28 luglio 2019

LE MADRI DEI POETI






A mia madre

Quando più non ci fu, la posero nella terra.
Su di lei fiori sbocciano, scherzano le farfalle.
Era leggera lei, premeva la terra appena.
Quanto dolore ci volle per farla così leggera!

B. Brecht, da Poesie. Testo a fronte, ET Poesia, 2014

25 luglio 2019

SALVATORE S. NIGRO SU CAMILLERI




«E' stato un grande scrittore», Salvatore Nigro, amico di Camilleri, ricorda l'inventore di Montalbano

di Andrea Velardi


Salvatore Silvano Nigro è l’autorevole letterato, docente presso prestigiose università americane, che è stato per anni amico di Andrea Camilleri e ha scritto dal 2001 tutti i risvolti di copertina dei suoi libri. Abbiamo sollecitato i suoi ricordi a due giorni dalla scomparsa del grande affabulatore.

Lei ha conosciuto Andrea Camilleri in tempi non sospetti, apprezzandolo ancor prima che diventasse famoso.

Certamente fu la grande Elvira Sellerio a farci conoscere, la prima a comprendere che Camilleri poteva avere successo non nonostante, ma grazie al suo siciliano. Dobbiamo ricordare che il problema era cruciale per Leonardo Sciascia, che apprezzava le ricerche storiche ma si poneva il problema di come un non siciliano potesse accostarsi ai libri di  Camilleri. Il primo incontro ideale avvenne nel 1984 complice “La strage dimenticata” un libro fortemente voluto dal lungimirante Sciascia che ne riscrisse completamente il risvolto di copertina.  Sciascia conosceva i miei studi su Manzoni e voleva che apprezzassi quel libro così ispirato alla “Storia della Colonna Infame”.
Ma, come dicevo fu Elvira Sellerio a creare le condizioni per la nascita della nostra amicizia. Nel 1996 mi cercò molto preoccupata perché nessuno a Palermo voleva presentare il romanzo “Ladro di merendine”, il terzo romanzo della serie di Montalbano pubblicato dopo “La forma dell’acqua” e “Il cane di terracotta” Era una situazione penosa e scandalosa in effetti perché su Camilleri aleggiava lo stigma di essere considerato uno scrittore pop e non letterario. Elvira mi pregò di presentarlo perché io insegnavo alla Yale University e dovevo rientrare in Italia, per qualche giorno, perché il mio libro La tabacchiera di don Lisander, pubblicato da Einaudi, era in finale al Premio Viareggio e io diedi volentieri il mio fregio di professore all’opera di Camilleri rispondendo all’invito della Sellerio. Da allora è nata una affettuosa amicizia tra noi e così dal 2011 ho firmato le bandelle, i risvolti di copertina di tutte le sue uscite”.

Pochi anni dopo lei cura la raccolta dei Romanzi storici e civili del secondo dei due Meridiani Mondadori dedicato al famoso “cuntastorie” e inventore di Montalbano. Il primo nel 2002, dedicato tutto alla serie del commissario, fece storcere il muso a molti intellettuali. Ricordiamo ancora Maria Luisa Spaziani, che pure regalava compiaciuta a tutti (anche al sottoscritto) il primo romanzo di Camilleri “Un filo di fumo”, come libro dalla straordinaria comicità,  incredula e scandalizzata per quella consacrazione considerata come indebita, mentre lei era ancora in attesa del suo Meridiano che sarebbe uscito solo nel 2012.

Io in verità sono più scandalizzato di un Meridiano dedicato alla Spaziani! Quello che ho curato aveva un’appendice fantasmagorica. Quando Camilleri scriveva i romanzi storici, produceva dei veri falsi letterari in italiano secentesco e in latino che Sellerio non aveva pubblicato, come l’atto di nascita e la biografia del protagonista del Re di Girgenti. Per questo nel Meridiano ricordo che l’aiutante dell’abate Giuseppe Vella nel Consiglio d’Egitto di Sciascia porta il nome di Camilleri e ha origini maltesi come la sua famiglia. Come Vella si era inventato un finto arabo, che era in realtà un dialetto maltese travestito, così Camilleri ha inventato una nuova lingua travestendo letterariamente il dialetto siciliano. Una lingua che ha un ruolo fondamentale nei suoi libri, perché crea quel divertissment di cui è impregnato il suo giallo, in cui al plot classico dell’inchiesta viene aggiunta una comicità strategica, affatto fine a se stessa. Infatti le burle di Montalbano servono per risolvere il caso, sono delle trappole tese dal commissario a chi non vuole confessare. Camilleri aveva appresso quest’arte da una novella del quattrocento, “Il grasso legnaiuolo” a cui Brunelleschi fa uno scherzo con la complicità di Leon Battista Alberti e Donatello facendogli credere di essere un’altra persona. Sono le beffe tipiche del “tragediaturi”, il burlone fondamentale nell’opera di Camilleri.

