16 settembre 2024

Una poesia di Angelo Maria Ripellino dedicata ai miei nipoti

 






Vorrei che tu fossi felice, cipollina, vorrei

che tu non conoscessi il cane nero della sventura,

quando sarai uscito dal blu dell’infanzia.

Vorrei che tu non debba portare bazooka,

che non debba tremare nel folto di un bombardamento

che tu non debba pagare per le mie colpe

né vergognarti di me, del mio cicaleccio

e dei miei vani versi e della mia professura.

Vorrei che tu non fossi mai gramo o malato

o maldestro come Scardanelli,

vorrei vivere nella tua voce, nei tuoi gesti, nei tuoi occhi

anche quando mi avrai dimenticato.

 

ANGELO MARIA RIPELLINONotizie dal Diluvio, Einaudi 1969


IL DIRITTO INTERNAZIONALE RIPETUTAMENTE VIOLATO DAGLI U.S.A.

 



IL DIRITTO INTERNAZIONALE Più VOLTE VIOLATO DAGLI U.S.A.

Marco Rovelli

 

Nel 1999, la NATO ha bombardato Belgrado per 78 giorni con l'obiettivo di smembrare la Serbia e dare vita a un Kosovo indipendente, oggi sede di una delle principali basi NATO nei Balcani.

Nel 2001, gli Stati Uniti hanno invaso l'Afghanistan, provocando 200.000 morti, un Paese devastato e nessun risultato politico.

Nel 2002, gli Stati Uniti si sono ritirati unilateralmente dal Trattato sui missili anti-balistici, nonostante le strenue obiezioni della Russia, aumentando drasticamente il rischio nucleare.

Nel 2003, gli Stati Uniti e gli alleati della NATO hanno rinnegato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite entrando in guerra in Iraq con un pretesto. L'Iraq è ora devastato, non è stata raggiunta una vera pacificazione politica e il parlamento eletto ha una maggioranza pro-Iran.

Nel 2004, tradendo gli impegni presi, gli Stati Uniti hanno proseguito con l'allargamento della NATO, questa volta con l'ingresso degli Stati baltici, dei Paesi della regione del Mar Nero (Bulgaria e Romania) e dei Balcani.

Nel 2008, nonostante le pressanti e strenue obiezioni della Russia, gli Stati Uniti si sono impegnati ad allargare la NATO alla Georgia e all'Ucraina.

Nel 2011, gli Stati Uniti hanno incaricato la CIA di rovesciare il governo siriano di Bashar al-Assad, alleato della Russia. La Siria è devastata dalla guerra. Gli Stati Uniti non hanno ottenuto alcun vantaggio politico.

Nel 2011, la NATO ha bombardato la Libia per rovesciare Moammar Gheddafi. Il Paese, che era prospero, pacifico e stabile, è ora devastato, in una guerra civile ed in rovina.

Nel 2014, gli Stati Uniti hanno cospirato con le forze nazionaliste ucraine per rovesciare il presidente Viktor Yanukovych. Il Paese si trova ora in un'aspra guerra.

Nel 2015, gli Stati Uniti hanno iniziato a piazzare i missili anti-balistici Aegis in Europa orientale (Romania), a breve distanza dalla Russia.

Nel 2016-2020, gli Stati Uniti hanno sostenuto l'Ucraina nel minare l'accordo di Minsk II, nonostante il sostegno unanime da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il Paese si trova ora in un'aspra guerra.

Nel 2021, la nuova amministrazione Biden ha rifiutato di negoziare con la Russia sulla questione dell'allargamento della NATO all'Ucraina, provocando l'invasione.

Nell'aprile 2022, gli Stati Uniti invitano l'Ucraina a ritirarsi dai negoziati di pace con la Russia. Il risultato è l'inutile prolungamento della guerra, con un aumento del territorio conquistato dalla Russia.

Dopo la caduta dell'Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno cercato e cercano tuttora, senza riuscirci e fallendo costantemente, un mondo unipolare guidato da un'egemonia statunitense, in cui Russia, Cina, Iran e altre grandi nazioni devono essere sottomesse.

In questo ordine mondiale guidato dagli Stati Uniti (questa è l'espressione comunemente usata negli Usa), gli Stati Uniti e solo gli Stati Uniti hanno diritto di determinare l'utilizzo del sistema bancario basato sul dollaro, il posizionamento delle basi militari all'estero, l'estensione dell'adesione alla NATO e il dispiegamento dei sistemi missilistici statunitensi, senza alcun veto o voce in capitolo da parte di altri Paesi.

Questa politica estera arrogante ha portato a guerre continue, paesi devastati, milioni di morti, una crescente rottura delle relazioni tra il blocco di nazioni guidato dagli Stati Uniti - una piccola minoranza nel pianeta e ora nemmeno più economicamente dominante - e il resto del mondo, un'impennata globale delle spese militari e ci sta lentamente portando verso la terza guerra mondiale.

Il saggio e decennale sforzo europeo di coinvolgere Russia e Cina in una collaborazione strategica economica e politica, sostenuto con entusiasmo dalla leadership russa e cinese, è stato infranto dalla feroce opposizione degli Stati Uniti, preoccupati che ciò avrebbe potuto minare il dominio statunitense.

È questo il mondo che vogliamo?

Marco Revelli

 


IL FUTURO IPOTECATO

 



domenica 15 settembre 2024

Futuro

La Meloni ha parlato chiaro agli imprenditori. “Appena finita la guerra in Ucraina ci sarà da ricostruire quel Paese e per voi imprenditori si aprirà l’Eldorado su quello spicchio di globo terracqueo. Dovrete comprarvi portafogli a fisarmonica per quanti soldi metterete in tasca.” Ha omesso una seconda parte, quella di chi metterà i soldi che ingolferanno le tasche degli imprenditori. Per non dilungarmi troppo, la faccio breve. I soldi li dovranno stanziare i governi Europei mettendo per diversi anni le mani nelle tasche dei 250milioni di cittadini europei. Soldi che andranno nelle tasche di qualche migliaio di ricconi europei e di qualche centinaio di oligarchi Ucraini che diventeranno stra-ricconi. E la matematica insegna che un Paese come il nostro che dovrà mettere 5miliardi l’anno per ricostruire l’Ucraina, avrà 5 miliardi in meno per scuola, sanità e pensioni, qualunque sia il colore del governo. Insomma, abbiamo ipotecato il futuro di almeno una generazione di nuovi nati. Capolavoro!

Pezzo ripreso da  https://appuntinovalis.blogspot.com/2024/09/futuro.html


INTERVISTA A EDOARDO CAMURRI

 



“Diventa il gatto che ti tenderà l’agguato”. Intervista a Edoardo Camurri

di Marco Montanaro pubblicato lunedì, 16 Settembre 2024, in 

https://www.minimaetmoralia.it/wp/interviste/edoardo-camurri-

 

Introduzione alla realtà (Timeo) di Edoardo Camurri è un libro strano, magico, sicuramente trasformativo. Potremmo definirlo fiaba, esperienza rituale, allegra dissertazione, esortazione accorata, corto viaggio (e saggio) psichedelico-sentimentale. La verità: ha ragione chi dice che parlarne, specie ormai a qualche mese dall’uscita, è complesso, gli si fa un torto; si rischia di banalizzare, di confinare nell’attualità un testo agile, che fa della sua inattualità un punto di potenza. Meglio allora consigliarne direttamente la lettura, o perché no provare a parlarne con l’autore.

