11 maggio 2021

ANCORA SUL CASO MORO. UNA STORIA ASSURDA




“UNA STORIA ASSURDA”. I PROFESSORI, GLI SPIRITI E I DEPISTAGGI DEL CASO MORO. “LA SEDUTA SPIRITICA” DI ANTONIO IOVANE

Quando compone Il cavaliere e la morte, Leonardo Sciascia è pervaso da una profonda amarezza. In quelle pagine intrise di autobiografismo ritorna la sua delusione per un Paese dominato da poteri trasversali. Buona parte della sua produzione letteraria allestisce un sistema di miserie e interessi che corrode la ragione: traduce in prosa l’osservazione dei meccanismi di una deriva inesorabile. Anche nello schierarsi politicamente sceglie di mantenere una posizione critica per rivendicare l’indipendenza di pensiero. Sente che nulla meglio di una fitta trama poliziesca possa tradurre narrativamente gli intrighi e i lati oscuri che riguardano il governo e il potere della Democrazia Cristiana. Così, già in alcuni racconti saggistici, nel romanzo breve Il contesto e nel successivo Todo modo – con toni destinati a esplodere nel noto pamphlet del 1978 –  struttura per immagini i grovigli alla base di un paese retto su crimini e corruzione e pronto a intaccare anche i valori cattolici per confermare un controllo sotterraneo. Basterebbe riprendere in mano oggi Todo modo per scorgere in tale impasto narrativo la raffigurazione delle beffe e delle storture della storia italiana degli ultimi decenni del Novecento.

Non poteva che essere allora Leonardo Sciascia la coscienza critica sul caso Moro scelta da Antonio Iovane per il suo nuovo libro La seduta spiritica, minimum fax. Lo sguardo dell’intellettuale illumina i passi del giornalista che torna a quel 2 aprile del 1978 per cercare risposte su quanto accaduto nella villa di Zappolino. Mentre Aldo Moro è nelle mani delle Brigate Rosse da oltre due settimane, una dozzina di professori e amici tra cui Romano Prodi si riunisce a casa di Alberto Clò  e passa il tempo a invocare i morti con una seduta spiritica per sapere da Don Luigi Sturzo e Giorgio La Pira dove si trova il presidente della Dc. Il responso lo compone un piattino da caffè con la parola Gradoli. Questa diventa la versione dei presenti riferita il giorno dopo da Prodi a Umberto Cavina, portavoce di Zaccagnini alla sede del partito. Da qui una serie di incongruenze e depistaggi.

L’assurdo trova presa nella suggestione collettiva, nella nevrosi, nella paranoia o, per usare la definizione di Javier Cercas, nel “romanzo collettivo” che porta in molti a credere di aver visto le immagini – in realtà mai trasmesse in tv – delle perquisizioni nel paese della provincia di Viterbo, e spaccia per plausibile anche il consulto di un sensitivo (come accade con Gerard Croiset) per coprire fonti di indiscrezioni, confondere e pilotare le informazioni.

Mi stupisco che in questo paese senza verità le indagini su uno dei casi più oscuri della nostra storia dovessero fermarsi davanti all’alibi del paranormale.

Per sviluppare l’indagine e ricostruire alcuni dei suoi lati oscuri Iovane analizza in particolare la dichiarazione sottoscritta dai partecipanti al magistrato Francesco Amato nel 1978 e le testimonianze dei presenti rese alla Commissione Moro (1979 – 1983), alla Commissione stragi (1996 – 2001), alla commissione parlamentare d’inchiesta sul dossier «Mitrokhin» e l’attività di intelligence italiana (2001 – 2006) e alla Commissione Moro II (2014 – 2018).

Professori, ‘ndranghetisti, pittori, giuristi, scrittori, spiriti e deputati si avvicendano sulla pagina come commedianti. Iovane ricompone gli indizi e rivela le incoerenze della vicenda, le gravi responsabilità di chi tace, gli equivoci e le falle nella gestione politica e giudiziaria. Esplora i numerosi vuoti mettendo in fila testimonianze, interviste, memorie per strutturare una ricostruzione e al contempo assegnare un taglio narrativo al testo.

A distanza di decenni, a gravare è il silenzio di chi non vuole tornare su quanto accaduto, si trincera dietro versioni già fornite e lascia pesanti interrogativi senza risposta. Tra gli innumerevoli quesiti, l’assenza delle bobine degli interrogatori, gli scritti originali del presidente Dc e le borse lasciate nella sua auto. “Quali segreti aveva rivelato, Moro, alle BR? Perché, dopo che le BR lasciarono intendere di aver appreso importanti segreti di Stato, lo sforzo per ritrovare Moro diminuì sensibilmente? Perché tutte quelle operazioni di parata per ritrovarlo? Perché, nonostante molte indicazioni convergessero, non si approfondirono le ricerche in via Gradoli 96? Chi è stata la fonte dei professori bolognesi? Perché il 18 marzo, quando il covo di via Gradoli fu scoperto si fece di tutto per informare prima la stampa, bruciando così la base, anziché aspettare e tendere un agguato ai brigatisti? C’erano solo le Brigate Rosse sul luogo della strage? E perché avevano deciso di indossare le stesse divise dell’Alitalia? Forse perché non tutti si conoscevano tra loro e dovevano riconoscersi? E chi erano gli elementi esterni? E infine, domanda delle domande: perché Moro non è stato salvato?”