Il caso di “tragediaturi” è assai significativo rispetto alla invenzione del vigatese sul calco del dialetto siciliano perché la parola ha due significati diversi a seconda delle zone dell’isola. Proprio Sciascia distingueva in “Kermesse” l’accezione palermitana e quella di Racalmuto. Nella provincia del capoluogo “tragediaturi” è  chi tiene i familiari e gli amici in “tribulo” (bell’esempio parola di seconda importazione e ritorno del siciliano trapiantato a Little Italy derivata da “trouble”),  chi reagisce in maniera spropositata a questioni da poco (fa un macellu pì nà cosa di nenti), con fare che risulta anche tragicomico, o molto snervante, mettendo zizzania,  enfatizzando gli errori altrui, calunniando,  “dicennu cosi chi un su veri pi aggravari nà situazioni”. Nell’agrigentino è diffusa invece un’accezione molto peculiare che è quella che entra nel vigatese di Camilleri. “Tragediaturi” è un pirandelliano ragionatore e un sofista, che  diffida anche delle cose buone e belle,  “mugugna aspettandosene il rovesciamento, l’inevitabile avvento del contrario”, un «ingegnoso nemico di se stesso», esperto nella scienza del peggio, che ha una versione più popolare e comica appunta nel burlone, che si fa continua beffa del genere umano. Questo caso conferma la versatilità e creatività del vigatese che non è una semplice replicazione del siciliano letterario o parlato. A questo proposito ricordiamo che lei professore è sempre stato uno strenuo difensore del vigatese, di quel siciliano letterario che non sarebbe un semplice prodotto nazional-popolare di consumo.  Come ha fatto questo miscuglio a imporsi a milioni di lettori?

Perché è una lingua inventata e quindi funziona più attraverso il suono che il significato. Anche se un milanese non capisce che taliari vuol dire guardare, lo intende da come è costruito il contesto.  Dopo le prime perplessità, nate dal riferimento di Sciascia ad una lettera di Verga a Luigi Capuana in cui si dice che uno scrittore siciliano deve avere 'i polmoni larghi', l’autore de “Il giorno della civetta” aveva capito che Camilleri andava oltre la Sicilia, aveva inventato un mondo - Vigàta – con la sua lingua: il vigatese. Che oggi è parlata da milioni di lettori nel mondo.

Quale episodio significativo ricorda, soprattutto dell’ultimo periodo, quello della vecchiaia, la stagione “nivura” diremmo in siculo-vigatese, quella in cui Camilleri si sarebbe potuto definire un po’ “accutufatu”, pieno d'acciacchi, ma in cui non sembrava mai “arraggiato” o “cardascioso”, ma anzi era perfino incurante della morte?

Siamo diventati amici sul lavoro, l’ho conosciuto tardi con una differenza di età di venti anni. Parlava in vigatese anche con me, ma, al contrario di quanto si può pensare, non sono mai riuscito a sentirlo come un fratello, ma più come uno zio, ed ero molto intimorito da lui. Confesso che sono rimasto stupito dalla sua imperturbabilità nel periodo della vecchiaia piena di serie “camurrie” come quella della cecità. Ma lui dava sfoggio di quell’autoironia spontanea in un uomo dall’estro comico straordinario, maestro della burla e della “babbiata” anche su se stesso.

Aveva ancora qualche frustrazione rispetto al dibattito creatosi attorno alla sua opera?

Al contrario aveva una grande consapevolezza del suo valore, ha proceduto per la sua strada senza timore avendo ragione alla fine su tutti. Con grande umiltà. Io ho scritto tutti i suoi risvolti di copertina, ma nella mia attività editoriale ne ho scritti a centinaia, l’autore voleva intervenire, proporre una correzione, invece Camilleri non è mai intervenuto ha sempre accettato la parte e il ruolo di chi fa la bandella. Nessuno ha avuto un successo simile al suo. Ci sono autori che hanno avuto successo con un romanzo come Eco con “Il nome della rosa”, ma Camilleri lo ha avuto con tutti i suoi libri. Ricordo che un anno ci furono ben quattro suoi libri in classifica, cosa che non è mai accaduta in nessuna parte del mondo.

Da IL MESSAGGERO,  Domenica 21 Luglio 2019


ANNIBALE C. RAINERI, Carola è Antigone






Ricevo e con piacere pubblico l'articolo di un carissimo amico:




CAROLA È ANTIGONE?
di Annibale C. Raineri 23 luglio 2019




L’azione di Carola Rackete ha richiamato in molti commentatori la figura di Antigone. I punti di contatto fra la capitana della Sea Watch 3 e la mitica figura rappresentata da Sofocle sono molti ed immediati. Anzitutto si tratta di due donne (cosa evidente e fondamentale, anche se spesso non presente nei commenti), ambedue agiscono in violazione cosciente della (di una) legge emanata dal (da un) potere sovrano, disobbedendo agli ordini e sapendo di andare incontro a conseguenze di cui si assumono la responsabilità. Ambedue rivendicano, a fronte di quel potere e delle sue leggi, l’obbligo nei confronti di leggi superiori, la cui legittimità non può in alcun modo essere messa in questione. Nella lettura di alcuni commentatori violare la legge (“l’ordine del potere sovrano”) è non solo un diritto (il diritto alla disobbedienza civile), ma un dovere quando la legge della città contraddice la legge della coscienza (“degli dei”). 
Scrive Raffaele K. Salinari su “il manifesto” del 28 giugno:
«La memoria torna all’Antigone di Sofocle, che scelse la pietà verso il corpo del fratello insepolto e per questo fu condannata dalle leggi che il nuovo sovrano aveva promulgato. Eppure, esiste qualcosa oltre la legge, anzi, esiste qualcosa prima delle leggi, ed è ciò che ci fa avvertire nel profondo il senso di appartenenza alla stessa specie: quella umana.»
L’icona di Antigone che alcuni, fra cui io stesso, vedevano in trasparenza nella immagine di Carola arrestata dai finanzieri, era sostenuta da un potente moto di emozioni che cercavano in essa una rappresentazione simbolica ed insieme, per proiezione, una qualche rassicurazione di quel coraggio e quella determinazione che a noi tutti (a me prima di tutti) manca nella nostra quotidiana inerzia di fronte alla disumanizzazione che cresce.
Mi interrogo se in questa associazione Carola Rackete/Antigone prevalesse la iscrizione di un evento – l’azione di una donna – in un ordine simbolico, o semplicemente la proiezione immaginaria (tanto più efficace quanto più le immagini chiamate sulla scena sono altisonanti) di un noi rassicurato sulla propria impotenza.


Mentre camminavo nella manifestazione di protesta del 2 luglio una mia amica ed un mio amico, vecchi compagni di battaglie alla Regione, criticavano aspramente questa lettura del conflitto fra la Capitana Rackete e Salvini. Se ho ben capito il filo del loro ragionamento aveva due assi principali: da un lato l’analogia fra Carola e Antigone implica l’analogia fra Salvini e Creonte. Orbene, Creonte non è, nel mito e nella tragedia sofoclea, l’icona del “cattivo”, è al contrario la figura tragica che porta il peso della autorità/sovranità statuale. È lo stato che impone le leggi affinché la città possa esistere. È la figura tragica del potere della città attraversato da antinomie irrisolvibili perché ad essa immanenti. Leggere il conflitto Rackete/Salvini attraverso il conflitto Antigone/Creonte significherebbe legittimare Salvini in quanto rappresentante della “legge della città”, rappresentante del legittimo potere sovrano.
Al contrario, e questo sarebbe il secondo asse del ragionamento, il conflitto che abbiamo visto all’opera è fra la “legge della città” – codificata nella carta costituzionale e nelle norme del diritto internazionale – e chi quelle leggi sovverte, sebbene, cosa particolarmente grave, dalla posizione di “ministro della repubblica”. Nascondere la natura di questo conflitto con la retorica del conflitto fra legge della città e legge degli dei, o della coscienza, il che è lo stesso, significa cadere nel gioco illusionistico con cui si tenta di cancellare dalla coscienza comune (civile) la fatica con cui il costituzionalismo democratico post-seconda guerra mondiale – impostosi a seguito delle tragedie della guerra e delle tragiche esperienze dei totalitarismi (alcuni nati con procedure “democratiche”) – ha posto limiti invalicabili al potere sovrano, ancorché legittimato dal voto popolare, in materia di diritti inviolabili delle persone.
Il conflitto non è quindi fra la legge di dio e la legge degli uomini, ma “tra la umana giustizia e i regolamenti di polizia” secondo la espressione di Piero Calamandrei nella arringa in difesa di Danilo Dolci (1956) richiamata da Tomaso Montanari e Francesco Pallante nell’articolo su “il manifesto” del 2 luglio dal significativo titolo Antigone è la Costituzione.


Tuttavia io credo che, se da un lato è necessario svelare il carattere sovversivo del disegno politico di Salvini – mettendo in evidenza la contraddizione fra i valori che esprime la sua azione, come leader politico e come ministro, ed i valori della Costituzione e del diritto internazionale in materia di diritti inviolabili delle persone – dall’altro l’immagine del conflitto rappresentato nella tragedia di Sofocle ci aiuta a ricostruire l’ordine simbolico grazie al quale potere iscrivere il nostro essere nel tempo che viviamo. Credo infatti che fronteggiare il dilagare di un potere disumano che penetra negli ambiti delle relazioni quotidiane, diventando sempre più senso comune, retto dallo scambio immaginario fra offerta di sicurezza – la cui domanda è alimentata artatamente – e rinuncia alla libertà, sia possibile solo rimettendo al centro del discorso comune un’idea di umanità irrinunciabile. Obbligazione ad un agire umano cui dare testimonianza attiva e inerme, assumendosi le conseguenze dei propri atti a fronte di una legge sempre più ingiusta. Solo la testimonianza di indisponibilità a rinunciare alla coscienza può rompere la crosta di ovvietà, di datità, che il potere che si pretenderebbe senza-limite cerca di costruire attorno a sé.