Ciao Edoardo. Come sta andando il libro?

Siamo alla terza edizione e, al di là delle vendite, sta avvenendo la cosa più importante e paradossalmente meno scontata di tutte: il gattone viene letto. E molte persone se ne sentono coinvolte, toccate; capita spesso di incontrare lettrici e lettori che mi confessano che il libro sta parlando a loro con forza e dolcezza, quasi che li aspettasse e che loro aspettassero lui. Mi piace pensare al libro come a un fuocherello acceso attorno al quale chiunque si senta accolto per sedersi e ricevere un po’ di calore e di luce.

Lo hai definito “il libro della vita”, meditato per 50 anni. Com’è arrivata la decisione (o la consapevolezza) che era arrivato il momento di scriverlo?

Le cose non si fanno mai da soli, ma ogni individualità è come un nodo provvisorio che si manifesta in un ordito di relazioni; da questo punto di vista è stato sicuramente determinante l’incontro con Federico Campagna, editor di Timeo, un amico, un filosofo che ammiro moltissimo, e senza il quale questo libro non ci sarebbe. Vi è poi alla base del testo anche una sorta di cerimonia: si sono radunati intorno molti spiriti, molti guardiani, a me cari, a protezione del testo, da mio nonno paterno a Louis Wain, da Elsa Morante a Rodolfo Wilcock, da Roberto Bazlen a Giorgio Colli. Il libro è nato perché a un certo punto, mi sembra, questi e altri spiriti sono convenuti e hanno creato uno spazio. Insomma, non è stata una decisione, ma un allineamento, una predisposizione un po’ più larga in cui la mia cosiddetta volontà si è d’incanto trovata.

Parlando al telefono, hai usato l’aggettivo “esperienziale” per definire la stesura di Introduzione alla realtà. Vorrei che mi raccontassi di nuovo questa cosa.

Alla base del libro c’è l’idea forte che la filosofia, come era in origine nel pensiero antico e come è sempre stato per esempio nel pensiero indiano, è la risposta – una delle risposte possibili – a un’esperienza sconvolgente che può appartenere a tutti. Risalire a quell’esperienza e da lì trarne un’espressione logica, concettuale e poetica è anche il gesto che, inevitabilmente, ci fa sentire meno necessario il ricorso all’erudizione. Forse è per questo che mi sono vietato di usare altri libri mentre lo scrivevo e forse è anche questo il motivo per cui quasi tutte citazioni nel testo sono a memoria. Nel giorno del giudizio, cantava Battiato, non ci servirà l’inglese. L’esperienza sconvolgente è quel giorno del giudizio.

È un libro trasformativo a tutti gli effetti, che può avere un impatto importante nella vita di chi lo legge. Tu cos’hai scoperto, mentre lo scrivevi?

Più che scoprire qualcosa, ho sentito. Ho sentito il cuore, ho sentito una vibrazione alta, un tambureggiare gentile e tanta gratitudine. Anche qui, il punto mi pare che sia sempre la centralità dell’esperienza. Io dovevo, si fa per dire, solo occuparmi, attraverso la scrittura, di non allontanarmi troppo da quella musica e di restituirla, come espressione dell’esperienza comune a noi umani, alle lettrici e ai lettori.

Sai che dopo averlo finito non sono più riuscito a tornare sulle sue pagine? La lettura è stata intensa, mi ha dato molta energia ma altrettanta ne ha richiesta.

Mi sembra una buona notizia. Il gattone ti ha trasformato in gatto e ora hai bisogno di stare un po’ in disparte per lasciare andare via qualcosa che hai letto, in quello stato di grazia tipicamente felino in cui sonno e veglia si assomigliano. Tra l’altro io sono persuaso – senza alcuna prova e senza alcuna pretesa di verità, ma solo per intuizione poetica – che le fusa dei gatti, quando si trovano in quello stato, quel suono che è un drone, li aiuti a cambiare stato di coscienza.

A proposito di felini. I gatti vedono la soglia, sembrano quasi viverci. La soglia è un momento, ma può anche essere un luogo?

Ogni luogo, ma anche ogni istante, è una soglia. “Stai qui e adesso”, qualunque cosa sia il qui e l’adesso, è uno degli inviti più belli e potenti che ci siano. L’esperienza sconvolgente, che è come un gatto, è sempre in agguato e non sai mai quando e da dove arriverà, perché, per dirla come il predicatore di Furore di Steinbeck, “tutto è santo”. Rinuncia a ogni aspettativa, diffida di ogni gerarchia, non fare troppi piani; insomma diventa il gatto che ti tenderà l’agguato.

Introduzione è, pure, un libro di immagini assurde nell’accostamento (il coriandolo che si fa multinazionale) come per la sorpresa con cui appaiono (il cammello interstellare). Da dove vengono?

L’immagine del cammello mi è venuta qualche anno fa leggendo un grande psicoanalista cileno, Ignacio Matte Blanco; se ricordo bene lui prendeva questa immagine evangelica del cammello per illustrare come la nostra vita conscia sia lo stretto passaggio attraverso il quale si manifesta il complicatissimo e multidimensionale regno dell’inconscio freudiano, il cammello, appunto. L’immagine del coriandolo deriva invece da una vecchia intervista a Federico Fellini; parlava di cinema e di tv e descriveva il nostro modo di avere a che fare con le immagini proprio come un processo di coriandolizzazione.

Altra immagine potente: i “fatti” come lapidi in un cimitero. Mi ha ricordato un detto francese riportato da Yona Friedman in epigrafe a L’ordine complicato: “L’umanità è diventata troppo intelligente per riuscire a capire qualcosa del mondo”. Qual è il problema con l’intelligenza?

Gli scettici antichi e i mistici (ed è meraviglioso quando queste due figure coincidono nella storia) mostrano come l’intelligenza, lasciata a se stessa, sia inconcludente. Insomma, scettici e mistici sanno che a ogni affermazione è sempre possibile opporre il suo contrario, con lo stesso grado di intelligenza e di persuasività. Ho l’impressione che ci siamo un po’ dimenticati di questa grande lezione per abbandonarci al culto di un’intelligenza che, alienata dal cuore, diventa procedura, calcolo, controllo; il feticcio con cui, pensando di affrontare la paura e la sofferenza della realtà, finiamo con il rafforzare la paura e la sofferenza della realtà (nel genitivo oggettivo e soggettivo dell’espressione).

