Giorgio Amico
Vivere in un mondo e
sognarne un altro
La modernità
capitalistica in cui abbiamo la ventura di vivere si connota, per
usare il titolo di una fortunata opera di René Guénon, come il
regno della quantità a partire da una onnipervasiva presenza delle
merci. È il mondo del molteplice, della progressiva frammentazione
di tutto ciò che prima rappresentava comunque un'unità, della
separazione dell'uomo da se stesso e dunque dagli altri uomini e
dalla natura.
Si vive in un eterno
presente, connotato da un consumo ipertrofico e compulsivo, in una
eterna illusoria primavera che rifiuta l'idea stessa della malattia,
dell'invecchiamento e della morte. L'avvento del mondo moderno con il
suo razionalismo esasperato e il suo culto della tecnica e della
scienza segna una perdita profonda di significato:
“Quanto più si è
sviluppata la coscienza scientifica – annota Jung in uno dei suoi
ultimi scritti – tanto più il mondo si è disumanizzato. L'uomo si
sente isolato nel cosmo, perché non è più inserito nella natura e
ha perduto la sua «identità inconscia» emotiva con i fenomeni
naturali (…) Nessuna voce giunge più all'uomo da pietre, piante o
animali, né l'uomo si rivolge ad essi sicuro di venire ascoltato. Il
suo contatto con la natura è perduto, e con esso è venuta meno
quella profonda energia emotiva che questo contatto simbolico
sprigionava. Questa perdita enorme è compensata solo dai simboli dei
sogni. Essi ci ripropongono la nostra natura originaria, con i suoi
istinti e il suo particolare pensiero”.
Concetto ripreso e
sviluppato da Raffaele Salinari che evidenzia il carattere di vera e
propria sofferenza psichica causata da questa radicale trasformazione
del vivere e del sentire:
"La ricerca di
livelli sempre più nevrotici di sicurezza fisica individuale è
degenerata in una insicurezza generalizzata, e questo ha prodotto una
tecnologia sempre più energivora ed aggressiva; la dipendenza da ciò
che di fatto non controlliamo - le reti globali sfuggono alla
gestione del singolo - sono la fonte maggiore di instabilità
profonda, sia per le singole persone, sia per l'umanità intera.
In definitiva, il
decadimento del sacro dal nostro orizzonte immaginale, e il
conseguente svuotamento simbolico dei suoi gesti, genera a sua volta
una visionarietà «perturbata» delle relazioni natura/cultura che
mette a repentaglio il nostro stesso equilibrio psichico, ammorbato
dalla volontà di affermazione prometeica e di sottrazione all'ordine
superiore delle cose".
È un passo di
Alias:Aleph , volume in cui l'autore (medico, docente universitario,
scrittore, attivista nel campo della tutela dei diritti umani)
raccoglie una corposa serie di scritti apparsi negli anni scorsi sul
supplemento culturale de il manifesto e ispirati dal famoso racconto
di Borges, preso a simbolo della condizione umana e di possibili
percorsi di liberazione da questo stato di estrema alienazione
simbolizzati dalla ricerca dei luoghi dove si manifesta l'Aleph,
prima lettera dell'alfabeto ebraico e dunque simbolo di quell'unità
primordiale di tutto ciò che esiste che, come la tradizione ci
insegna, è compito di ogni uomo tentare di ricomporre.
Tema di tutti gli scritti,
che riuniti in volume manifestano a pieno la loro organicità quasi a
ricomporre un ideale percorso di ricerca, è il ritorno a questa unità
primordiale, la ricerca instancabile della "parola perduta"
del mito hiramico che, tradotta nel nostro linguaggio moderno,
significa superamento della frammentazione del mondo fenomenico e
dunque attribuzione di senso e significato alla nostra stessa
esistenza individuale.
Leggere questo libro è
compiere un viaggio simile al volo mistico dello sciamano alla
ricerca dell'anima perduta, fondamento della guarigione della
malattia del vivere in tutte le sue manifestazioni comprese quelle
fisiologiche. Un percorso verso il centro del labirinto degli stati
molteplici dell'essere che, come ci ricorda Dante nella Commedia,
che di questo tratta, non porta fuori dal mondo, ma rendendoci
pienamente umani ci avvicina all'altro, ci rende veramente capaci di
compassione, cioè di sentire la sofferenza degli altri come nostra.
E allora, ai tanti luoghi
alefici raccontati con estrema maestria dall'autore noi ci
permettiamo di aggiungere Lampedusa, oggi la porta cardine della
ri/scoperta dell'altro come parte essenziale della nostra stessa
esistenza di uomini capaci di "virtute e canoscenza" o, come dice una
tradizione di cui ci sentiamo profondamente parte, "liberi e di buoni
costumi".
Articolo ripreso da: http://cedocsv.blogspot.com/2019/11/