17 luglio 2019

LA PESTE STALINISTA NEL CINEMA DI ANDRZEJ WAJDA







Visto stasera un gran film di Andrzej Wajda: Il ritratto negato (Powidoki). Si tratta dell'ultimo film del grande regista polacco,  presentato il 10 settembre 2016 al Toronto International Film Festival, circa un mese prima della morte di Wajda.
Il film è una biografia di Władysław Strzemiński, pittore e teorico dell'arte che, nella Polonia sovietizzata del dopoguerra, viene vessato dal regime perché non aderisce agli stereotipi del realismo socialista.
Un film agghiacciante che spiega, meglio di tanti libri, una delle non ultime ragioni del fallimento dell'URSS.(fv)

A CIASCUNO IL SUO CAMILLERI









A ciascuno il suo Camilleri


di Gianni Biondillo

Non l’ho mai conosciuto. Non c’è amico scrittore, soprattutto di genere, che non abbia un aneddoto con Camilleri. Me ne hanno raccontati per anni. Il mio è, banalmente, che non l’ho mai conosciuto. Più di una volta ho vagheggiato un incontro in qualche festival letterario, oppure ho programmato un viaggio a Roma per il solo piacere di parlargli, ma niente da fare. Così oggi ho la certezza che Camilleri resterà quello che è sempre stato per me: un personaggio mitologico, inventato, ultraumano. E il nostro rapporto l’unico possibile, quello corretto, unanime. Da scrittore (lui) a lettore (io).
Il primo romanzo che ho letto di Camilleri non fu un Montalbano e questa, in un certo senso, è stata la mia fortuna di lettore. Lessi Un filo di fumo, libro pubblicato nel 1980 e, all’epoca, perfettamente dimenticato da tutti. Era il secondo romanzo di Camilleri, dove appariva per la prima volta una Vigata storica, di fine Ottocento. Rimasi affascinato, ovviamente, dalla lingua misteriosa: non italiano, non siciliano. Scoprii, così, un autore dotto, di nicchia, capace di raffinatezze linguistiche gaddiane.
Poi l’autore di nicchia divenne autore di culto, così, d’improvviso. Capita, ogni tanto. Capita che un personaggio esploda fra le mani dell’autore e prenda una vita propria. Così fu con Montalbano, chiamato in quel modo in onore di un amico scrittore spagnolo (Manuel Vázquez Montalbán).
Camilleri, da questo punto di vista, aveva frantumato ogni luogo comune del mondo letterario dell’epoca. Non c’era bisogno d’essere un giovane talento per dire qualcosa di nuovo; non era vero che la scrittura dei gialli fosse piatta e senza ricerca; meno che mai che un giallo non potesse – come ipotizzavano Calvino e Savinio – avere scenari domestici. Il Camilleri dotto, il regista teatrale che aveva portato sulle scene per la prima volta in Italia Beckett e Ionesco, il delegato RAI che aveva curato il mitico Maigret con Gino Cervi, il giovane poeta già antologizzato da Ungaretti e Quasimodo, l’amico fraterno di Sciascia e di D’Arrigo, lo sapeva. Ma lo sapeva perché l’aveva compreso frequentando ad Enna, in gioventù, Francesco Cannarozzo, giallista che ambientò in Sicilia, ben prima di Sciascia, le storie del suo commissario. Che poi è la peculiarità del romanzo di genere italiano: non tanto trame intricate come partite di scacchi dove i personaggi sono pedine al servizio del plot, ma la trama come pretesto per scandagliare e raccontare l’umanità mutevole e dolente del nostro paese.
Camilleri è stato determinante in Italia per smantellare i pregiudizi sul genere. Prima di lui, non ostate avessimo già avuto un autore della qualità di Scerbaneco, chi scriveva un giallo veniva trattato come uno scrittore di romanzi pornografici. Roba da malati, robaccia da edicola, da sala d’aspetto. Il fastidio della letteratura colta, quella col lauro in testa, a dover ammettere che si potesse lavorare sull’impasto linguistico e sulla trama contemporaneamente, che si potesse fare intrattenimento di qualità, che si potesse fare letteratura, insomma, anche con la narrativa di genere credo sia diventato rabbia smodata, dolore allo stomaco, ulcera perforata, quando, Camilleri in vita, apparve il primo Meridiano di Montalbano. Follia, vergogna, vituperio! Un giallista al pari dei grandi della letteratura patria! Chissà le risate che si sarà fatto Camilleri.
Che poi ognuno ha il suo, di Camilleri. Ammetto che il mio non contempla la serie di Montalbano. Ne ho letti alcuni, mi hanno divertito, ma il culto attorno al personaggio, scatenato dalla serie televisiva, non mi ha mai particolarmente coinvolto. Il mio Camilleri è – colpa come dicevo del mio primo incontro con lui – quello storico. Quello della Concessione del telefono o, per dire, del Re di Girgenti. Non dimenticherò mai la sensazione di vertigine che ebbi tenendo fra le mani Il birraio di Preston. La certezza che stavo leggendo uno scrittore (all’epoca non ancora conosciuto) che era già naturalmente nell’empireo dei grandi. Già culto per me, già mito letterario.
Tutto quello che è arrivato dopo, la sua fortuna (tradotto in 120 lingue, con una serie televisiva tratta dai suoi romanzi venduta in tutto il mondo), l’ho sempre trovato miracoloso, incomprensibile eppure meritatissimo. Perché fu per tutti noi, lettori prima che scrittori, un esempio di intellettuale sempre in prima fila, schierato, con la schiena dritta. Perché ci ha insegnato che studio, approfondimento, ricerca vanno pari passo con passione, divertimento, leggerezza. Questa la sua eredità, in una riga: essere curiosi e affamati del mondo, della vita. Fino all’ultimo giorno