Ultima curiosità: da quale dimensione spaziotemporale ci scrive l’autore dell’Introduzione? E da quella dimensione, a chi parla? Nel libro c’è un “io” che poi diventa un “noi” che poi diventa un “tu”…

Ho voluto che Introduzione alla realtà fosse scritta per essere letta sia da lettrici e lettori del XII secolo e sia da lettrici e da lettori del 2600. Al di là della battuta, ci sono pochissimi riferimenti a un tempo che possiamo riconoscere come il nostro, per dire, non ci sono computer, aerei, eccetera, perché provare a stare in presenza dell’esperienza sconvolgente, il Thauma, significa accedere a quella dimensione comune a ogni tempo. Lo stesso discorso vale per la voce narrante, un noi generico che diventa spesso tu e ogni tanto io. È il flusso dentro cui ogni vivente nuota, e che solo provvisoriamente, e senza alcuna possibilità di scelta, con timore e tremore, ci consente flebilmente e provvisoriamente, per l’appunto, di dire noi, tu e io.

 

 


15 settembre 2024

VERDE MARCIO

 


Verde marcio

Marco Revelli
14 Settembre 2024

La crescita impetuosa delle pulsioni belliciste nell’universo ambientalista, è forse il fatto più sconvolgente nella politica istituzionale europea degli ultimi anni, a cominciare da quella tedesca

Foto di John atlantis1@outlook.be da Pixabay

Ursula von der Layen ha dedicato un’ampia parte dei 48 minuti e 20 secondi del discorso in cui ha presentato la sua “strategic vision” per i prossimi cinque anni davanti al Parlamento europeo in seduta plenaria al tema delle sfide ambientali, del cambiamento climatico, dell’energia pulita, del “suo” Green deal (che ama come un figlio), del nascituro Clean Industrial Deal promesso per i primi cento giorni del suo mandato… Il secondo tema per importanza è stato la guerra. La guerra a cui dovremo prepararci mentalmente e tecnicamente. E le armi, che dobbiamo apprestarci a produrre su scala incomparabilmente più ampia che in passato perché, così ha detto testualmente, viviamo in un “mondo in cui tutto è armato e contestato” (a world in which everything is weaponised and contested).

Pochi l’hanno notato – quasi nessuno – ma il combinato disposto di questi due temi nel medesimo discorso disegna il profilo pressoché perfetto della figura retorica dell’ossimoro, ovvero di una locuzione che contiene in sé concetti opposti, come “lucida follia”, “acuta ottusità”, “illustre sconosciuto”… O, forse meglio, ci presentano la struttura mentale sostanzialmente bi-polare della presidente dell’UE (e dell’UE stessa), per metà dottor Jekyll, quando promette caramellosa ai giovani un roseo futuro di serenità ambientale in un pianeta pulito in cui condurre una vita finalmente riconciliata con la Natura, e per metà Mister Hyde che quella vita gliela strappa (e quella Natura la devasta) a suon di bombe danzando sull’abisso di un conflitto nucleare. Due universi di senso – e di non-senso – coesistenti nel breve spazio di uno speech. Basta, d’altra parte, un semplice esercizio di matematica per averne la conferma.

Sapete qual è l’”impronta ecologica” di un proiettile di artiglieria da 155mm, i più usati sui campi di battaglia ucraini? Un gruppo di esperti di GHG, ovvero di Greenhause Gas o Gas ad effetto serra si è preso la briga di misurarla e ha risposto che equivale a 136 Kg di CO2: parte per la produzione dell’esplosivo, parte per le componenti in acciaio, altri Kg liberati al momento dell’esplosione. Considerato che ognuno di noi, guidando una vecchia diesel per una ventina di Km al giorno emette circa 2,6Kg di CO2, ne consegue che un solo proiettile genera un inquinamento pari a quello prodotto in un paio di mesi da un automobilista normale. Se si pensa che nei primi mesi di guerra, dal giorno dell’aggressione fino alla battaglia di Severodonetsk, nel giugno 2022, le truppe di Mosca avevano sparato circa 60mila colpi al giorno e gli ucraini quasi la metà, prima di aver dato fondo alle scorte accumulate negli anni precedenti e a quelle risalenti ai tempi dell’URSS, si ha la misura di quale pestilenza sia, anche sul piano ambientale, quella guerra. Ora la neo Presidente dell’UE – dopo non aver mosso un dito, come d’altra parte tutto l’Occidente, per fermare quella pazzia, anzi avendo lavorato a soffiare sul fuoco -, propone di portare la produzione di proiettili a più di 2 milioni di pezzi all’anno (una boutade, naturalmente, dato che la capacità massima delle industrie belliche europee non supera i 300.000 proiettili, forse raddoppiabili con uno sforzo estremo), ma necessaria ad alimentare la retorica del sostegno all’Ucraina as long as it take e perché “We must give Ukraine everything it needs to resist and prevail”. Un progetto a sostegno del quale aveva comunque lanciato, già lo scorso anno, il programma Asap (Act in support of ammunition production) con lo scopo di finanziare con fondi del Bilancio comune europeo la produzione di proiettili e missili, il quale ha già portato alla stipula di 31 accordi finalizzati a sfornare 4.300 tonnellate l’anno di esplosivi, 10 mila tonnellate di polvere da sparo, e centinaia di migliaia di proiettili con i relativi involucri, facendo esclamare a uno zelante funzionario del suo entourage che finalmente “siamo passati dalla modalità pace alla modalità guerra”.

È la stessa persona, si badi, che perfettamente coiffata da serafica damina del Settecento, annuncia trionfante che “nel primo semestre di quest’anno, il 50% della nostra produzione di energia elettrica è stata ottenuta da fonti rinnovabili, autoctone e pulite” (mica gli orribili “dirty Russian fossil fuels”); e conferma che per il 2040 avremo cancellato il 90% di quei catorci insopportabili su cui si accaniscono ancora a viaggiare gli straccioni delle campagne francesi (quelli che indossarono i gilet jaunes) o i miserabili pensionati italiani. Ed è ancora lei – sempre lei! – indossato l’elmetto, a invocare l’aumento tendenzialmente senza limiti della spesa militare (“We need to invest more. We need to invest together”), annunciando – blasfema – che “faremo come per i vaccini”. E proponendo come esempio la costruzione di un “comprehensive aerial defence system”: uno Scudo Aereo Europeo, “non solo per proteggere il nostro spazio aereo ma come forte (strong) simbolo dell’unità europea in materia militare”, a cui si dovrebbe affiancare il vasto lavoro di potenziamento delle “capacita di difesa di fascia alta in settori critici quali il combattimento aereo” da realizzare prelevando circa un miliardo di euro dallo “Strumento europeo per la pace” (sic!), che peraltro ha già “mobilitato 6,1 miliardi di euro per sostenere le forze armate ucraine con attrezzature e forniture militari letali e non letali” (parole testuali di Ursula).

