevole, chiudendo un ciclo affinché se ne possa aprire un
altro. La stessa visione la troviamo alla base di antiche religioni
orientali come l’induismo, il buddismo ed il jainismo. Si parla di
incenso già nei Veda, gli antichi testi sacri scritti nel 2200
a. C., dove se ne descrive l’impiego come vero e proprio
farmaco della medicina ayurvedica. Ma l’uso religioso dell’incenso
si manifesta appieno durante il rituale induista, buddista e jainista
quando, durante laPuja, cioè la preghiera, viene offerto alla
divinità per mostrargli devozione, per allontanare i demoni, oltre
che in segno di purificazione interiore: l’incenso, bruciando,
simboleggia il fuoco che trasmuta la materia in spirito.
Eco e Narciso" (1903), di John
William Waterhouse.
Narciso
Il mito di Narciso è
indicativo della relazione che unisce profumo e ricongiungimento
all’Origine. In questa storia troviamo come protagonisti la ninfa
Eco e Narciso che, a differenza di come lo presenta Freud
descrivendone la celebre nevrosi, non è un essere umano, in quanto
figlio di una ninfa marina, Liriope, che significa «dagli occhi
sfacciati», quelli che il figlio erediterà per guardare la sua
immagine riflessa nella pozza d’acqua, e del dio del fiume Cefisio
che l’aveva violentata.
Ora, rileggendo il mito,
troviamo che il giovane Narciso si accosta, nel folto di un bosco, ad
una pozza di acqua che Ovidio definisce incontaminata, cioè che
nessun animale, umano o foglia, avevano mai toccata. Questo è un
particolare importante nell’economia del mito, perché significa
che siamo in presenza di un’acqua originaria, archetipica, l’acqua
stessa della Creazione, la Madre delle acque, come avrebbe detto
nelle Grandi Odi Paul Claudel.
Dunque siamo di fronte
all’acqua come elemento essenziale, la stessa acqua di cui è
composto Narciso che, osservando la sua immagine riflessa, non
capisce subito il sentimento che lo accende: in realtà l’acqua
dentro di lui vuole unirsi a quella fuori di lui. Il mito, allora, ci
narra di un ricongiungimento mancato: “Ciò che desidero è in me:
un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo!
Desiderio inaudito per uno che ama: volere più distante chi
amiamo!”.
La cecità di Narciso è
evidente, ma questa è spiegata, in qualche modo, anche dalla sua
postura originale, dal suo «sguardo orizzontale». Egli, infatti,
incontra la sua immagine quando è steso sull’erba; è in quel
momento che se ne invaghisce, non solo perché essa è ambigua, ma
anche perché la posizione non gli consente la profondità: la sua,
infatti, è una visione superficiale. E qui il mito ci porta verso
una nozione iniziatica classica: il rapporto tra piano di esistenza
orizzontale e quello verticale: in altre parole le due braccia nel
simbolismo della croce. Guénon in questo è molto chiaro: mentre il
piano orizzontale è quello sul quale il Principio creatore si
riflette per generare uno specifico stato di esistenza – come un
raggio verticale su di uno specchio orizzontale – l’essere
contingente può, percorrendo l’esistenza in questo senso, arrivare
a comprendere solo la parte determinata di se stesso e le sue
relazioni con le altre forme condizionate. È il piano dei Piccoli
Misteri della tradizione orfica. Il piano verticale è invece quello
che bisogna risalire per il ricongiungimento col Principio, per
trascendersi, e così tornare all’Origine che è anche la Meta: la
realizzazione della Liberazione, i Grandi Misteri. Sintetizzando: se
il piano orizzontale è analogico, quello verticale è anagogico.
Ecco allora che solo dopo
essersi alzato, innalzato, Narciso coglie l’immagine nella sua
reale profondità, capisce che è la sua, che si tratta cioè di
acqua che vuole tornare alla sua fonte, ma è troppo tardi:
l’illusione lo ha oramai totalmente in suo dominio, ne ha
obnubilato la mente. Sarà solo nel morire che la comprensione si
emenderà, raggiungerà il suo télos. Qui troviamo una metafora
potente della nostra modernità mediatizzata: siamo irretiti da
immagini superficiali di noi stessi. Come nel caso di Narciso
dovremmo capire che solo raddrizzando lo sguardo torneremo sulla
«retta via» dantesca, ritroveremo cioè il senso autentico
dell’esistenza, la sua profondità, la sua Origine. Ed infatti il
mito di Narciso, che Freud aveva ridotto ad un disturbo del singolo,
è diventato oggi la cifra di una società massificata in cui troppi
individui sono come distaccati dalla realtà di se stessi: siamo una
civiltà narcisistica non tanto perché innamorati della nostra
stessa immagine, ma perché la serviamo senza scrupoli, incapaci, per
colpa di questa totalizzante soggezione, di vivere un’autentica
relazione con quell’Acqua da cui tutti veniamo, ed alla quale tutti
aneliamo a tornare.
Ma il mito va letto sino
in fondo per trovare questa via. Ecco che allora gli dei pietosi
trasformano il bel giovane nel fiore che porta il suo nome: il
narciso essenza dell’oblio di se stessi, da cui il termine narcosi.