08 luglio 2019

SULL' USO DEI PROFUMI




Bruciare erbe o essenze odorose è dai primordi dell'umanità aprire un canale di comunicazione con dimensioni altre e superiori. L'uso di profumi (l'incenso ad esempio) come strumento di purificazione, ma anche come segno di trasmutazione della materia. Da qui l'uso, presente in tutte le culture, di sostanza odorose nei riti religiosi, ma anche nell'alchimia, e nell'uso simbolico che ne fa Dante nella Divina Commedia.

Raffaele K. Salinari

Il profumo, incanto e sortilegio


Cosa c’è di più effimero e, al tempo stesso, più penetrante di un profumo? Quando le immagini legate ai ricordi scompaiono e la memoria rincorre vanamente una data, un luogo, un nome, quando tutto nella mente è silenzio, basta il solo il richiamo di un’essenza per rievocare il passato senza forma con la potenza del presente.

La parola profumo deriva dal latino per fumus che si riferisce al suo uso sia nelle cerimonie sacrificali verso la divinità, sia per raggiungere quello stato di estasi, di uscita da se stessi, che consente il ricongiungimento con l’Essere. Se, infatti, la luce è la manifestazione del Divino, il profumo è la quintessenza dello Spirito. Ma, poiché «ciò che è alto è come ciò che è in basso» – secondo quanto sostiene la Tavola Smeraldina di Ermete Trismegisto, il testo alchemico al tempo stesso più poetico e criptico – esso è anche un potente indicatore dell’Opera. E ancora, mentre il profumo, o l’essenza odorosa, sono strumenti per così dire ascensionali, cioè di elevazione verso il divino, il loro contrario, il lezzo, la puzza, i miasmi, evocano invece il mondo infero, quello della discesa verso la pura materialità senza spirito. Ecco che, allora, attraverso gli odori, vediamo emergere collegamenti ermetico-archetipici, ad esempio tra il bel Narciso e l’epicureo Farinata degli Uberti, o tra l’Opera al Nero e quella al Bianco.

La Bibbia

Un esempio fondante di uso sacrificale del profumo ci viene direttamente dalla Bibbia: nel Genesi 8-21, infatti, Noè esegue, dopo il Giudizio Universale, l’ordine di Dio di sbarcare e lasciar uscire gli animali salvati «perché possano diffondersi sulla terra, siano fecondi e si moltiplichino su di essa». Il patriarca obbedisce ma, per assicurarsi che il Signore non ci ripensi, eleva un altare ed offre in sacrificio animali ed uccelli «mondati da ogni impurezza». E qui il testo biblico ci dice che «il Signore ne odorò la soave fragranza e pensò che non avrebbe maledetto più il suolo a causa dell’uomo»; così, finalmente, dopo questo sacrificio, la vita poté ricominciare. Interessante notare come Dio trovi «soave» la fragranza degli animali uccisi in suo onore e che sia proprio questa sensazione olfattiva a fargli decidere in favore della permanenza della vita sulla terra. Da questa primissima testimonianza biblica, dunque, possiamo già capire il significato essenziale che nell’antichità si attribuiva al ruolo del profumo, dato che senza di esso, forse, Dio avrebbe deciso altrimenti.

Anche la classicità greca annovera molti miti che ci parlano della nascita delle essenze profumate, tutte legate, non a caso, ad una relazione essenziale, è il caso di dirlo, con i quattro elementi fondamentali: aria, acqua, terra, fuoco, cioè con una lettura alchemica e trasmutativa del loro uso. I più emblematici, a questo riguardo, sono certo quelli che descrivono la nascita dell’incenso, della mirra e del fiore di narciso.