Non so se la von der Layen in versione green abbia idea di quanto costerebbe, in termini d’inquinamento, ciò che lei stessa in versione tuta mimetica propone. Vale comunque la pena ricordarlo. Un F16 Falcon, di quelli che Zelensky ha chiesto costantemente e che alla fine gli sono stati dati, consuma circa 16.000 litri di carburante all’ora. Ovvero emette quasi 50mila kg di CO2 per missione. Inquina dunque in un solo volo quanto 55 automobilisti diesel in un anno intero! Se gli 80 fight jets promessi dall’Europa a Zelensky fossero usati ognuno anche solo per una missione al giorno, produrrebbero ogni anno circa un miliardo e mezzo di chili di gas serra, a cui si devono aggiungere quelli, enormemente maggiori, prodotti dall’aviazione russa, dal movimento dei mezzi corazzati (un Abrams, un Leopard 2, un T90 consuma circa 450 litri di carburante ogni 100 Km con un’emissione di CO2 pari a 10 Kg al  chilometro), dai tiri d’artiglieria, dagli sciami di missili… E’ stato calcolato che un anno  di quella guerra tanto feroce quanto assurda abbia comportato, in termini ambientali, l’emissione di oltre 120 milioni di tonnellate di gas serra. L’equivalente cioè di circa un quarto del totale delle emissioni dovute a tutto il traffico automobilistico europeo (500 milioni di tonnellate). Come a dire che, in un ipotetico bilancio ambientale, se si riuscisse a fermare quella carneficina (anziché tentare di prolungarla con ogni mezzo), si potrebbe ottenere fin da subito, qui ed ora, un risultato pari a circa il 25% di quanto il green deal si propone di realizzare – al prezzo dei tanti sacrifici e con l’ipoteca di un probabile fallimento – in 16 anni. E simmetricamente per ogni anno in più di cui si prolunga la guerra, si annulla una gran parte dei possibili risultati del Green Deal e si vanifica il grosso dei sacrifici imposti alla popolazione europea per realizzarlo. Tutto questo, bisogna aggiungere, senza tener conto dell’enorme prezzo in termini di vite umane perdute, centinaia di migliaia, su entrambe i lati del fronte, generazioni di giovani sacrificate da classi politiche senza scrupoli. Ma esso non rientra nella soglia di attenzione di chi siede a Bruxelles, come a Washington o a Mosca.

Vorrei essere chiaro. Non si tratta, qui, solo dei limiti personali del ristretto gruppo di notabili che stanno al vertice dell’Unione Europea. Della loro offensiva doppiezza. Della loro inspiegabile cecità. Dell’incomprensibile atteggiamento suicida con cui hanno portato il Vecchio continente, da un ruolo importante di potenza culturale e di istanza mediatrice in ultima istanza, all’irrilevanza politica e alla pulsione autodistruttiva. Si tratta di una logica sistemica ben più ampia e diffusa quantomeno nell’intero Occidente, consistente nell’uso retorico di quella che oggi è la più alta e drammatica sfida alla nostra esistenza, la questione ambientale, per coprire e giustificare pratiche sordide di segno ed effetto esattamente opposto. L’ultimo grido nelle tecniche di marketing. Finito il tempo in cui i grandi nemici dell’umanità, i saccheggiatori delle risorse del pianeta, praticavano il negazionismo esplicito, minimizzando o occultando i danni prodotti alla Terra, ora che l’evidenza non può essere negata si enfatizza la dimensione del rischio, lo si sbatte in prima pagina, per continuare, come i vecchi Gattopardi, a fare come prima, peggio di prima, presentando i propri vizi come rinnovate virtù.

La tecnica ha anche un nome. Si chiama Greenwashing ovvero lavare il proprio sporco nel verde (chiamato anche green liesgreen sheen o green marketing). Ne sono esempi classici il caso della Chevron (il primo, risalente agli anni ’80) la quale lanciò una martellante campagna televisiva denominata “People Do” per comunicare le proprie buone pratiche di sostenibilità nel momento stesso in cui sversava petrolio in aree protette generando vere e proprie catastrofi ambientali. O quello della Coca Cola la quale utilizzò per la propria pubblicità il claim World without waste proprio quando veniva nominata per la terza volta da Greenpeace “impresa più inquinante a livello globale per quanto riguarda la produzione di plastica”, e fu per questo portata in giudizio da Earth Island Institute. Stessa sorte toccata alla nostra ENI, sanzionata per  aver presentato falsamente il proprio Diesel+ come “ecologico, verde, sostenibile”. E naturalmente applicabile ai politici. A tutti i politici. Compresi i Verdi. Anzi soprattutto i Verdi, a cominciare da quelli che possono essere considerati la matrice originaria di quel movimento, i Grünen tedeschi.

La crescita impetuosa delle pulsioni belliciste all’interno del loro vecchio involucro ambientalista, è forse il fatto più sconvolgente nella politica tedesca (e non solo) negli ultimi due anni e mezzo. La mutazione genetica dell’intero gruppo dirigente Grüne dall’ eco-pacifismo delle origini, quando il neonato movimento coniugava la difesa intransigente dell’ambiente contro lo sviluppo incontrollato con quella altrettanto netta della vita contro la minaccia della guerra, era stata iconicamente (e ironicamente) rappresentata, già nell’aprile del 2022, dal principale Magazine tedesco, “Der Spiegel”, col titolo di copertina Die Olivgrüne – grigioverde diremmo noi, il colore delle divise militari – campeggiante sotto l’immagine dei tre leader ex-pacifisti, Baerbock, Habeck, Hofreiter, in tenuta da combattimento con elmetto, giubbotto antiproiettile e tuta mimetica. A loro – indicati come quelli che hanno spinto il Cancelliere Scholz a rompere un ulteriore tabù tedesco fornendo armi pesanti all’Ucraina – era dedicata la TITELSTORY, incentrata sulla “sconcertante”, così la definivano, constatazione secondo cui “invece di fare la parte del pacifista all’interno del governo, invece di frenare, ritardare e impedire l’invio di pesanti attrezzature belliche all’Ucraina, i Verdi sono quelli che ne vogliono di più e quindi fanno pressione sui loro partner, soprattutto sulla SPD” di Olaf Scholz. E culminante con l’imbarazzante domanda: Was ist da passiert, bei den Grünen, mit den Grünen? “Cosa è successo nei Verdi, con i Verdi?”

Per la verità la prima rottura con l’identità dell’origine, ancora segnata da riflessi sessantotteschi, risale indietro nel tempo, alla seconda metà degli anni ’90. Quando Joshka Fisher, primo ministro degli esteri Verde, diede via libera all’uso dei Tornado tedeschi per bombardare Belgrado. La cosa gli costò un sacchetto di vernice rossa in faccia, scagliato da un militante durante la tumultuosa conferenza di partito di Bielefeld, e l’oltraggiosa equazione Grüne=Kriegstreiber (Verdi=Guerrafondai). Il New York Times titolò “Mezzo secolo dopo Hitler, i jet tedeschi partecipano all’attacco”. Ma era accaduto da poco il massacro di Srebreniza, le pressioni del Presidente americano Clinton su di lui e sul cancelliere Schröder erano state asfissianti. E la cosa passò come un caso limite, una sorta di “stato d’eccezione”.