E qui la narcosi è intesa come abbandono della coscienza razionale e
lucida, per entrare nella rêverie ad occhi aperti. Per trasmutarsi
Narciso entra trasognato nella sua materia per farsi
sognareda essa. Certo a questa particolarità dell’immaginazione
poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto
IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di
cui sono fatti i sogni».
E allora, nell’ultimo
viaggio, Narciso, il reveur della materia acqua, non
rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma
un vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l’essenza
acquorea della sua natura. Ed in questo ricongiungimento totale e
totalizzante la sua solitudine, invero sdoppiata, si ricompone,
poiché, nella stessa immagine, convivono sia la madre che la ninfa
Eco, riflesso aereo di quello acquoreo. Eco non è una ninfa lontana:
vive infatti sul fondo della sorgente. Eco è dunque incessantemente
con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso: ciò che è in
alto è come ciò che è in basso. Sarà allora trasportandoci in
questo stato narcotico che il fiore del narciso ci consentirà di
silenziare l’Ego-Eco, cioè quella parte ridondante del nostro
essere che, secondo tutte le tradizioni sapienziali, va abbandonata
se si vuole raggiungere la conoscenza.
Inferno, Paradiso e
Grande Opera
La summa della relazione
tra potere discendente ed ascendente degli odori è decisamente
laCommedia dantesca. Il primo compare ovviamente nell‘Inferno,
il secondo nel Paradiso. Per quanto riguarda quelli legati al
mondo infero, nei Canti X e XI, ad esempio, dedicati agli eretici,
Dante fa del fetore una componente centrale delle sue terzine. Qui il
Poeta utilizza un’analogia tra la sgradevolezza dei miasmi e la
gravità delle pene: tanto più aumentano le seconde, tanto più si
fa sentire il puzzo che l’abisso infernale esala. È una sorta di
legge del contrappasso olfattivo quella che Dante utilizza nella
Commedia, una componente aromatica della formula
V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies
Occultum Lapidem, cioè visita la tua terra interiore e
rettificandoti otterrai la pietra occulta, cioè la verità di te
stesso. È questa la ricerca che spinge Dante ad avventurarsi nel suo
viaggio, non a caso prima discendente, poi ascendente verso il Motore
Immobile, ed è anche una indicazione chiara delle natura esoterica
della Commedia.
Anche Fulcanelli
nel Mistero delle cattedrali, ci parla dell’odore che
individua le fasi dell’Opera: «La Terra è nera, l’Acqua è
bianca; l’aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce; l’etere
è rosso. La morte è nera, la vita è piena di luce… Ora l’odore
di un morto non è forse molesto all’odorato? Così l’odore
fetido di cui parlano gli Alchimisti indica la fissazione; al
contrario l’odore gradevole indica la volatilità, perché essa si
avvicina alla vita ed al calore».
La stessa progressione
nauseabonda si evidenzia chiaramente nel passaggio dal Canto IX. v.
31, quando dice: “Questa palude che ‘l gran puzzo spira”, al
XI. v. 5: “Del puzzo che ‘l profondo abisso gitta”, per
arrivare infine, nel XXIX. v. 50 al: “Tal era quivi, e tal puzzo
n’usciva” tanto che, una volta cessato il dialogo con Farinata, i
due viaggiatori sono costretti a ripararsi dietro il coperchio della
tomba di Papa Anastasio II, “Traviato da Fotino fuori della diritta
via della vera fede”, cercando così di scappare da un odore che li
aggrediva quasi avesse una sua corporeità fisica.
Ma il puzzo che emana da
questa tomba è oltremodo insopportabile, tristo fiato lo
chiama Dante, perché Anastasio II, pontefice, forse, dal 496 al 498,
era considerato da lui un eretico peggiore di Farinata, un semplice
nobile e non il successore di Pietro. Se Dante non ha perdonato
l’ateismo di Farinata e Cavalcante, come potrebbe perdonare quello
di un Papa che del Cristo vedeva solo l’umanità? Era infatti il
monofisismo la sua eresia, nel tentativo di ricomporre il primo
scisma tra Oriente ed Occidente.
La natura, ed anche il
senso, dei profumi, cambia decisamente nel Paradiso, in cui
presso la Candida Rosa dei beati, nel Canto XXX, Beatrice conduce
Dante verso il Primo Mobile. Sappiamo, perché ce lo fa capire
magistralmente Borges nei suoi Nove saggi danteschi, che la
Commedia altro non è che un tributo alla bellezza di Beatrice, la
donna-angelo di Dante che, in quanto iniziato alla Confraternita dei
Fedeli d’Amore, di impronta neoplatonica, vedeva nella donna
angelicata il veicolo verso la Divinità:Beatrice, mentre egli taceva
pur volendo parlare, lo conduce al centro della Rosa Eterna, che
«emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera». Qui il
vortice dei beati sembra come «inebriato da li odori»:
immagine somma dell’essenza che giunge, finalmente al Divino per
fumus.
Il Manifesto/Alias – 6
luglio 2019