Mirra e Incenso

Riguardo al primo, Ovidio, nelle sue Metamorfosi, narra come Il dio Sole fu il primo a sapere dell’adulterio di Venere con Marte e, indignato, lo raccontò a Vulcano, legittimo marito della dea. Questo, per coglierli in flagrante, fabbricò catene di bronzo, reti e lacci così sottili da sfuggire alla vista, poi li dispose intorno al letto e fece in modo che scattassero al minimo tocco. Una volta scoperti gli amanti, Vulcano chiamò tutti gli dei ad assistere alla scena, e questo fu motivo di chiacchiere per eoni nelle sale olimpiche. Qualche divinità, Mercurio in particolare, disse anche chiaramente che avrebbe voluto trovarsi al posto di Marte. Ma la dea decise di umiliare con un amore tragico chi l’aveva umiliata; ora, in quel tempo fuori dal tempo, il Sole era innamorato di Leucòtoe, figlia di Eurinome, la più bella ninfa che esistesse nel paese del re Orcamo. Si narra che una notte il dio entrò nella dimora della ragazza e, dopo aver mandato via le ancelle, le svelò la propria identità, possedendola con la forza. Ovidio ci dice che ella «subì la violenza senza lamentarsi». Qui entra in scena la sorella di Leucòtoe, la ninfa Clizia che, infiammata d’amore per il Sole da parte di Venere, e dunque ingelosita dell’accaduto, racconta tutto al padre che, furibondo, seppellisce viva Leucòtoe in una fossa coprendone il tumulo di macigni. Il sole cerca allora con i suoi raggi di liberare la fanciulla, ma gli sforzi non servono a niente, e così cosparge di nettare profumato la sepoltura; alcuni giorni dopo nasce un virgulto d’incenso che raggiunge il cielo e quindi il dio Sole. Clizia, a cui il Sole non volle mai avvicinarsi, presa dall’angoscia, per nove giorni non toccò cibo né acqua, non si mosse da terra ed il suo corpo iniziò ad aderire al suolo: si trasformò così in un girasole, il fiore che osserva e ammira il sole da lontano.

Qui l’incenso è l’essenza che simboleggia la mediazione tra due corpi essenziali, cioè tra l’elemento fisso e passivo per eccellenza, la terra, e quello massimamente mobile ed attivo, il fuoco, poiché, pur nella loro diversità, essi condividono la secchezza, una delle qualità degli elementi fondamentali insieme all’umidita, al calore ed al freddo. Nella visione alchemico latomistica dei quattro elementi, ognuno ha con un altro una qualità in comune: caratteristica fondamentale perché rappresenta la base della trasmutazione dell’uno nell’altro, e dunque la ciclicità della Vita. Ritroveremo più avanti la pienezza di questa immagine nelle cerimonie indù.

Anche nella storia dei Magi i doni hanno lo stesso valore simbolico archetipico: da una parte ritroviamo l’oro, cioè il Sole, il fuoco creatore, che simboleggia la regalità, l’eternità della Vita, della Zoé nella sua continuità, nell’insopprimibile ciclicità. Alla polarità opposta ecco invece la mirra: simbolo della morte e della rinascita, un’essenza con la quale si conservavano i corpi, di sapore amaro come il transito verso l’oltre tomba.

Anche la sua origine ce la racconta un mito: il brevissimo racconto dello Pseudo-Apollodoro dell’amore incestuoso tra Teia, un re assiro, e la figlia Smyrna, Mirra appunto, punita da Afrodite per la sua scarsa devozione con l’amore verso il genitore. La ragazza riesce con l’inganno a giacere col padre fino a quando egli non la scopre e la insegue per ucciderla. Smyrna fugge e gli dei la trasformano in un albero dalla resina profumata: la mirra appunto. Dopo nove mesi la pianta si apre e dal suo fusto viene alla luce il bellissimo Adone, a sua volta amato da Venere e Persefone, la cui nascita dall’albero-donna rappresenta, allo stesso modo della preziosa gommaresina, un mito di morte e resurrezione: il bel giovane morente, azzannato da un cinghiale, feconda la terra col suo sangue facendo così rinascere la primavera. Le Adonie venivano, infatti, festeggiate nell’antica Grecia in questo periodo.

Ed infine l’incenso, che bilancia gli altre due elementi; simbolo della purificazione, ovvero del percorso di una vita che vuole arrivare alla morte in modo consapevole, chiudendo un ciclo affinché se ne possa aprire un altro. La stessa visione la troviamo alla base di antiche religioni orientali come l’induismo, il buddismo ed il jainismo. Si parla di incenso già nei Veda, gli antichi testi sacri scritti nel 2200 a. C., dove se ne descrive l’impiego come vero e proprio farmaco della medicina ayurvedica. Ma l’uso religioso dell’incenso si manifesta appieno durante il rituale induista, buddista e jainista quando, durante laPuja, cioè la preghiera, viene offerto alla divinità per mostrargli devozione, per allontanare i demoni, oltre che in segno di purificazione interiore: l’incenso, bruciando, simboleggia il fuoco che trasmuta la materia in spirito.
    Eco e Narciso" (1903), di John William Waterhouse.


Narciso

Il mito di Narciso è indicativo della relazione che unisce profumo e ricongiungimento all’Origine. In questa storia troviamo come protagonisti la ninfa Eco e Narciso che, a differenza di come lo presenta Freud descrivendone la celebre nevrosi, non è un essere umano, in quanto figlio di una ninfa marina, Liriope, che significa «dagli occhi sfacciati», quelli che il figlio erediterà per guardare la sua immagine riflessa nella pozza d’acqua, e del dio del fiume Cefisio che l’aveva violentata.
Ora, rileggendo il mito, troviamo che il giovane Narciso si accosta, nel folto di un bosco, ad una pozza di acqua che Ovidio definisce incontaminata, cioè che nessun animale, umano o foglia, avevano mai toccata. Questo è un particolare importante nell’economia del mito, perché significa che siamo in presenza di un’acqua originaria, archetipica, l’acqua stessa della Creazione, la Madre delle acque, come avrebbe detto nelle Grandi Odi Paul Claudel.

Dunque siamo di fronte all’acqua come elemento essenziale, la stessa acqua di cui è composto Narciso che, osservando la sua immagine riflessa, non capisce subito il sentimento che lo accende: in realtà l’acqua dentro di lui vuole unirsi a quella fuori di lui. Il mito, allora, ci narra di un ricongiungimento mancato: “Ciò che desidero è in me: un tesoro che mi rende impotente. Oh potessi staccarmi dal mio corpo! Desiderio inaudito per uno che ama: volere più distante chi amiamo!”.

La cecità di Narciso è evidente, ma questa è spiegata, in qualche modo, anche dalla sua postura originale, dal suo «sguardo orizzontale». Egli, infatti, incontra la sua immagine quando è steso sull’erba; è in quel momento che se ne invaghisce, non solo perché essa è ambigua, ma anche perché la posizione non gli consente la profondità: la sua, infatti, è una visione superficiale. E qui il mito ci porta verso una nozione iniziatica classica: il rapporto tra piano di esistenza orizzontale e quello verticale: in altre parole le due braccia nel simbolismo della croce. Guénon in questo è molto chiaro: mentre il piano orizzontale è quello sul quale il Principio creatore si riflette per generare uno specifico stato di esistenza – come un raggio verticale su di uno specchio orizzontale – l’essere contingente può, percorrendo l’esistenza in questo senso, arrivare a comprendere solo la parte determinata di se stesso e le sue relazioni con le altre forme condizionate. È il piano dei Piccoli Misteri della tradizione orfica. Il piano verticale è invece quello che bisogna risalire per il ricongiungimento col Principio, per trascendersi, e così tornare all’Origine che è anche la Meta: la realizzazione della Liberazione, i Grandi Misteri. Sintetizzando: se il piano orizzontale è analogico, quello verticale è anagogico.

Ecco allora che solo dopo essersi alzato, innalzato, Narciso coglie l’immagine nella sua reale profondità, capisce che è la sua, che si tratta cioè di acqua che vuole tornare alla sua fonte, ma è troppo tardi: l’illusione lo ha oramai totalmente in suo dominio, ne ha obnubilato la mente. Sarà solo nel morire che la comprensione si emenderà, raggiungerà il suo télos. Qui troviamo una metafora potente della nostra modernità mediatizzata: siamo irretiti da immagini superficiali di noi stessi. Come nel caso di Narciso dovremmo capire che solo raddrizzando lo sguardo torneremo sulla «retta via» dantesca, ritroveremo cioè il senso autentico dell’esistenza, la sua profondità, la sua Origine. Ed infatti il mito di Narciso, che Freud aveva ridotto ad un disturbo del singolo, è diventato oggi la cifra di una società massificata in cui troppi individui sono come distaccati dalla realtà di se stessi: siamo una civiltà narcisistica non tanto perché innamorati della nostra stessa immagine, ma perché la serviamo senza scrupoli, incapaci, per colpa di questa totalizzante soggezione, di vivere un’autentica relazione con quell’Acqua da cui tutti veniamo, ed alla quale tutti aneliamo a tornare.

Ma il mito va letto sino in fondo per trovare questa via. Ecco che allora gli dei pietosi trasformano il bel giovane nel fiore che porta il suo nome: il narciso essenza dell’oblio di se stessi, da cui il termine narcosi. E qui la narcosi è intesa come abbandono della coscienza razionale e lucida, per entrare nella rêverie ad occhi aperti. Per trasmutarsi Narciso entra trasognato nella sua materia per farsi sognareda essa. Certo a questa particolarità dell’immaginazione poetica si riferisce Shakespeare quando, nella Tempesta (atto IV), fa dire al mago Prospero: «Noi siamo della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni».