È però soprattutto col 2022 – con la brutale rottura della situazione di precario stallo sul confine orientale europeo prodotta dall’invasione russa dell’Ucraina – che la mutazione cromatica dei Grünen si rivela nella sua dimensione sistemica e (apparentemente) irreversibile. È allora che la ministra degli esteri verde Annalena Baerbock rompe gli indugi rispetto alla precedente ritrosia (ancora a metà gennaio aveva detto al Bundestag “c’è solo una soluzione, ed è la diplomazia”, e a fine mese aveva aggiunto ”Se si parla non si spara”). E con un salto mortale improvviso, prende la guida del fronte politico pro-guerra, spiazzando il più prudente Cancelliere Scholz e schierandosi apertamente per la consegna di armi pesanti alla “resistenza ucraina”. E da allora giocherà a essere sempre un passo avanti rispetto a tutti gli altri sulla linea di armamento dell’Ucraina. E’ lei che il 21 aprile di quell’anno, nei giorni in cui Bild accusava Scholz di tergiversare nell’invio dei Leopard a Kiev, dichiara bellicosa che “There are no taboos for us with regard to armoured vehicles and other weaponry that Ukraine needs“. E’ ancora lei a proclamare, sulle pagine del “Guardian”, che per troppo tempo la Germania si è affidata alla “diplomazia del  libretto degli assegni” (“for too long Germany had resorted to ‘chequebook diplomacy’”) e che è ora di passare alla politica delle armi. Aggiungendo compiaciuta che “solo due anni fa, l’idea che la Germania consegnasse carri armati, sistemi di difesa aerea e obici in una zona di guerra sarebbe sembrata quantomeno inverosimile. Oggi la Germania è uno dei principali fornitori di armi per l’autodifesa dell’Ucraina”.

Naturalmente il suo non è un caso isolato. Buona parte dell’attuale gruppo dirigente del suo partito è, con diverse sfumature, sulla stessa linea. A cominciare dal potente ministro delle Finanze e vice-cancelliere Robert Habeck, che quasi un anno prima della conversione della sua collega Baerbock, dal Donbass allora ancora segnato da una guerra civile a (relativamente) “bassa intensità”, aveva dichiarato che “non si possono negare armi all’Ucraina”. Fino ad arrivare ad Anton Hofreiter, “botanico, capelli lunghissimi e aria fricchettona” (così lo definiscono su Repubblica), che da presidente della Commissione Europa del Bundestag continua a “infastidire” il Cancelliere per incrementare l’invio di panzer tedeschi in Ucraina. Passando per una figura eccentrica e brillante come la trentasettenne Agnieszka Brugger, un piercing sul viso, capelli tinti rosso fuoco, appartenente all’ala sinistra del partito, vice capogruppo, un’appassionata adesione all’idea di una “politica estera femminista”, che tuttavia non nasconde la sua recente passione per le armi, la tecnologia militare e gli elicotteri navali, in forza della quale guida il processo di rappacificazione tra Verdi ed esercito.

Probabilmente un passaggio interessante per capire questa trasformazione politica, culturale, e in fondo antropologica, è costituito dal Congresso tenuto a Berlino nello scorso novembre quando – come scrisse sul manifesto Marco Bascetta – i Grünen decisero di riunirsi con “il motto più stupido che si potesse immaginare: ‘La nostra ideologia si chiama realtà’”. Un’accettazione – malamente mascherata da uno slogan criptico e tendenzialmente ossimorico – dello stato di cose esistente, che tendeva a giustificare, senza approfondirli, i tanti compromessi imposti negli anni più recenti dalla permanenza nel governo “semaforo”: le ripetute deroghe a favore dei combustibili fossili e del nucleare indotte dalla crisi energetica; l’indegna (per le solidarietà lacerate  e le aspettative tradite) contrapposizione – cito ancora Bascetta – all’“imponente movimento ecologista che si batteva per impedire l’allargamento (ritenuto peraltro da diversi esperti inutile per il fabbisogno energetico del paese) della già immensa miniera di lignite di Lützerath”; “l’allineamento alle ipotesi di inasprimento del diritto di asilo e di trasferimento in paesi terzi dei migranti in attesa di esame”… Verrebbe da dire che quanto più si esaurivano le possibilità di rimanete fedeli al proprio programma fondamentale “eco-rivoluzionario” e alla prima ragione del proprio esistere – per i sempre più stretti vincoli di governo -, tanto più cresceva l’enfasi bellicista trasformata in programma ideale capace di riscattare una crisi esistenziale tendenzialmente terminale. Il che ci introduce, credo, a un nuovo, più profondo livello di riflessione sulle ragioni della metamorfosi verde (e non solo), meno legato alla contingenza istituzionale, e più affondato nelle radici stesse di quel movimento (e nelle radici di tanti movimenti affini della seconda metà del secolo scorso).

Il furor sacro che agita le menti di buona parte degli esponenti di un movimento fattosi Partito e poi Partito di governo, ha a che fare – secondo alcuni interpreti non sprovveduti, soprattutto tedeschi – con l’imprinting moralistico, o moraleggiante che ne ha caratterizzato l’approccio con la politica e l’azione collettiva fin dalla nascita. Una “politica dei valori” – così la chiamano -, o forse meglio una “politica delle emozioni”, contrapposta alla “politica degli interessi”. Una visione degli eventi, e dei propri compiti, in cui il valore assoluto dei principii cancella ogni altra argomentazione di opportunità e di rischio. In cui la potenza morale dell’atto istantaneo assorbe le valutazioni di contesto e di processo. Soprattutto in cui l’ostentazione dei valori rischia di essere “solo una facciata per una politica di potere aggressiva e conflittuale, guidata da un senso di superiorità morale”. Di qui nascerebbe quell’”etica delle armi” che rimuove dal campo dell’argomentazione ogni valutazione sulle conseguenze di quell’impiego distruttivo, ogni considerazione di ordine geopolitico, ogni rilevanza degli interessi propri e altrui. Fiat justitia, pereat mundus. Così come finiscono per scomparire le ragioni storiche, le cause disseminate lungo processi non lineari, in cui la verità non è così lampante come viene raccontata. Il tutto nella convinzione di essere, senza se e senza ma, senza un dubbio o un ripensamento, dalla parte del Bene, perché così è, nell’Origine. Qual è il prezzo che l’Europa paga per questa guerra così infinitamente prolungata, in termini di accesso alle materie prime, di collaborazione economica lacerata, di costo dell’energia, di caduta di domanda, di qualità della vita? Qual è il prezzo della Germania, la più colpita da questa lacerazione di un processo d’integrazione ventennale? Perché mai dovrebbe abbozzare alla distruzione di una delle sue arterie vitali, quel North Stream distrutto da un attentato ucraino e forse anglo-americano senza che quel governo possa levare nemmeno un gemito di protesta? Fino a quando, ci chiedevamo, l’opinione pubblica tedesca avrebbe potuto subire in silenzio tutto questo?