L’alibi del “Moro non è più Moro” contribuisce a distruggerne la fisionomia. Egli stesso ne prende consapevolezza e prima di comporre le ultime dolorose lettere d’addio, lancia vigorosi atti d’accusa in particolare contro il segretario del partito, il Ministro dell’Interno e il Presidente del Consiglio: “E Zaccagnini? Come può rimanere tranquillo al suo posto? E Cossiga che non ha saputo immaginare nessuna difesa? Il mio sangue ricadrà su di loro”.

Iovane si cala nelle inquietudini di quei giorni, con un interesse per gli aspetti celati e per gli effetti di una paura collettiva, il clima di sospetto e terrore, il senso di smarrimento vissuto dalla moglie Eleonora che rivendica con forza la mancata verifica immediata dell’indirizzo romano. Basandosi anzitutto sui dati, sulle testimonianze, sugli indizi, La seduta spiritica si snoda sulla serie di contraddizioni radicate nel clima asfittico di quegli anni tra le coperture favorite dalle manovre di una classe dirigente che, come scrive Sciascia in Todo Modo, dirige “una ragnatela nel vuoto”.

La costante alternanza tra l’azione, gli ingrandimenti e il ragionamento sugli aspetti misteriosi prende forma anche ripercorrendo gli incontri tra i vari attori della scena, senza mai tralasciare le ripercussioni nella visione popolare, nel sentimento nazionale, nella percezione di uno scollamento tra i partiti e il Paese. Gli stessi ricordi di suo padre, Andrea Iovane, docente di economia politica che andava a Regina Coeli per consentire ai brigatisti di dare esami, rivelano una tensione condivisa, un’inquietudine collettiva: “Dei giorni del rapimento, mio padre porta con sé soprattutto frammenti di stati d’animo. L’espressione livida e traumatizzata del suo maestro, Federico Caffè, o la pena che provava per Moro attraverso quelle lettere strazianti e rivelatrici”.

L’ambizione dell’opera non si esaurisce nella ricerca della verità ma intende condurre il lettore a interrogarsi sulle ragioni storiche che giustificano l’assurdo e ne misurano una deviazione radicata. In tale groviglio, Iovane torna costantemente a Sciascia, non solo per ripercorrere il suo agire e l’ostilità incontrata da più fronti, ma per offrire il ritratto dell’intellettuale solitario che vorrebbe starsene tra i suoi fantasmi Chateaubriand, Manzoni, Stendhal, Pirandello, Borges, e che sente il fardello del rivendicare una posizione scomoda. A interessare Iovane è però anche la lezione compositiva di Sciascia a cui si ispira nell’assegnare all’opera una struttura che si nutre della contaminazione di generi per allestire il reale tra inserti immaginari. La profonda attenzione descrittiva rende racconto il reportage e trova un equilibrio tra l’espressione del romanzo storico e il fregio finzionale del verosimile.

Lo sguardo su Sciascia detta il passo della narrazione, rivela una solitudine condivisa con Moro sancita dal momento in cui egli si dichiara favorevole alla trattativa e, in senso più ampio nel romanzo di Iovane si traduce nella volontà di travalicare persino le vicende stesse per immaginare, come scrive Friedrich Dürrenmatt, di “scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”.

Tutto è una finzione in attesa di rivelarsi, persino l’apparente impostazione del giallo che ne La seduta spiritica assegna all’eroe positivo – intravisto nell’intellettuale isolato e al contempo nell’autore che oggi prova a interpretare le iniquità – un destino di fallimento.

Tra le incertezze si fa strada una sola amara consapevolezza: se risulta impossibile arginare il continuo inquinamento della verità si può ancora scegliere di rivendicare con rigore un affrancamento dalle chimere del mondo politico. “La verità è che tante cose in noi, che crediamo morte, stanno come in una valle del sonno: non amena, non ariostesca. E sul loro sonno la ragione deve sempre vigilare. O magari, a prova, qualche volta svegliarle e lasciare che da quella valle escano: ma perché se ne tornino giù mortificate e impotenti… Ma se la prova non riesce? Ecco il punto”. (L. Sciascia, Todo modo)

ALICE PISU, 11 maggio 2021

Articolo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/

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