E allora, nell’ultimo viaggio, Narciso, il reveur della materia acqua, non rincorre solo un impossibile «narcisistico» amore per se stesso, ma un vero desiderio di ricongiungimento col Mondo attraverso l’essenza acquorea della sua natura. Ed in questo ricongiungimento totale e totalizzante la sua solitudine, invero sdoppiata, si ricompone, poiché, nella stessa immagine, convivono sia la madre che la ninfa Eco, riflesso aereo di quello acquoreo. Eco non è una ninfa lontana: vive infatti sul fondo della sorgente. Eco è dunque incessantemente con Narciso. È lui, ha la sua voce ed il suo viso: ciò che è in alto è come ciò che è in basso. Sarà allora trasportandoci in questo stato narcotico che il fiore del narciso ci consentirà di silenziare l’Ego-Eco, cioè quella parte ridondante del nostro essere che, secondo tutte le tradizioni sapienziali, va abbandonata se si vuole raggiungere la conoscenza.

Inferno, Paradiso e Grande Opera

La summa della relazione tra potere discendente ed ascendente degli odori è decisamente laCommedia dantesca. Il primo compare ovviamente nell‘Inferno, il secondo nel Paradiso. Per quanto riguarda quelli legati al mondo infero, nei Canti X e XI, ad esempio, dedicati agli eretici, Dante fa del fetore una componente centrale delle sue terzine. Qui il Poeta utilizza un’analogia tra la sgradevolezza dei miasmi e la gravità delle pene: tanto più aumentano le seconde, tanto più si fa sentire il puzzo che l’abisso infernale esala. È una sorta di legge del contrappasso olfattivo quella che Dante utilizza nella Commedia, una componente aromatica della formula V.I.T.R.I.O.L.: Visita Interiora Terrae Rectificando Invenies Occultum Lapidem, cioè visita la tua terra interiore e rettificandoti otterrai la pietra occulta, cioè la verità di te stesso. È questa la ricerca che spinge Dante ad avventurarsi nel suo viaggio, non a caso prima discendente, poi ascendente verso il Motore Immobile, ed è anche una indicazione chiara delle natura esoterica della Commedia.

Anche Fulcanelli nel Mistero delle cattedrali, ci parla dell’odore che individua le fasi dell’Opera: «La Terra è nera, l’Acqua è bianca; l’aria più si avvicina al Sole e più ingiallisce; l’etere è rosso. La morte è nera, la vita è piena di luce… Ora l’odore di un morto non è forse molesto all’odorato? Così l’odore fetido di cui parlano gli Alchimisti indica la fissazione; al contrario l’odore gradevole indica la volatilità, perché essa si avvicina alla vita ed al calore».

La stessa progressione nauseabonda si evidenzia chiaramente nel passaggio dal Canto IX. v. 31, quando dice: “Questa palude che ‘l gran puzzo spira”, al XI. v. 5: “Del puzzo che ‘l profondo abisso gitta”, per arrivare infine, nel XXIX. v. 50 al: “Tal era quivi, e tal puzzo n’usciva” tanto che, una volta cessato il dialogo con Farinata, i due viaggiatori sono costretti a ripararsi dietro il coperchio della tomba di Papa Anastasio II, “Traviato da Fotino fuori della diritta via della vera fede”, cercando così di scappare da un odore che li aggrediva quasi avesse una sua corporeità fisica.

Ma il puzzo che emana da questa tomba è oltremodo insopportabile, tristo fiato lo chiama Dante, perché Anastasio II, pontefice, forse, dal 496 al 498, era considerato da lui un eretico peggiore di Farinata, un semplice nobile e non il successore di Pietro. Se Dante non ha perdonato l’ateismo di Farinata e Cavalcante, come potrebbe perdonare quello di un Papa che del Cristo vedeva solo l’umanità? Era infatti il monofisismo la sua eresia, nel tentativo di ricomporre il primo scisma tra Oriente ed Occidente.

La natura, ed anche il senso, dei profumi, cambia decisamente nel Paradiso, in cui presso la Candida Rosa dei beati, nel Canto XXX, Beatrice conduce Dante verso il Primo Mobile. Sappiamo, perché ce lo fa capire magistralmente Borges nei suoi Nove saggi danteschi, che la Commedia altro non è che un tributo alla bellezza di Beatrice, la donna-angelo di Dante che, in quanto iniziato alla Confraternita dei Fedeli d’Amore, di impronta neoplatonica, vedeva nella donna angelicata il veicolo verso la Divinità:Beatrice, mentre egli taceva pur volendo parlare, lo conduce al centro della Rosa Eterna, che «emana un profumo di lode al sole che fa sempre primavera». Qui il vortice dei beati sembra come «inebriato da li odori»: immagine somma dell’essenza che giunge, finalmente al Divino per fumus.

Il Manifesto/Alias – 6 luglio 2019