La risposta è venuta dalla recenti elezioni. L’occasione in cui la “politica delle emozioni” si schianta sulla “politica degli interessi” del popolo sovrano. E dalle urne è uscito il mostro che a lungo era stato tenuto in gestazione. In Turingia, dove AfD ha preso il 32,8% (10 punti in più della CDU) e BSW di Sarah Wagenknecht il 15,8%, i Grünen sono andati sotto la soglia di esclusione con il 3,2%. In Sassonia sono entrati per un pelo, col 5,2%, contro il 30,6% di Afd e l’ 11,8 di BSW. È un segnale potente. Se durerà ancora molto questa guerra, con la crisi che si trascina con sé e il crepuscolo dell’Europa che l’accompagna, la prossima volta sarà peggio. Molto peggio. Sotto le ali da Angelus Novus di Ursula resterebbe non l’Europa risanata e “pulita” che promette  ma un panorama di rovine.


Pubblicato su Volere la luna

Ripreso da  https://comune-info.net/verde-marcio/


PASOLINI FA SCUOLA

 


14 settembre 2024

UNA FORZA SOCIALE CHIAMATA SPERANZA

 


La forza sociale chiamata speranza


Aldo Zanchetta
14 Settembre 2024

Dalla critica allo sviluppo alla lotta contro l’estrattivismo: mentre il rischio di estinzione della vita sul pianeta comincia a diventare un incubo collettivo, è l’idea di speranza come forza sociale radicata, in forme diverse, nel presente ad offrire oggi un orizzonte di senso a tanti e tante. Riallacciare il filo che lega Ivan Illich, tra gli altri, con Gustavo Esteva, come fa qui Aldo Zanchetta, consente di avere a disposizione un faro per orientarsi nel buio del tempo che viviamo

Foto di Massimo Tennenini

Puntuale come sempre, in luglio è arrivato l’annuncio dell’incontro annuale in settembre promosso dalla rivista L’Altrapagina, un mensile locale edito a Città di Castello e promosso oltre quarant’anni anni or sono da Achille Rossi, quell’irripetibile personaggio che qualcuno ha definito, in modo che più appropriato non si può, l’”ultimo parroco di campagna”, che ne cura tuttora il dossier centrale. E come sempre il tema del convegno, articolato su due giorni, è di drammatica attualità: “Un pianeta al collasso” (questo articolo è stato scritto prima dell’incontro a Città di Castello).

Mi concedo una nota personale: per molti anni ho partecipato regolarmente a questi incontri dove un paio di centinaia (o forse anche più) di persone motivate, venute da varie parti d’Italia, riempiono il Teatro degli Illuminati per ascoltare ma anche dialogare, dentro o fuori dagli spazi e tempi programmati, con i relatori e con vecchi amici con i quali si riprendono i fili di discorsi avviati l’anno precedente. Un clima conviviale raro in questo tipo di eventi che stimola il “senti-pensiero”. Poi le difficoltà di salute mi resero progressivamente difficile la partecipazione e da sei anni non sono più stato presente. Ma mi manca.

La scelta dei temi volta a volta affrontati è stata sempre in sintonia con la situazione mondiale. Alcuni esempi: “Reinventare la politica – dal monologo ideologico al dialogo interculturale” (1995, con Raimon Panikkar fra i relatori); “Con gli occhi del sud” (1996), “Il ritorno della guerra” (2002) e via di seguito. Fu in quest’ultima occasione che conobbi Ivan Illich col quale nacque, grazie a don Achille, una breve e intensa amicizia che portò ad alcuni incontri ravvicinati. Però, sfortunatamente, due mesi dopo l’ultimo, alla vigilia di un nuovo più lungo incontro, perché sarebbe tornato “per morire al sole di Toscana”, ci lasciò improvvisamente chinando il capo sui fogli che stava annotando.

Mi lasciò un dono prezioso, del quale gli sono grato, e cioè l’amicizia con Gustavo Esteva, durata ben tredici intensi anni. Alla fine di un pranzo consumato “nella cucina di Samar, nelle Cure di Firenze”, come scrisse in un suo libro che gli avevo chiesto di firmare, avendo appreso dei miei viaggi filo-zapatisti in Messico, estratta dalla giacca un’agenda fitta di nomi mi scrisse il suo numero di telefono raccomandandomi «è un tipo da conoscere». E così accadde.

Torno al tema dell’ormai prossimo XXXVI Convegno: “Un pianeta al collasso”. Del possibile collasso del pianeta Terra Illich aveva scritto più di cinquant’anni or sono nel capitolo VII del suo libro più eretico (quale dei suoi libri degli anni Settanta non fu eretico?) Descolarizzare la società, con una capacità di previsione che, rileggendolo oggi, farebbe pensare che fosse uno sciamano, ma non lo era. Era solo un osservatore attento dei fatti del suo tempo.

Nella prima pagina del capitolo, dopo aver citato il caso curioso di una scatola metallica a chiusura automatica a scatto quando veniva aperta, vista tempo prima in un negozio di New York, scrive:

Questo bizzarro congegno è il contrario esatto della “scatola” di Pandora. E ricorda l’antico mito di Pandora dei tempi della Grecia matriarcale secondo il quale essa «fece scappare tutti i mali dal suo vaso (pythos), ma chiuse il coperchio prima che potesse fuggirne anche la speranza».

E prosegue:

La storia dell’uomo moderno comincia con la degradazione del mito di Pandora e termina con lo scrigno che si chiude da solo. È la storia dello sforzo prometeico per creare istituzioni che blocchino l’azione dei mali scatenati. È la storia dell’affievolirsi della speranza e del sorgere delle aspettative. Per capire ciò che questo vuol dire dobbiamo riscoprire la differenza tra speranza e aspettativa. Speranza, nell’accezione più pregnante, indica una fede ottimistica nella bontà della natura, mentre aspettativa, nel senso in cui utilizzerò questo termine, è contare sui risultati programmati e controllati dall’uomo.

Penso sia superfluo sottolineare che Illich si riferiva alla società industriale e al mito dello sviluppo, a quello che ci hanno promesso e a quello che ci stanno invece dando: la paura del collasso della vita sul pianeta Terra e la paura di una guerra “stellare”. Due temi su cui tornerò.

Per chi vuole conoscere meglio le considerazioni di Ivan su questo mito, tutt’altro che banali, non mi resta che rinviare alla lettura del testo di Illich, reperibile anche sul web. Un testo che mi piacerebbe leggere e commentare in piccoli gruppi di una decina di persone. L’uso accurato delle singole parole fa sì che ogni paragrafo equivalga alla lettura di un intero saggio.

Proseguo la citazione:

Oggi l’ethos prometeico ha messo in ombra la speranza. La sopravvivenza della specie umana dipende dalla sua riscoperta come forza sociale.

Nell’autunno del 2018 consigliai a Gustavo (Esteva) di scrivere un libro sulla speranza, parola che compariva spesso nei titoli dei suoi articoli giornalistici o in saggi più impegnativi, in genere trascrizioni di suoi interventi in occasione di seminari importanti. Gustavo accettò di buon grado dando alla parola l’accezione con cui Illich la impiegava: una forza sociale insita nell’uomo.

Non racconto le traversie del libro, uscito nei giorni scorsi quattro anni dopo la col titolo appunto di Speranza forza sociale.

Nelle librerie dal 1 ottobre al prezzo di 19,50 euro. In pre-vendita promozionale fino al 30 settembre a 15 euro cliccando qui

Quando Illich scrisse quel capitolo ben pochi, per non dire nessuno, pensavano a un possibile collasso della vita sul pianeta Terra. Erano gli anni in cui lo “sviluppo” e la “crescita” erano sulla cresta dell’onda da quando Truman nel 1949 li aveva lanciati. Se qualche dubbio in qualcuno era nato a causa delle prime piogge acide sui boschi della Scandinavia, esso venne ben presto dissipato con una serie di aggettivi tranquillizzanti apposti alla parola sviluppo. Se ne contarono più di venti: sostenibile, compatibile, durevole, integrale, umano, etnico…

Dunque la frase “la sopravvivenza della specie umana dipende dalla speranza come forza sociale” al più venne accolta con un sorriso di compatimento.

Oggi invece l’estinzione della vita sul pianeta è divenuta un incubo collettivo, e dopo il fallimento di molti supposti rimedi (l’economia green e quant’altro) e lo sconcerto sempre più ampio di fronte al moltiplicarsi di soluzioni che non risolvono, la parola speranza torna ad essere evocata con frequenza crescente cucinata con molte salse diverse: un intervento provvidenziale, divino o teleologico, esterno all’impegno dell’uomo. E alcuni noti agnostici preveggenti sono da tempo arrivati a dire: “solo un dio ci può salvare”!

Secondo Illich, la scomparsa della vita sul pianeta può avvenire in seguito a due processi diversi: un click della mano di un militare su un pulsante o un più lento ma più certo procedimento “civile”.

Cito di nuovo Illich:

Ogni istituzione nata per esorcizzare uno dei mali primitivi è diventata per lui (l’uomo) uno scrigno a perfetta tenuta e a chiusura automatica. L’uomo è intrappolato nelle scatole da lui costruite per racchiudervi i mali che Pandora si lasciò scappare. […] Anche la realtà è arrivata a dipendere dalle decisioni umane. […] Il “pulsante di Hiroshima” può oggi tagliare l’ombelico della Terra. L’uomo ha il potere di far sì che Caos travolga sia Eros sia Gaia (l’antico nome greco della Terra). Questo suo nuovo potere ci ricorda costantemente che le nostre istituzioni non soltanto si creano i propri fini, ma possono anche porre fine a se stesse e a noi. […] Non meno palese è l’assurdità di fondo delle istituzioni non militari. Non hanno pulsanti che possano scatenare la loro potenza distruttiva, ma non ne hanno neanche bisogno. Tengono già ben saldo nelle loro mani il coperchio del mondo. Creano bisogni più rapidamente che soddisfazioni e nel tentativo di appagare i bisogni che esse stesse suscitano, consumano la Terra.

Sottolineo un dettaglio nella lunga argomentazione successiva:

Se la combustione continuasse ad aumentare con l’attuale ritmo, finiremmo presto per consumare l’ossigeno dell’atmosfera con una rapidità superiore a quella della sua rigenerazione. E non abbiamo motivo di credere che la fissione o la fusione (nucleari) possano sostituire la combustione senza rischi eguali o maggiori.

Torniamo a Esteva e al suo progetto di libro. Egli aveva capito e fatto proprio il significato che aveva per Illich la parola speranza. L’Armageddon si sarebbe potuto evitare solo ricorrendo all’impiego organizzato di quella forza sociale. E il nemico primo da combattere, come mi scrisse nel 2020 quando mi indicò i vari punti che intendeva trattare nel libro, era il capitalismo.

All’inizio della seconda decade di questo secolo Gustavo, che esplorava a 360 gradi i pensieri alternativi elaborati nel mondo, aveva mostrato un forte interesse per la nuova lettura del pensiero di Marx fatta dai due pensatori tedeschi, Robert Kurz e Anselm Jappe, i quali, nella loro lettura marxista degli ultimi cento anni del processo industriale, avevano osservato la diminuzione continua del valore prodotto industrialmente, la cui l’appropriazione dell’eccedenza costituiva la base del capitalismo. Questa diminuzione si era accelerata dall’inizio del presente secolo con la rivoluzione causata dall’automazione degli impianti di produzione con progressivo calo dell’incidenza del lavoro umano impiegato, che era quello generatore di plusvalore [sto affrontando una problematica non facile e mi sforzo di sintetizzarla il più semplicemente possibile].

Secondo il pensiero del gruppo Krisis, al quale i due studiosi citati appartenevano, e in particolare secondo quello di Anselm Jappe, autore del libro La societé autophage, questo processo, in via di accentuazione, è irreversibile e porterà, in tempi però ancora lunghi, alla fine del capitalismo. In parole povere il capitalismo ha inscritta nel suo DNA la propria morte. Evento che in molti, tra cui lo stesso Esteva, ci auguriamo da tempo, anche se qualcuno non lo spera più, rinunciando alla lotta o scendendo a compromessi.

Esteva era un lottatore sociale realista, non un teorico. E l’osservazione della realtà era la guida della sua azione (“Riflettere nell’azione” o, detto zapatisticamente, “camminar domandando”). Dall’osservazione di una realtà sempre più caotica e violenta e di alcuni fatti specifici significativi, negli ultimi due anni di vita egli era andato al di là delle analisi della Wertkritik e aveva concluso che il capitalismo era morto. Conclusione che richiede qualche chiarimento del significato di questa affermazione e che farò dopo.

Già dagli anni Novanta in America Latina era stata forgiata una nuova parola per descrivere la situazione che si era creata: estrattivismo. La parola era nata a seguito della crescita esponenziale della estrazione mineraria sollecitata dall’esigenza di fare fronte alla scarsità di certe materie prime dovuta all’aumento della produzione nonché, per alcune di esse, all’evoluzione tecnologica, e successivamente era stata applicata anche alla crescente espropriazione della ricchezza biologica di quella regione del mondo. E, per analogia, ad altri processi: la gentrificazione nelle città, l’espropriazione di denaro on nuove tasse, di diritti etc.

Due studiosi latinoamericani, Raúl Zibechi e Eduardo Gudynas, avevano approfondito l’analisi e il primo in particolare aveva scritto un libro, il cui titolo dell’edizione italiana fu La nuova corsa all’oro, che suscitò interesse e contribuì a far conoscere la parola anche da noi, che tuttavia non appare nel pur aggiornatissimo Vocabolario Treccani mentre la versione italiana di Wikipedia si limita a dare la versione dell’estrattivismo minerario.

In un passo di un’intervista, riportato nel libro SPERANZA forza sociale, Esteva dice:

Un modo di produzione è diventato un modo di espropriazione, e quello che stiamo vivendo è una modalità di organizzazione che fondamentalmente vive di espropriazione, quello che in America Latina chiamiamo estrattivismo: estrattivismo finanziario, estrattivismo nell’ambito dei diritti del lavoro, della terra, di tutto. Portare via tutto, ad ogni costo e con immensa distruzione. Questo è ciò che stiamo vivendo. È la fase peggiore e più distruttiva della fine di un’era e della nascita di un’altra era, è il momento in cui si presenta quello che ci appare come un bivio, una biforcazione.

La riflessione di Esteva sulla fine in atto del capitalismo si era soffermata sulla trasformazione del capitalismo da industriale a finanziario evidenziata dalla grande crisi del 2009. Questa sua lettura si rafforzò nel corso della pandemia da Covid 19. Con questo cambiamento, il capitalismo aveva perso la sua radice fondante: la generazione di valore tramite il lavoro umano salariato. Nel libro scrive:

La maggior parte della produzione odierna ha ancora un carattere capitalista, ma il capitale non può più ricorrere al meccanismo che lo costituisce: investire i profitti nell’espansione della produzione acquistando forza lavoro e compensando ogni aumento della produttività con un equivalente aumento della produzione. A causa di questi e di altri fattori, la riproduzione mondiale del sistema capitalistico non è più praticabile.

Nel corso della pandemia, Esteva era rimasto impressionato dal modo in cui i governi di ogni parte del mondo hanno reagito. Se i grandi tecno-filantropi, che in realtà oggi sono i veri padroni del mondo (Jeff Bezos, Elon Musk, Mark Zuchenberg, Bill Gates …), li avevano portati a effettuare le prove generali di una «società del controllo», con il pretesto difficilmente criticabile di “salvare vite”, significava che questi avrebbero avuto presto la necessità di imporla stabilmente per poter continuare a arricchirsi. E citava anche Vaclav Havel, il presidente dell’allora Cecoslovacchia durante la transizione post-sovietica, il quale aveva scritto che la speranza non “è la convinzione che qualcosa accadrà secondo certe modalità, bensì la convinzione che qualcosa abbia un senso, indipendentemente da ciò che avverrà”. È la speranza del contadino che semina attuando tutte le misure per ottenere un buon raccolto senza certezza che qualche imprevisto lo vanifichi.

Questo però non vanifica la speranza:

Si, credo che possiamo alimentare speranza con tutta serietà. (…) È una speranza ben radicata nel presente. (…) Sì, sappiamo cosa fare… e lo stiamo facendo. Ovviamente, nessuno può assicurarci che otterremo di fermare l’orrore. Però la speranza che dobbiamo infondere ha fondamento.

Su questo suo balzo in avanti nella lettura della realtà, Anselm Jappe, col quale stava dialogando, non concorda: la fine del capitalismo è si in corso ed è inevitabile, ma è ancora lontana. Su un punto il pensiero dei due collima e lo espongono con parole molto simili. Uso quelle di Esteva:

La fine del capitalismo non garantisce assolutamente il passaggio a una società migliore. Al contrario, la caduta nella barbarie è ciò che accade già in molte occasioni, e rischia di essere il risultato finale su scala globale. Non è solo il grande Stato totalitario che ci minaccia, ma anche l’anomia. La società della merce si va decomponendo in isole di benessere (molto relativo), circondate di filo spinato, da un lato, e il resto del mondo che crolla dall’altro lato, impegnato nelle guerre fra bande attorno a quelle poche cose che hanno ancora “valore”. (…) Ma l’implosione del capitalismo lascia un vuoto che permette forse anche di far emergere un’altra forma di vita sociale.

Su un altro punto mi pare ci sia accordo fra i due, e per esprimerlo questa volta ricorro alle parole di Jappe:

Ci sono buoni motivi per pensare che la distruzione della natura e l’artificializzazione della vita siano ormai diventati i problemi centrali la cui soluzione è preliminare a qualsiasi altro intervento nel mondo. L’uscita dal capitalismo sarà necessariamente anche un’uscita dalla società industriale.

Una osservazione di Jappe sulla quale mi sembra sia interessante soffermarsi, è che l’aumento di violenza a cui stiamo assistendo, nelle sue varie forme, è una conseguenza della diminuzione del valore prodotto con cui arricchirsi. Egli non cita la parola estrattivismo ma mi pare che sia prima di tutto tramite la violenza estrattivista che si cerca di compensare questa riduzione.

Se due anni prima Esteva, scrivendomi i sette punti che avrebbe sviluppato, la lotta al capitalismo era al primo posto, essa era scomparsa nel significativo articolo dal titolo non casuale Che fare? pubblicato su La Jornada del 21 gennaio 2022 e su Comune, circa due mesi prima della sua morte. Fra le varie cose indicate spiccano il ritorno del pensiero dal futuro al presente e dal globale al locale, cioè dalla astrazione alla realtà. Egli ricordava spesso una frase di John Berger, artista multiforme socialmente impegnato:

Nominare l’intollerabile è già di per sé la speranza. Quando qual­cosa viene percepito come intollerabile è necessario fare qualcosa. L’azione è soggetta a tutte le vicissitudini della vita. Però la pura speranza risiede in primo luogo, in forma misteriosa, nella capacità di nominare l’intollerabile in quanto tale, e questa capacità viene da lontano, dal passato e dal futuro. Questa è la ragione per la quale la politica e il coraggio sono inevitabili.

E ammoniva:

La speranza […] suppone il riconoscere i propri limiti, quelli che sono propri della condizione umana, ed aprirsi alla sorpresa, al fascino dell’inatteso. Implica, ad esempio, pren­dere coscienza che la società nel suo insieme è il risultato di una infinità di fattori e di condizioni interamente imprevedibili. Sbaglieremmo se, per metterci in movimento, esigessimo di disporre di un progetto perfetto di società che contribuiremo a creare con la nostra azione. Però questa speranza radicale, cosciente dei suoi limiti ma anche delle sue potenzialità, è la speranza dalla quale oggi dipende la sopravvivenza del genere umano.

Al lettore questa narrazione potrà apparire priva di un filo logico. Dai convegni di Città di Castello agli altipiani del Chiapas fino agli attuali incontri sotto il tiglio centenario di Gragnano con gente di svariate culture e progetti di vita. Da Don Achille a Illich poi a Esteva e Anselm Jappe, con altri numerosi intermezzi in una sequela continua di incontri e nuove amicizie.

Chiudo con queste parole del titolo di uno scritto di Gustavo: Amicizia, sorpresa, speranza, le chiavi di una nuova era.


Nell’archivio di Comune, gli oltre 150 articoli di Gustavo Esteva sono leggibili qui


Aldo Zanchetta ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura