20 maggio 2025

IL PASOLINI DI P. DESOGUS

[E’ da poco uscito per La Nave di Teseo In difesa dell’umano. Pasolini tra passione e ideologia, di Paolo Desogus. Ne pubblichiamo la premessa]. PAOLO DESOGUS Una premessa per il presente Ogni passato […] può ottenere un grado di attualità più alto che al momento della sua esistenza. La sua configurazione in quanto superiore attualità spetta all’immagine in cui la comprensione lo riconosce e lo colloca. E questa compenetrazione dialettica e presentificazione di circostanze che appartengono al passato è la prova di verità dell’agire presente. Ovvero: essa accende la miccia del materiale esplosivo riposto nel ciò che è stato. W. Benjamin, I “passages” di Parigi Le pagine che seguono raccolgono e rielaborano il mio lavoro di ricerca sull’opera di Pier Paolo Pasolini e più precisamente sul tema della contraddizione, qui analizzato attraverso le sue diverse declinazioni e alla luce di quel processo di trasformazione culturale, sociale ed economico, ancora oggi in corso, chiamato negli Scritti corsari “mutazione antropologica”. Con questo libro vorrei infatti offrire al lettore un’indagine approfondita del corpus pasoliniano, mantenendo vivo il dialogo con il presente con l’obiettivo di restituire ai suoi testi e ai vari concetti chiave che vi compaiono quella “superiore attualità” necessaria per interpretare e agire sul nostro tempo. Soprattutto la contraddizione – tra “passione e ideologia”, “con te e contro te” –, coltivata sin dagli anni friulani e poi riproposta in modi diversi nelle opere più mature, mi pare aiuti a ritrovare nel lavoro poetico la sua facoltà di comprensione del mondo e quindi a recuperare quel legame tra ricerca espressiva e dimensione politica che ha permesso a Pasolini di interrogare l’umano, le sue forme simboliche e il suo rapporto con la storia. La premessa che ha guidato questo studio è che tra attività artistica e vita sociale vi è sempre un nesso che l’indagine critica deve sforzarsi di spiegare per evitare che l’espressione poetica, per dirla con Fortini, si degradi ad “aroma spirituale” o a “ipocrita ‘cuore di un mondo senza cuore’”, se non a vero e proprio “vino di servi”[1]. Tale legame è cruciale in Pasolini. Nella sua opera anche la più banale effrazione metrica, anche il più semplice innesto dialettale o la più elementare inquadratura svolge una funzione politica. E questo non perché sia convinto che le scelte stilistiche abbiano il potere di modificare la realtà, ma perché, nella sua ottica, ogni decisione rimanda ai modi in cui la coscienza poetica vive la propria contraddizione col mondo e dunque reagisce al suo contesto nel tentativo di comprenderlo e di verificare le condizioni di possibilità della sua trasformazione. La politicità di Pasolini, dunque, non risiede solo nelle prese di posizione e negli espliciti riferimenti alle questioni sociali. Né mi pare possa essere risolta ricorrendo alle etichette che si è dato, come ad esempio quella di intellettuale marxista. Tutti questi elementi hanno la loro grande importanza (non si può infatti pensare a Pasolini senza gli Scritti corsari e le Lettere luterane, né gli si può negare l’appartenenza al campo marxista), ma possono essere pienamente compresi solo nel quadro della lotta per l’espressività che ha combattuto sin dagli anni casar­sesi. Le arti e in particolare la letteratura sono state per Pasolini il luogo di analisi critica delle forme di oppressione e di studio delle relazioni tra il singolo, il suo bios, la collettività e i processi materiali. La stessa “mutazione antropologica”, elaborata negli ultimi anni corsari e maggiormente prossima al tema dell’uma­no, ha le sue radici nell’impossibilità che Pasolini vive in quan­to autore via via deprivato della materia espressiva dei dialetti, così come dei visi e dei gesti di quel corpo popolare raffigurato in molte sue opere. La manipolazione che dagli anni sessanta il mercato estende a ogni fascia sociale, incluso il sottoproletariato urbano raccontato nei romanzi romani e l’universo contadino delle poesie giovanili, toglie a Pasolini un aggancio al mondo, segna sia l’erosione della sua poetica che la perdita di realtà, cioè il progressivo smarrimento di quei dati estetici concreti che con­sentivano il confronto con il mondo esterno, con ciò che resiste alle convenzioni e alle forme di assoggettamento. La contraddizione, e negli ultimi anni la difesa della con­traddizione dalle mutazioni che promettono di sollevare l’umano dalla sua finitudine, dalla sua costitutiva incompletezza, è con­fluita nella riflessione politica e ha trovato un fortunato sviluppo nella critica alla società dei consumi che si è affermata in Italia negli anni del miracolo economico. Nella promessa di benesse­re per mezzo delle merci Pasolini vede infatti non l’esito di un nuovo progresso, ma il compimento di una forma di alienazio­ne capace di degradare l’individuo, di schiavizzarlo e di farne lo strumento di uno sfruttamento inedito, che attinge non più solo dal lavoro, come negli operai di Marx, o dal radicamento egemonico, come ha poi mostrato Gramsci, ma anche dalla sua più profonda intimità, ovvero dal suo desiderio, dall’“amor che move”2 che dà slancio alla vita, sostanzia i legami sociali e dà impulso alla costruzione delle forme simboliche. Come si osserva soprattutto nell’ultimo Pasolini, il falso progresso denunciato già dalla fine degli anni cinquanta si serve di questa forza vitale per estendere il progetto di sfruttamento capitalistico. Trasforma la contraddizione in omologazione, il desiderio di vita in desiderio di merce, l’eros in prestazione, le relazioni sociali in sfruttamento del prossimo, le comunità in campo di competizione e di autoaffermazione egoistica. Lo stesso “amor che move” dantesco[2] volge in agency priva di respiro comunitario, di apertura all’alterità e di riconoscimento della propria condizione esistenziale e politica in quella del prossimo. Il falso progresso neocapitalistico e le più recenti varianti neoliberali costituiscono in questo senso il punto più avanzato di mutazione. Esso si propone di sostituire l’umanesimo con la tecnica, l’arte con l’intrattenimento, l’amicizia con la competizione, la politica con il management, la democrazia con la governance, l’universale con il culto del frammento. La sua promessa è quella di saturare il desiderio, di eliminare il senso di contingenza, di incompletezza dell’umano, mediante l’illusione della crescita verticale dell’io, del godimento materiale illimitato e della rimozione di tutto ciò che si pone di fronte all’individuo come un ostacolo. La stessa esperienza della morte, come si rileva ancor più negli ultimi anni, è occultata da un vitalismo edonistico che nega ogni vincolo materiale, rimuove le fragilità del corpo, nasconde ogni traccia che rimandi alla precarietà ontologica del singolo e spinge alla performance continua. L’idea di limite è espulsa dal pensabile, sostituita dalla venerazione del consumo per il quale l’invecchiamento e la fine biologica dell’esistenza sono anomalie da correggere. Considerata l’eccezionale trasformazione prodotta dal capitali­smo nell’ultimo mezzo secolo e i tanti anni trascorsi dalla scomparsa di Pasolini è lecito chiedersi quanto siano attuali le sue riflessioni sulla mutazione antropologica e soprattutto se la sua critica al con­sumismo non sia in fondo il frutto dei timori personali di un autore essenzialmente antimoderno e nostalgico, che ha denunciato un avanzamento giunto a compiersi, su cui dunque occorre interrogarsi senza rimpiangere il vecchio umanesimo e le sue “lucciole”, legate invece a un mondo storico ancora prossimo a una natura oggi del tutto dominata. Questa estraneità al presente parrebbe del resto motivata dalle recenti acquisizioni tecnologiche, che hanno deter­minato nuovi rapporti di produzione dallo scrittore friulano intra­visti solo nel loro primissimo bagliore, senza dunque avere reale esperienza dei loro effetti sull’umano e sulle sue forme simboliche. La tesi di questo libro è che il valore e la “superiore attualità” di molte sue considerazioni sono in realtà dovuti all’esperienza di conflitto maturata con il proprio tempo, lungo un percorso ric­chissimo di cambiamenti, dall’avvento alla caduta del fascismo, dalla lotta di Liberazione e dalla rinascita del movimento operaio alla fine delle speranze di rivoluzione, dal sorgere del miracolo economico all’affermazione della nuova civiltà dei consumi che ha modificato la percezione dell’essere umano sul mondo e su se stesso. In Pasolini queste diverse fasi storiche convivono nelle sue narrazioni, nelle sue scelte stilistiche. Si sviluppano attra­verso il corpo a corpo con il suo tempo. E hanno dato forma al suo alfabeto politico, interagendo in modo fecondo con la sua poetica della contraddizione. Come infatti si riscontra in molti momenti della sua opera, arcaicità e modernità, sopravvivenza del passato e civiltà dei consumi si intrecciano, sono l’espressione di continue sovrapposizioni, di scambi conflittuali che mimano i contrasti tra essere e divenire, tra la creaturalità dell’umano e il pericolo della sua mercificazione. Quello che consente di tenere aperto il dialogo tra Pasolini e il presente sta allora proprio nella sua idea di contraddizione, da lui coltivata attraverso un itinerario poetico e intellettuale strettamente intrecciato al percorso della grande tradizione umanistica italiana ed europea, quella di Dante, Leopardi, Gramsci e de Martino, con aperture a Dostoevskij, a Proust e, negli ultimi, anni alle esperienze politico-filosofiche di Marcuse e di Horkheimer e Adorno, da cui ha tratto linfa la sua ragione impura per pensare l’umano fuori dalle concezioni aprioristiche della storia e della società. Questo cammino inizia a Casarsa, in Friuli, dove Pasolini compie le prime sperimentazioni letterarie, scopre la propria omosessualità e vive quella cruciale scissione tra sé e l’altro da sé, che nel passaggio a Roma diviene desiderio di desiderio, abbraccio collettivo, ricerca del proprio io nell’altro. Dopo Casarsa e Roma, negli anni sessanta, l’umanesimo di Pasolini trova i propri riferimenti oltre i confini nazionali. Soprattutto quando la sfida poetica e intellettuale si misura con la fine delle aspirazioni rivoluzionarie il suo sguardo matura e assume una consistenza intellettuale nuova, che gli consente di rinnovare la critica alla ragione neocapitalistica e di analizzare la sua capacità di fondare il proprio dominio non più solo per mezzo della forza, ma sulla spinta di una capacità egemonica inedita che crea consenso, costruisce un nuovo immaginario e allo stesso tempo si impossessa dei corpi per integrare il loro slancio di desiderio nella logica del consumo. Pasolini non ha conosciuto lo sviluppo economico, industria­le e tecnologico di cui oggi siamo testimoni e questo libro non ha certo la pretesa di farne un profeta moralisticamente ostile. Quello che consegno con queste pagine mi auguro possa però servire a comprendere il nostro tempo dall’ottica umanistica di Pasolini. Resto infatti persuaso che la sua vicenda poetica e intellettuale consenta di ripercorrere criticamente la traiettoria delle “magni­fiche sorti progressive” che collegano il passato al presente e che nel tratto che ora attraversiamo aspirano apertamente alla possi­bilità del superamento dell’umano per mezzo di dispositivi che allargano la percezione, distaccano sempre più dalla datità vitale e promettono di liberarlo dai suoi limiti esistenziali per farne un soggetto dotato di illusorie facoltà autopoietiche, dunque appa­rentemente capace di autodeterminarsi, di diventare imprendito­re e legislatore di se stesso al di fuori di qualsiasi “social catena”, sciolto dai vincoli con il prossimo e da ogni ideale comunitario. Tale prospettiva minaccia di alienare ulteriormente ogni slancio, ogni desiderio: non più desiderio di desiderio, sforzo collettivo per resistere alla finitudine o “amor che move”, ma brama di merce che dà compimento alla colonizzazione dell’umano, all’estremo superamento della contraddizione tra io e mondo mediante l’alie­nazione e lo sfruttamento. È questo l’esito transumanista, l’ultima variante della mutazione antropologica che spoglia il singolo di ogni legame sociale, di ogni progetto comunitario, e che aspira ad amministrare la vita secondo le regole del consumo, con l’o­biettivo di trasformare il desiderio in un moltiplicatore di potenza del capitale. Note [1] F. Fortini, Metrica e biografia, «Quaderni piacentini», n.s. 2, XX, 1981, p. 106. [2] La citazione riprende naturalmente un verso di Dante, ma si riferisce anche al bel titolo del volume di M. Gragnolati, Amor che move. Linguaggio del corpo e forma del desiderio in Dante, Pasolini e Morante, il Saggiatore, Milano 2013.

17 maggio 2025

LA RIBELLIONE DELLE MASSE

José Ortega y Gasset La ribellione delle masse (1930) traduttori Salvatore Battaglia, Cesare Greppi ... la vita è anzitutto un caos in cui uno si smarrisce. L'uomo ne ha il sospetto: ma l'atterrisce l'idea di trovarsi faccia a faccia con questa terribile realtà, e si sforza di nasconderla con un telone fantasmagorico, dove tutto risulta molto chiaro. Non lo preoccupa il fatto che le sue «idee» non sono veridiche: egli le impiega come trincee per difendersi dalla sua vita, come spauracchi per allontanare la realtà. L'uomo di intelletto lucido è colui che si [libera] di queste «idee» fantasmagoriche e guarda in faccia alla vita; e si rende conto che tutto in lei è problematico, e si sente smarrito. E poiché questa è la pura verità - cioè che vivere è sentirsi smarrito - chi l'accetta ha già cominciato a ritrovarsi, ha già incominciato a scoprire la sua autentica realtà, è già su un piano stabile. Istintivamente, come il naufrago, cercherà qualcosa a cui aggrapparsi, e questo tragico sguardo perentorio, assolutamente verace perché tenta di salvarsi, gli farà dare un ordine al caos della sua vita. Queste sono le uniche idee veridiche: le idee dei naufraghi. Il resto è retorica, posa, farsa intima. Chi non si sente veramente smarrito, si perde inesorabilmente; cioè non si trova più, non s'incontra mai con la propria realtà. Questo è vero in tutte le sfere dell'umano, anche nella scienza, nonostante che la scienza sia per se stessa una fuga dalla vita (la maggior parte degli uomini di scienza si sono dedicati a lei per il terrore d'affrontare la propria vita, non sono intelletti chiari; e da qui la loro risaputa timidezza dinanzi a qualsiasi situazione concreta). Le nostre idee scientifiche valgono nella misura con cui ci siamo sentiti smarriti in presenza d'un problema, nella misura con cui ne abbiamo intuito il carattere problematico e abbiamo compreso che non possiamo sostenerci su idee ricevute, su formule, ricette, lemmi, parole. Colui che scopre una nuova verità scientifica ha dovuto prima triturare quasi tutto ciò che aveva appreso, e giunge a questa nuova verità con le mani insanguinate per aver strozzato innumerevoli luoghi comuni.

GAZA, UNA RIFLESSIONE SUL LINGUAGGIO

Il genocidio e l’archivio coloniale che si riapre Iain Chambers, il manifesto, 16 maggio Nessuno possiede una lingua. Insistere su questa banale constatazione, quando gli altri mezzi della sfera pubblica sono sempre più soggetti a censura, non significa semplicemente mantenere un distacco critico. Se, come ha insistito Hannah Arendt, ciò che rimane è il linguaggio, allora questa affermazione propone anche l’inizio di un processo per ribaltare il suo controllo da parte della retorica mortale che attualmente cerca di esercitarlo. Il paradosso del controllo del linguaggio a sostegno dell’oscenità omicida che si sta verificando a Gaza, ovvero il diritto di Israele a difendersi da chi sta opprimendo e massacrando, ha portato a sganciare il concetto di genocidio da una definizione esclusivamente etnica e religiosa legata all’esperienza ebraica moderna. Inizialmente, nei giorni e nelle settimane successive al 7 ottobre 2023, persino i commentatori di sinistra hanno mostrato cautela nell’applicare il termine “genocidio” ai crescenti massacri e alle uccisioni indiscriminate di civili nella Striscia di Gaza. Tuttavia, con il passare del tempo, le prove sono aumentate e sono state trasmesse in diretta streaming, oltre a essere confermate dalle dichiarazioni del governo israeliano che non lasciavano dubbi: tutti i palestinesi dovevano essere considerati animali, terroristi e combattenti da eliminare. Che il massacro abbia inizio. E continua. Alcune testate internazionali come The Economist e The Financial Times hanno incominciato a criticare la brutalità della politica israeliana, e l’ex Alto rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, ha sostenuto che si tratta effettivamente di genocidio. Ultimamente il termine è comparso di sfuggita persino sul Corriere della Sera. Forse si inizia ad alzarsi un altro vento. La redazione consiglia: Una società dispersa e fatta a pezzi: la Nakba è quotidiana Se le accuse di antisemitismo sono diventate sempre più insensate nella loro applicazione indiscriminata a qualsiasi critica, perfino quando proviene da ebrei dissidenti, a Israele, al sionismo e alla sua arroganza coloniale di fondo, anche la controversia sull’applicazione del termine “genocidio” ha riaperto brutalmente un archivio coloniale e la sua centralità nella costruzione della modernità occidentale. Nel 1905, Sir Roger Casement, successivamente giustiziato da Londra per le sue attività di repubblicano irlandese, scrisse un rapporto ufficiale per il governo britannico sugli abusi dei diritti umani della popolazione indigena del Congo belga. Documentò la schiavitù, le mutilazioni, le torture, gli omicidi e il regno del terrore organizzato per l’estrazione di caucciù e avorio nel feudo privato del re Leopoldo. Lì incontrò Joseph Conrad, il futuro autore di Cuore di tenebra. In seguito, condusse spedizioni di ricerca su abusi simili contro i Putumayo da parte degli imperi del caucciù in Amazzonia. In Inghilterra, i suoi resoconti provocarono l’indignazione dell’opinione pubblica e l’avvio di procedimenti giudiziari. Se in Amazzonia i morti e i massacri furono migliaia, in Congo le vittime furono molte di più, forse fino a dieci milioni. Nel 1915, lo storico britannico Arnold Toynbee preparò rapporti dettagliati per il Ministero degli Esteri britannico su quello che descrisse come lo sterminio degli armeni sotto gli Ottomani in Anatolia e nelle marce della morte nel deserto della Siria. Il termine “genocidio” fu coniato all’inizio degli anni Quaranta dell’ultimo secolo dall’avvocato ebreo polacco Raphael Lemkin, che riconobbe l’eliminazione degli armeni come un caso di genocidio. Egli utilizzò il concetto per descrivere la distruzione di una nazione o di un gruppo etnico attraverso l’eliminazione della sua vita politica, sociale, culturale e religiosa. Il termine fu adottato come base della Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite nel 1948. Il documento finale fu modificato e diluito dai vincitori della Seconda guerra mondiale per proteggere le proprie storie e i propri interessi. In effetti, lo stesso Lemkin considerava il documento approvato un fallimento. Elaborato come risposta immediata alla persecuzione degli ebrei europei e alla Shoah, Lemkin non escluse esplicitamente altre atrocità storiche né esitò ad applicare il concetto retrospettivamente. Egli considerava il genocidio una costante della storia umana e, nel periodo moderno, profondamente legato al colonialismo e all’imperialismo. Se per gran parte del mondo la modernità occidentale ha significato semplicemente colonialismo, nel corso della sua storia ha anche rappresentato un incontro persistente con intenti genocidi. Il salto temporale tra lo slogan «L’unico indiano buono è quello morto», pronunciato dai cowboy in un saloon, e «L’unico arabo buono è quello morto», scritto oggi lungo la strada in Israele, tradisce una coerenza mortale. Ci troviamo quindi a convivere con il termine “genocidio”. Non, proprio come il colonialismo, semplicemente una cosa del passato, specifica di un tempo e di un luogo, o ristretto alla storia di un popolo. Indica strutture più profonde di potere, oppressione e brutalità che continuano a modellare le nostre vite. In questo caso, la semantica viene sottratta alla purezza teocratica e ideologica e ai guardiani di ogni singolo racconto del tempo. La lingua tradisce sempre un eccesso ineluttabile che rifiuta di essere intrappolato nei confini di un ordine imposto. Se alla fine è il linguaggio a rimanere, esso sostiene sempre un ritorno che interroga il presente proprio con ciò che cerca di negare.

16 maggio 2025

GUERRE ED EMIGRAZIONE SECONDO PAPA FRANCESCO

Sto leggendo l'autobiografia di Papa Francesco e fin dalle sue prime pagine si comprende che questo libro aiuta a comprendere il suo pensiero meglio delle sue Encicliche e dei suoi discorsi ex cathedra. Francesco è un uomo che ha vissuto e il suo pensiero è radicato nelle sue esperienze di vita. Ad esempio, l'esperienza dell'emigrazione dei suoi genitori e dei suoi avi l'hanno segnato profondamente. Anche per questo ha voluto iniziare il suo Pontificato nell'isola di Lampedusa, prima meta d'approdo di tanti disperati odierni: " simbolo delle contraddizioni e della tragedia delle migrazioni e il cimitero marino di troppe, tropppe morti" (p. 22). Francesco ricorda che i suoi genitori emigrarono dopo la prima guerra mondiale. Da questa "inutile strage" un suo nonno si salvò miracolosamente. E dai racconti di suo nonno ha cominciato a capire cosa è realmente una guerra: "Emigrazione e guerra sono due facce di una sola medaglia. [...] la più grande fabbrica di migranti è la guerra" (p. 24). Successivamente, attraverso la lettura di B. Brecht (ivi p.46) e di don Lorenzo Milani (p.33), ha scoperto il carattere classista di tutte le guerre. Anche per questo Francesco non si è mai limitato a fare generici discorsi per la pace ma ha sempre denunciato con forza "i pianificatori del terrore, gli organizzatori dello scontro, gli imprenditori delle armi" (p. 41). Anche per questo appare falso ed ipocrita l'omaggio che tutti i Governanti del mondo - oggi impegnati in una folle corsa al riarmo - hanno reso alla salma di Francesco. (fv)

ARMIAMOCI E PARTITE 2

Armiamoci e partite, se i fautori della guerra son tutti maschi e anziani Marco Aime, Domani, 16 maggio 2025 La distinzione antropologica sui punti di vista etico e emico può aiutare nella discussione sulla guerra in Ucraina, per contestualizzare il punto di vista dei “volonterosi” e quello degli ucraini. A proposito, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. L’altro punto di vista sarebbe quello dei giovani In antropologia, nello studiare gli aspetti culturali di una società, si utilizzano due punti di vista: etico ed emico. Sgombriamo subito il campo da equivoci: etico non ha nulla a che vedere con la morale, semplicemente rappresenta il punto di vista dell’osservatore esterno, mentre emico è quello del “nativo” interno alla comunità. Per fare un esempio, da un punto di vista etico si può spiegare il tabù della carne suina per ebrei e islamici in termini storici ed ecologici, ma se si chiede a un ebreo e a un islamico perché non mangiano maiale risponderanno perché c’è scritto sulla Bibbia o sul Corano. Proviamo ad applicare lo stesso metodo alla situazione attuale tra Russia e Ucraina. Premesso che l’invasione russa è un atto criminale, sebbene contestualizzata in una ragnatela di azioni precedenti e meno raccontate, e dichiarazioni di molti leader “volenterosi”, di voler continuare la guerra, si fondano su un’idea di giustizia, di onore, di pensiero di Stato, per cui far tacere le armi oggi, sarebbe disonorevole. Commenti Se guerra e pace rimangono un affare interno a sodalizi di maschi alfa gianfranco pellegrino filosofo Questa visione, che potremmo definire “etica”, è adottata, ovviamente dal governo ucraino, e da osservatori esterni, non direttamente coinvolti in senso fisico nel conflitto, che ragionano in termini politici ideali, piegando le loro motivazioni anche a ragioni di carattere geopolitico. Quello che manca in questa discussione è l’altro punto di vista, quello dei cittadini ucraini. Proviamo a metterci nei loro panni: dopo tre anni di bombardamenti, dopo centinaia di migliaia di morti, forse preferirebbero davvero finalmente la pace, anche a prezzo di pagare in termini territoriali. Proviamo a metterci nei loro panni: preferiremmo davvero continuare a subire bombardamenti in nome di una sacralità territoriale oppure la fine di tutto questo e il ritorno alla normalità, anche se c’è da pagare un prezzo. Ma il prezzo da pagare c’è comunque, c’è da scegliere tra la terra e la vita. Mi rendo conto, che questo ragionamento porterebbe a legittimare ogni invasione, ma ogni guerra deve prima o poi finire con una pace e la storia ci insegna che prima questa fine arriva, meno morti ci sono. Veniamo al mondo per vivere, non per combattere, anche se a volte è necessario, ma anche il greco narrato da Primo Levi ne La tregua dice: «Guerra è sempre», non è così. Italia L’infinito duello tra bellicisti e pacifisti. Perché a sinistra è così difficile discutere Gianni Cuperlo deputato Pd La comodità di un salotto La pace si fa con il nemico, per quanto odioso questo possa essere. La si fa per evitare la distruzione totale, il protrarsi in eterno della guerra. La pace è un compromesso, certo, come ogni atto politico. È troppo facile essere integerrimi sulle spalle degli altri, proclamare diritti assoluti, che peraltro sono stati spesso traditi dagli stessi che li evocano: ci dimentichiamo facilmente delle “nostre” invasioni, così come nascondiamo sotto il tappeto quella di Gaza, da parte di un Paese nostro amico. Chiediamoci, ma soprattutto chiediamo a chi la vive sulla propria pelle, se è meglio una pace “ingiusta” o una guerra “giusta”. Piccola parentesi, nei dibattiti televisivi i pacifisti sono spesso definiti “da salotto”, come se i sostenitori della guerra fossero tutti in prima linea con l’elmetto a combattere, eppure non risulta che ci sia un George Orwell che va volontario in Spagna a combattere contro i fascisti: «per comune decenza». Inoltre, a parlare di guerra sono in genere maschi di una certa età, che in guerra non ci andrebbero in alcun caso. A proposito di punto di vista emico, chiediamo ai giovani quanto sarebbero disposti a partire per il fronte, come accadde ai loro nonni nel 1940?

13 maggio 2025

SUCCESSO DI SIGFRIDO RANUCCI A MARINEO

IL MODELLO DI TRASMISSIONE TELEVISIVA - che è cosa assai diversa dalla COMUNICAZIONE! - CONTINUA AD AVERE LA MEGLIO SU TUTTO...CON BUONA PACE DI PASOLINI E DANILO DOLCI. (fv)

E' MORTO PEPE MUJICA

È morto Pepe Mujica, grande politico, grande uomo. Uno che ha sempre creduto che «la politica è la lotta per la felicità di tutti», e così l'ha praticata, per tutta la vita. José “Pepe” Mujica Cordano, ex presidente dell’Uruguay, è scomparso oggi all’età di 89 anni, lasciando un’impronta indelebile nella storia politica mondiale. Figura emblematica di coerenza, umanità e sobrietà, Mujica ha incarnato una leadership etica e autentica, opponendosi al capitalismo e al consumismo e promuovendo una vita semplice e significativa. Durante il suo mandato (2010–2015), ha guidato riforme progressiste come la legalizzazione del matrimonio egualitario, dell’aborto e della cannabis, diventando un simbolo globale di integrità e impegno sociale. È morto José "Pepe" Mujica, ex presidente dell'Uruguay e grande voce dell'America Latina L'ex guerrigliero era diventato uno dei leader più rispettati dell'America Latina. Membro del partito di sinistra Frente Amplio, ha guidato il paese dal 2010 al 2015. Proveniente da una famiglia di agricoltori e noto per la sua integrità, ha donato il 90% del suo stipendio presidenziale in beneficenza. Denis Merklen (sociologo, direttore dell'Istituto di Studi Latinoamericani Avanzati) L'ex presidente uruguaiano José "Pepe" Mujica, 89 anni, è morto martedì 13 maggio di cancro all'esofago, ha annunciato l'attuale presidente Yamando Orsi . L'ex guerrigliero era diventato uno dei leader più ascoltati, rispettati e popolari dell'America Latina. Le riforme da lui contribuì ad attuare in qualità di Presidente della Repubblica (2010-2015) segnarono l'ingresso dell'Uruguay nel XXI secolo. José Mujica Cordano nacque il 20 maggio 1935 in una zona semi-rurale a ovest di Montevideo. Figlio unico di una famiglia di contadini, aveva solo 8 anni quando morì il padre. Ha dedicato buona parte della sua infanzia e giovinezza al ciclismo e alla coltivazione di fiori nel piccolo appezzamento di terra che coltivava con la madre, fiori che vendeva nei mercati della capitale. Ma il giovane José continuò gli studi fino al conseguimento della laurea, per poi iscriversi a un corso preparatorio di giurisprudenza presso l'Instituto Alfredo Vázquez Acevedo, un liceo pubblico situato dietro l'Università della Repubblica, dove entrò in contatto con buona parte della giovane intellighenzia dell'Uruguay degli anni Cinquanta. Il Paese dispone già di un sistema di istruzione pubblica esemplare, che forma i migliori intellettuali del Paese, tra cui molti rifugiati spagnoli della guerra civile. Il giovane Mujica militò nell'ala più progressista del Partito Nazionale (centro-destra), che abbandonò nel 1962 per fondare l'Unione Popolare, in alleanza con il Partito Socialista. Un anno dopo, contribuì a fondare uno dei gruppi di guerriglia più famosi dell'America Latina, il Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros, di cui sarebbe diventato uno dei principali leader. L’urgenza della “rivoluzione” Con 2,7 milioni di abitanti, l'Uruguay rappresentò un'eccezione nella regione, grazie alle riforme del presidente José Batlle (1903-1907 e 1911-1915). La pena di morte fu abolita nel 1907, il divorzio legalizzato nel 1913, la Chiesa si separò dallo Stato nel 1917 e le donne hanno il diritto di voto dal 1927. Grazie al peso considerevole di un sistema salariale protettivo che copre più di tre quarti della sua popolazione attiva e a un tasso di urbanizzazione superiore all'80% dagli anni '30, l'Uruguay ha un modello sociale che ha portato il sociologo Alain Touraine ad affermare che questo Paese ha inventato la socialdemocrazia, ben prima dell'Austria o della Germania. Tuttavia, a partire dal 1950, la situazione economica dell'Uruguay si fece sempre più difficile. L'economia è stagnante, l'inflazione e la disoccupazione sono fuori controllo. I due partiti di governo (Nacional e Colorado) si stanno rivelando incapaci di dare una nuova direzione alla piccola repubblica. I giovani ritengono che il Paese non abbia futuro, sia dilaniato dalla corruzione e stia diventando insopportabile per povertà e disuguaglianza. Mujica e i suoi compagni giungono alla conclusione che la "Svizzera dell'America Latina" si sta dirigendo inevitabilmente verso una dittatura. Si organizzano per resistere all'autoritarismo e porre fine alle ingiustizie. Una recente esplorazione degli archivi diplomatici rivela che questa diagnosi è condivisa dai successivi ambasciatori francesi a Montevideo: vari settori dell'esercito hanno cospirato fin dal 1964 con il sostegno delle amministrazioni nordamericane. I giovani abbandonarono le strutture partigiane della sinistra socialista, comunista e cristiana e imbracciarono le armi: si chiamarono "Tupamaros", in riferimento ai gauchos ribelli dichiarati fuorilegge dall'amministrazione coloniale spagnola. Essi pongono con urgenza la necessità di una "rivoluzione". Fidel Castro e i suoi compagni cubani hanno dimostrato che la volontà politica può superare dittatori, imperi e inerzia conservatrice. Altri esempi sono il Vietnam e l'Algeria. Ma questa gioventù istruita dell'Uruguay, che si sente capace di prendere in mano il proprio destino, non seguirà nessuna ricetta, né quella dei foco , dei centri di guerriglia rurale di Che Guevara, né quella maoista dell'accerchiamento delle città da parte delle campagne: la lotta sarà urbana. Grazie alla loro creatività, i Tupamaros sono diventati un esempio per decine di gruppi armati nelle capitali di tutto il mondo, dalla Palestina alla California, passando per Italia, Francia e Germania. Nel 1971, 111 guerriglieri, tra cui Mujica, fuggirono attraverso un tunnel dal carcere maschile di Punta Carretas, dove erano detenuti. Poche settimane prima, decine di Tupamaras erano evase dal carcere femminile di Punta de Rieles. Nello stesso anno, i Tupamaros smascherarono l'agente della CIA Dan Mitrione, esperto in tecniche di tortura e controinsurrezione, e lo giustiziarono, ispirando il film Stato d'assedio (1973) , di Costa Gavras, con Yves Montand nel ruolo della spia. Rapiscono e poi rilasciano ministri, ambasciatori e diplomatici. In un celebre testo intitolato "Imparate da loro", lo scrittore Régis Debray scrisse nel 1971 : "È in corso (...) una lotta violenta che potrebbe arrivare a preoccupare le avanguardie rivoluzionarie di tutto il mondo. La potenza esplosiva della lotta dei Tupamaros contro l'oligarchia del loro paese si estende ben oltre i confini dell'Uruguay. Non per queste operazioni sensazionali – rapimenti, espropriazioni, attacchi militari, fughe di massa – che fanno (...) notizia sui giornali. Ma per una ragione al tempo stesso meno spettacolare e più decisiva: semplicemente perché [hanno] inaugurato con successo un nuovo modo di intraprendere la rivoluzione socialista." Il ritorno della socialdemocrazia La paura del contagio tra i giovani delle capitali occidentali era così forte che, venerdì 16 giugno 1972, il Consiglio della NATO si riunì a Bruxelles per studiare il caso dei Tupamaros con un'analisi commissionata a Geoffrey Jackson, ambasciatore britannico in Uruguay, che era stato tenuto prigioniero per otto mesi nella prigione del popolo. Alla fine del 1972 la guerriglia venne definitivamente sconfitta dall'esercito. I suoi leader e molti dei suoi dirigenti sono in prigione, gli altri sono andati in esilio. Nove leader, tra cui Mujica, furono dichiarati "ostaggi" dalla dittatura militare instaurata dopo il colpo di stato del giugno 1973 e tenuti in terribili condizioni di totale isolamento e tortura per quasi tredici anni, in prigioni spesso ricavate in fosse clandestine di caserme. Tutti i Tupamaros vennero rilasciati nel marzo 1985, in seguito al ritorno della democrazia, nell'ambito di un'amnistia generale per tutti i prigionieri politici. Quattro anni dopo, nel 1989, Mujica e i Tupamaros crearono il Movimento di Partecipazione Popolare (MPP), parte integrante dell'alleanza di sinistra Frente Amplio (Fronte Ampio). L'MPP detiene ancora il gruppo di legislatori più numeroso del Paese e dalle sue fila proviene il presidente eletto il 24 novembre 2024, Yamandu Orsi . Mujica si candidò per la prima volta nel 1995, venendo eletto membro del Parlamento. Nel 2000 è stato senatore, nel 2005 ministro dell'Agricoltura, nel 2010 presidente della Repubblica e di nuovo senatore nel 2015 e nel 2019. Durante i tre governi del Frente Amplio, tra il 2005 e il 2020, il piccolo paese del sud si è ricollegato al suo passato socialdemocratico o "battleista". Approfittando di una situazione favorevole per l'esportazione di prodotti agricoli, l'Uruguay sta riattivando la propria economia e rompendo la dipendenza energetica, investendo massicciamente nelle fonti rinnovabili, per arrivare oggi a produrre il 98% di energia elettrica priva di emissioni di carbonio. Il lavoro salariato sta tornando ad essere la norma grazie alla riduzione volontaria del lavoro nero e al ripristino dei "consigli congiunti" aboliti dalla dittatura. La povertà viene dimezzata e la povertà estrema ridotta all'1% della popolazione; il sistema sanitario viene riformato, offrendo un accesso abbastanza equo alla salute attraverso un mix tra pubblico e privato. Sotto la presidenza di Mujica, l'Uruguay ha legalizzato l'aborto (2012) e il matrimonio tra persone dello stesso sesso (2013) e ha regolamentato il consumo e la produzione di cannabis nel 2014. Nello stesso anno sono state approvate una legge che modernizza la procedura penale e una legge volta a limitare gli effetti monopolistici della concentrazione della stampa. "Il presidente più povero del mondo" Tuttavia, le conseguenze della crisi finanziaria internazionale del 2007-2008 si fanno ancora sentire. L'economia sta rallentando, l'inflazione sta aumentando e i posti di lavoro stanno diventando scarsi. L'invecchiamento dei leader politici della sinistra, tra cui Mujica, che aveva 84 anni al momento delle elezioni presidenziali del 2019, ha fatto il resto. Con uno scarto risicato di 30.000 voti, la sinistra perse le elezioni. Il vecchio leader viene criticato per le sue dichiarazioni improvvisate, che sembrano essere state pronunciate senza pensarci e che spesso offendono alcune fasce dell'elettorato. I governi del Frente Amplio vengono criticati principalmente per le loro carenze in termini di insicurezza. Resta il fatto che, ancor prima di diventare presidente della Repubblica, l'ex guerrigliero aveva acquisito un'immensa autorità all'interno della sinistra latinoamericana. Una reputazione che si basa sull'immagine dell'Uruguay come società democratica ed egualitaria, su quella del Frente Amplio, di cui si ammira la capacità di preservare l'unità della sinistra dal 1971, e infine su quella dei Tupamaros, questo gruppo guerrigliero che non è mai stato ossessionato dalla violenza ed è riuscito a evitare il radicalismo e il settarismo. La BBC e buona parte della stampa internazionale elogeranno l'integrità morale nell'esercizio del potere di colui che viene presentato come il "presidente più povero del mondo" . Un'etica che nasce da una vita condotta sempre con la stessa frugalità, guidando al fianco della sua compagna, Lucia Topolansky, al volante del suo Maggiolino Volkswagen sulle strade sterrate che dalla sua piccola fattoria, la " chacra", lo conducono al palazzo presidenziale. Dove, dopo una giornata di esercizio del potere, lo vediamo mentre si prende cura delle sue margherite, del suo cane a tre zampe Manuela e mentre riceve, sulle sedie di plastica del suo giardino, autorità, giornalisti e celebrità provenienti da tutto il mondo. Il 6 dicembre 2024, il presidente brasiliano Lula e il presidente colombiano Gustavo Petro si recarono lì insieme per consegnare a Mujica, già molto malato, il Cruzeiro do Sul e la Cruz de Boyaca, le massime onorificenze dei rispettivi Paesi. Durante tutto il suo mandato presidenziale, José Mujica ha donato il 90% del suo stipendio in beneficenza. Trasferimento del potere ai giovani Forte della sua immagine, Mujica tenne due discorsi che ebbero risonanza mondiale. L'uomo che non ha né un account Twitter, né un account Facebook, e nemmeno uno smartphone, è intervenuto nel 2012 al vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile a Rio de Janeiro, poi nel 2013 alla 68a assemblea delle Nazioni Unite a New York. E ogni volta suscita un vero e proprio scalpore sulle reti. Le sue numerose interviste e i suoi video sono stati visualizzati decine di milioni di volte ed è stato oggetto di innumerevoli articoli di stampa, numerosi reportage e documentari, tra cui El Pepe. Una vita suprema (2018) di Emir Kusturica e romanzi come Compañeros (2019) di Alvaro Brechner. Da Les Tupamaros. Guérilla urbaine en Uruguay, d’Alain Labrousse, en 1971 (Seuil).I ​​Tupamaros in poi gli sono stati dedicati decine di libri . Guerriglia urbana in Uruguay , di Alain Labrousse, nel 1971 (Seuil). Il vecchio attivista attribuisce poca importanza all'essere al potere, perché, per lui, "è solo una circostanza" ; Vuole lasciare "una barra" ("un gruppo") di giovani attivisti capaci di dare impulso a nuove energie di trasformazione sociale. Come se fosse un fedele discepolo di Hannah Arendt, Mujica associa la libertà alla politica e ripete ai giovani: "Non sei una formica o uno scarafaggio, perché hai una coscienza". Invece di seguire un destino naturale, una tradizione o condurre una vita senza senso, puoi fare qualcosa con il mondo in cui vivi. Prendi la vita nelle tue mani e costruisci un progetto collettivo. » Poi, come se seguisse i Manoscritti del 1844 del giovane Karl Marx, mette in guardia contro i pericoli dell'alienazione sociale. “Non sprecare il tuo tempo lavorando per guadagnare soldi, avrai solo sprecato la tua vita, il tempo della tua vita, la cui unica cosa importante è viverla con gli altri… Vivi come pensi o finirai per pensare come vivi!” E per contraddire chi lo definisce povero: «Io non sono povero, non mi sottometto all'obbligo di perdere tempo a guadagnare denaro. Mi tengo la libertà di stare con gli altri. » Nel 2020, Mujica ha lasciato il suo incarico di senatore e rinunciato a tutte le sue responsabilità per far spazio ai giovani. Nel suo ultimo libro di interviste con gli scrittori Carlos Martell e Mario Mazzeo, Semillas al viento ("Semi nel vento", Ediciones del Berretín, 2022, non tradotto), affermava: "A cosa serve un vecchio albero se non lascia passare la luce affinché nuovi semi possano crescere tra le sue foglie?". Quest'uomo comune e il suo gruppo di compagni potrebbero averci mostrato come evitare le trappole della storia. https://www.lemonde.fr/disparitions/article/2025/05/13/jose-pepe-mujica-ancien-president-de-l-uruguay-et-grande-voix-de-l-amerique-latine-est-mort_6605847_3382.html?lmd_medium=pushweb&lmd_campaign=pushweb&lmd_titre=jose_pepe_mujica_ancien_president_de_l_uruguay_et_grande_voix_de_l_amerique_latine_est_mort&lmd_ID=

12 maggio 2025

LEONE XIV NON E' FRANCESCO

Già, a prima vista, al di là delle parole pronunciate, si capisce che Leone XIV è un'altra cosa rispetto a Francesco. Ma attendiamo la sua "Rerum novarum" per capirlo meglio e per dire cosa ne pensiamo.

ATTUALITA' DI B. RUSSELL

01 maggio 2025

IL PRIMO MAGGIO DI UNA VOLTA

RICORDARE PIO LA TORRE

Ho appena letto il messaggio del Presidente della Repubblica Mattarella su Pio La Torre, è da brividi! Pio La Torre senza alcun dubbio bisogna ricordarlo per la legge che attaccava frontalmente la mafia, quella legge che per la prima volta introduceva il reato di associazione mafiosa e la confisca dei beni della mafia. La cosiddetta legge Rognoni-La Torre. Ma Pio La Torre fu anche quell'uomo che raccolse un milione di firme in Sicilia, su circa cinque milioni di abitanti e portò centomila persone da tutta Europa a Comiso per protestare contro l'istallazione dei missili nucleari della Nato. Questo, Mattarella, assieme ad altri "smemorati" non lo dicono però. Non lo ricordano. Si limitano solamente alle battaglie contro la mafia. Questo non è ricordare, è insabbiare. Questo non è rendere onore a un grande uomo politico. È retorica insopportabile! A proposito, Pio La Torre a seguito delle sue azioni contro la Nato fu accusato di essere un pacifinto e filo sovietico. Vi ricordano qualcosa queste etichette? Il tutto perché si opponeva all'escalation nucleare che esponeva l'Italia a bersaglio legittimo nel caso di guerra. Venne ucciso qualche settimana dopo, esattamente il 30 aprile del 1982. Dicono dalla mafia. Ma chi ha armato la mano della mafia, da sempre utili idioti di chi comanda veramente, dovrebbe essere chiaro a tutti. Ecco, volete ricordare Pio La Torre? Bene, ricordatelo per tutto. Altrimenti rimanete in silenzio. Ci fate più figura! T.me/GiuseppeSalamone PS: BISOGNA RICORDARE ANCHE CHE LE FIRME RACCOLTE NON ERANO SOLO CONTRO I MISSILI DELLA NATO MA ANCHE CONTRO QUELLI SOVIETICI (fv)

FORTINI E PASOLINI: ERETICI A CONFRONTO

Giovanni Tesio Pasolini e Fortini, la purezza militante di due amici-nemici La Stampa Tuttolibri, 26 aprile 2025 Due poeti, due critici, due militanti, due coscienze eretiche, due coraggiosi e più che incidentalmente emuli. Fortini e Pasolini, Pasolini e Fortini, due protagonisti della scena culturale del secondo Novecento. Due cercatori di verità. Due anticonformisti che hanno intrecciato i loro vicendevoli percorsi, non senza asprezze, non senza dissensi. Due cultori di una “purezza” militante che li ha visti combattere la buona battaglia dell’impegno letterario profondamente coinvolto nell’impegno civile e politico. Ma anche due negati all’umorismo, con poche e pur “straordinarie eccezioni”, come osserva Piergiorgio Bellocchio in Diario del Novecento, pubblicato dal Saggiatore a cura di Gianni D’Amo. A fare ora i conti con tutto un percorso di incontri-scontri sono i solidi atti di un convegno, ovviamente a più voci, che si è tenuto a Casarsa della Delizia nel novembre del 2023 e che vedono la luce da Marsilio: Nel segno della contraddizione. Pasolini e Fortini due poeti del Novecento a cura di Paolo Desogus. Come sempre accade in questi casi una semplice recensione giornalistica non può certo dare l’idea di una complessità che di voce in voce passa attraverso le pagine di questo volume corposo, che traccia - secondo linee d’indagine assai puntuali e incisive - i nessi di un’amicizia frontale. Un’amicizia che si dipana non soltanto nel “segno della contraddizione”, come recita il titolo del volume, e dei diciannove saggi di cui dà conto Desogus nella premessa, ma nel “segno di un contraddittorio” animato e anche animoso, capace di offrire uno dei rapporti più fecondi delle nostre patrie lettere. Dirà Fortini: «aveva torto, non avevo ragione» nel suo volume autobiografico Attraverso Pasolini, già pubblicato da Einaudi e poi ripreso da Quodlibet: felice e sottile epigrafe di un rapporto influente, vale a dire l’ammissione di un confronto in cui s’incide - con sintomatica litote - quello che in linguaggio sportivo si direbbe un risultato di parità; parità scaturita da una leale e a tratti arroventata contesa tra due compagni di strada che in certi passaggi non si sono risparmiati anche colpi contundenti. Una coppia ancipite: uno - Pasolini - assetato di passato; l’altro - Fortini - affamato di futuro. Il sogno edenico e l’utopia rivoluzionaria, due realtà smentite dalla storia, due intelligenze, una più lenticolare (Fortini), l’altra più sintetica (Pasolini), una più razionale, l’altra più nostalgica, più emotiva; una più revulsiva, l’altra più istintiva. Per Pasolini in principio è l’immagine, per Fortini l’azione. Pasolini è un mitologo, Fortini un ideologo. Simili e dissimili, Pasolini e Fortini si inseguono e si perseguitano, si cercano e si disattendono in una bellissima contesa. A fare corona ai saggi del volume sono i risultati di una tavola rotonda cui partecipano Massimo Raffaeli, Alessandro Gnocchi e Filippo La Porta, tre studiosi che contribuiscono ad affrontare i détours di un’amicizia perturbata. Ecco quindi la diversa visione nei confronti del dialetto, su cui Fortini lancia subito il suo allarme, osservando che il dialetto potrà originare una grande letteratura «a condizione di non essere più nostalgia né rifugio nello sforzo di crescere a lingua, la lingua della ragione e del romanzo e nel negarsi come dialetto, come verità particolare e sezionale». La collaborazione a “Officina”, la rivista di non lunga durata ma di notevole rilievo nel passaggio dei cruciali anni Cinquanta del Novecento (non a caso in Attraverso Pasolini Fortini su questa esperienza insiste parecchio). Il dissenso che porta a una rottura alla fine del maggio ’68 quando Pasolini pubblica sull’“Espresso” i suoi versi contro gli studenti, e poi via via tutto un intreccio che si coinvolge in una pur sempre vigilata adesione mostrata da Fortini per la poesia dell’amico, che giunge, come Raffaeli sottolinea, ad «altissima e persino drammatica considerazione». Non altro che piccoli spunti che è giocoforza estrapolare da un volume troppo ricco di spunti perché se ne possa fare un decente resoconto. Resta se mai da annotare che non sempre la spesso presuntuosa scienza accademica finisce nelle secche di una stima del tutto autoreferenziale, ma come a volte sappia aprirsi - come qui accade - a una più ampia leggibilità, a una più stimolante fruizione.

IL SEGRETO DEL BUON RIASSUNTO

Marco Belpoliti L'arte perduta del riassunto coltivata da Eco e Calvino la Repubblica, 1 maggio 2025 È di nuovo suonata l’ora del riassunto. Come una campanella scolastica le “Nuove indicazioni 2025” per la scuola dell’obbligo della commissione costituita dal ministro Valditara lo propongono quale «esempio di scrittura» per far superare l’ansia del foglio bianco: «Spostando il carico cognitivo sulla scrittura del testo già esistente». Peccato che gli esperti del ministero non abbiano potuto leggere il libro appena uscito presso le eleganti edizioni Henry Beyle Elogio del riassunto, a cura di Umberto Eco (con disegni di Tullio Pericoli). Si tratta della ripresa di un articolo del settimanale L’Espresso uscito nell’ottobre del 1982, in cui Eco proponeva un piccolo manuale per la realizzazione di un riassunto, a cui allegava dodici riassunti di libri famosi di 15 righe ciascuno, realizzati da scrittori, poeti e saggisti italiani dell’epoca, da Arbasino a Attilio Bertolucci, da Moravia a Cesare Garboli, da Giovanni Malerba a Piero Chiara. A quella pubblicazione era poi seguito un intervento di Italo Calvino sulle pagine di Repubblica, dal titolo Poche chiacchiere! (22 ottobre 1982). Nelle sue succinte istruzioni per l’uso Eco rimarcava come avesse lui stesso esercitato da neolaureato quest’arte, in Rai, in ambito accademico, come redattore della Rivista di estetica. La tesi del semiologo sembra smentire i consulenti ministeriali perché, dopo aver esordito che riassumere non significa solo selezionare fatti, Eco specifica che farlo significa già compiere un «atto critico». L’intervento di Calvino, dal canto suo, cercava di approfondire il metodo per riassumere e sulla base di questo formulava dei giudizi sugli esercizi dei colleghi, compreso il proprio (Robinson Crusoe). Da pedagogo, lo scrittore ligure si dichiara d’accordo sulla componente di giudizio critico, e aggiunge che ogni riassunto è costituito da enunciazioni, pensieri e possibilmente da parole contenute nell’opera di partenza, poiché l’aspetto formale non è meno importante delle trame raccontate. C’è però il rischio, ricorda, di produrre un commento. E tuttavia, senza scivolare in un elaborato piatto, insipido e falsamente oggettivo, esiste la possibilità di rendere creativo il riassunto. Nel valutare il lavoro dei colleghi-scrittori Calvino boccia Arbasino autore di un commento-divagazione, Moravia per aver scritto un microsaggio, e Malerba per aver abbozzato un “libro parallelo” alla Manganelli. Elogia invece Garboli alla prova con I miserabili, il più bravo di tutti, seppur caduto su un anacronistico «sadomasochista». Anche Chiara è bravo, ma non fa sentire la voce di Manzoni. Il segreto del buon riassunto, secondo Calvino, consiste nel raccogliere qualche dettaglio per «rappresentare la sostanza espressiva del libro» senza mai usare le «facilità del lessico intellettuale». Il segreto di Pulcinella di questa tecnica di scrittura, conclude, sta nell’«osservare i testi dal di dentro prima di definirli dal di fuori». Trent’anni dopo quel dibattito un linguista, Ugo Cardinale, ha pubblicato un breve ma acuto libretto: L’arte di riassumere (il Mulino), ancora in catalogo in forma rinnovata. Il linguista spiega che riassumere in prima battuta significa «assumere di nuovo» ed è comunque un’interpretazione, ovvero un atto creativo. Insomma è un’arte e come ogni arte s’apprende, almeno fino a un certo livello, il che significa che può essere insegnata. Un docente liceale novecentesco, Ernesto Bignami (1903-1958), ci costruì sopra una piccola fortuna economica e il suo cognome è diventato una formula, oltre che un quasi sostantivo. Cardinale poi distingue il riassunto dalla parafrasi applicata alla lettura critica della poesia, che produce ampliamento e ridondanza, là dove invece il riassunto tende alla concisione. Entrambi vogliono comprendere il testo in modo profondo, ma con esiti opposti. Oggi il web è pieno di riassunti, di siti e persone che li offrono a piene mani. Di sicuro questa tecnica mette in stretto rapporto la lettura con la scrittura, impone l’uso della «memoria episodica» e il «controllo della macrostruttura semantica del testo» (Cardinale). Poco meno di un anno fa il critico letterario Filippo La Porta ha pubblicato un agile volume intitolato L’arte del riassunto. Come liberarsi del superfluo (Treccani). La parola d’ordine che usa è: sfrondare. Naturalmente nelle sue pagine compare ChatGpt. Con l’intelligenza artificiale a portata di mano anche gli studenti aggiornano l’arte del riassunto e insieme a quella dello studio. In ogni scuola di ordine e grado, dalle medie inferiori all’università, la scrittura è sempre più affidata a questo mezzo. Pure La Porta è del partito della “comprensione”, per quanto a differenza di Cardinale non si soffermi sulla rilevanza etica del riassunto: «Educazione al rispetto del pensiero altrui». Riassumendo. Come sempre nel linguaggio e nell’espressività umana (e non solo) quella che sembra la cosa più facile è anche la più difficile. Sfoltire, spuntare, diradare, eliminare il superfluo è decisivo, eppure non basta. Nel mondo attuale, sempre più complesso e articolato, e insieme polverizzato, riassumere somiglia a un esercizio di yoga: con determinazione e costanza prima o poi anche le posizioni più difficili sembreranno possibili e persino agevoli.

30 aprile 2025

LA LEZIONE DI HIROSHIMA SECONDO DANILO DOLCI

Nel dicembre del 1975 il Presidente e il vicepresidente del "Peace Memorial Museum" di Hiroshima, invitati da Danilo Dolci, mostrarono ai bambini del Centro Educativo di Mirto (Partinico) alcuni reperti dell'esplosione atomica del 6 agosto 1945 che, per la prima volta, distrusse una intera città: "Abbiamo portato in dono le prove di un crimine che tutti hanno voluto cancellare". Il giornale L' ORA di Palermo il 18 dicembre 1975 dedicò la prima pagina all'iniziativa di Danilo e Alberto Spampinato, nelle pagine interne, scrisse un bellissimo articolo. In quel periodo lavoravo a tempo pieno nel Centro Studi e Iniziative di Danilo e toccò proprio a me preparare il comunicato stampa che illustrava l'evento che prevedeva, tra l'altro, nel pomeriggio - nella sala consiliare del Comune di Partinico - una conferenza di Danilo sul tema "La lezione di Hiroshima e l'educazione alla nonviolenza nelle scuole" e la partecipazione di Ignazio Buttitta. Danilo Dolci, con Aldo Capitini e Bertrand Russell, sono stati forse gli uomini più impegnati del 900 a promuovere il valore della nonviolenza e della Pace nel mondo. (fv)

28 aprile 2025

DALLA PSICOANALISI ALLA LETTERATURA: OLGA TOKARCZUK

i Pietro Pascarelli [Questo articolo è stato originariamente pubblicato nel 2019 su «European Journal of Psychoanalysis», dove si trova oggi solo la versione inglese: Pascarelli, P. (2020). From Psychoanalysis to Literature: Olga Tokarczuk. European Journal of Psychoanalysis, Vol. 7, No. 1]. «Al subcosciente piace fare scherzi». Con queste parole, nel romanzo Casa di Giorno, Casa di Notte, un personaggio dal nome solenne di Ergo Sum commenta i suoi dubbi su una frase di Platone nell’ottavo libro della Repubblica: «Colui che ha gustato visceri umani, si trasforma inevitabilmente in lupo». Una frase cruciale per la sua esistenza alla quale non aveva mai fatto caso, di cui cerca febbrilmente conferma in diverse edizioni dei testi del filosofo. Ci si può domandare se nell’opera di Olga Tokarczuk vi sia traccia dei suoi studi e della sua precedente professione di psicoanalista, se cioè psicologia e psicoanalisi abbiano contribuito alla sua realizzazione letteraria. La domanda in qualche modo inverte i termini di una proposizione da sempre nota agli psicoanalisti a partire da Freud e Jung: gli scrittori, gli artisti, sanno scrutare i segreti del mondo meglio di tutti, e sulla mente ne sanno più degli psicoanalisti. A Freud piaceva ricordare spesso una frase tratta dall’Amleto di Shakespeare che esprime per converso tutti i suoi dubbi sulle possibilità della sola scienza: «There are more things in heaven and earth, Horatio, than are dreamt of in your philosophy» («Ci sono più cose fra cielo e terra, Orazio, di quante possa sognarne la tua filosofia)». La forza dell’inconscio, accettato come finestra sapienziale sulla vita, e l’intelligenza poetica; il pensiero creativo e la psicoanalisi come sguardo antropologico rivolto ai mondi culturali e alla nostra quotidianità sullo sfondo del cosmo, dell’intimità del sé e del tempo immemoriale, percorrono in tutte le direzioni possibili l’opera di Olga Tokarczuk. Ho preso in esame, per cercare di dare una risposta, vari scritti e dichiarazioni, racconti e romanzi. Fra essi soprattutto l’impervio e misterioso Casa di giorno, Casa di notte, che considero campione per eccellenza di per sé sufficiente ai fini della mia riflessione. Esso mostra una mescolanza di arcano e solare, mistero e conoscenza, incantesimo e spiritualità che lo pervade e prescinde da ogni logica ordinaria. Possiamo vederlo svilupparsi per frammenti, o scorgere nessi in ciò che appariva sola contiguità, o scoprire che bisogna procedere con la lettura e poi riguardare indietro per cogliere una qualche connessione, un filo che lega i fatti. Altre volte i temi riaffiorano in modo carsico, ma sono strutture portanti dell’opera, come la storia edificante della santa Kummernis, al secolo Wilga, da Schonau, colei che costrinse il diavolo a confessarsi fra le sue braccia.La giovane si era dovuta rifugiare in un convento per sfuggire a un matrimonio combinato dal barone suo padre. Nelle icone sacre sarà ritratta a seni nudi e dotata di barba, perché in realtà Gesù Cristo le ha fatto dono della propria testa per riscattare il suo corpo dalla condizione terrena e dalla soggezione al padre. Questi, di fronte a tale trasformazione, vista sfumare ogni possibilità di ridurre la giovane, che era stata di bellezza senza uguali, al suo volere, accecato dalla rabbia finirà per pugnalarla a morte e crocifiggerla alle travi della prigione in cui l’aveva murata. Il fatto dell’immagine crocifissa della santa coi seni nudi e il volto ornato di barba, insieme a sue inaudite proposizioni mistiche, e dialoghi estasiati col Signore, solleverà non poche questioni nella Chiesa. La storia mi pare in realtà eversiva perché pone al centro la questione di una mancata neutralizzazione del potere tellurico di un femminile che rifiuta di farsi rimuovere dalla storia e dalla religiosità, e di farsi ridurre a mera naturalità erotica e procreativa irrelata. Grattando la patina scontata dell’apparenza, il viso perduto di Kummernis, esito di un’operazione che impedisce per un verso di ridurla al rango della femmina sapiente, pensante e ribelle − la strega di Jules Michelet − è per l’altro verso metafora della potenza creatrice senza nome dell’inconscio, della sua capacità di cambiare il mondo articolandosi con esso, addirittura rifondandolo, in modo immediato e libero, e trovando facilmente alleati. Cosa che il potere vigente, simbolizzato dal padre, non può assolutamente accettare. Si potrebbe perfino dire che Kummernis rappresenta il perturbante, e alla fine la stessa psicoanalisi, e la sua funzione etica e sociale. Il suo biografo è un monaco giovanissimo e di umili origini di nome Paschalis, il cui massimo desiderio è quello di diventare donna. Paschalis, investito dalla badessa di tale ruolo agiografico, è ospitato in una dépendence di un convento di monache benedettine immerso nei boschi dei Sudeti, oltre il muro del quale ode lo scalpiccio e altri rumori segreti della vita delle suore. Oppresso dalla solitudine della sua cella e inebetito dal demone di mezzogiorno, dunque dal contatto con la propria intimità soggettiva e l’inconscio, il ragazzo confessa un giorno alla badessa che vorrebbe essere riconosciuto dal Papa come donna per stare in mezzo alle monache ed essere ammesso alla loro mensa da pari. Ma la badessa gli rivela che lo scopo ultimo delle sue scritture e della sua permanenza in quel luogo è solo quello di perorare a Roma, con le sue scritture, la canonizzazione come santa di Kummernis, già beata o comunque venerata. Paschalis viaggerà successivamente fino alla città di Glatz, sede vescovile, per esporre all’autorità ecclesiastica il suo racconto, scritto con gran tormento di anima e corpo, e farlo arrivare al Papa. La storia della santa ha il valore simbolico di una rivoluzione. Non sembra esservi una ragione delle sue riemersioni periodiche nel romanzo invece di una trattazione unitaria, non si vede una spiegazione di questo suo modo di apparire, che sia diversa da una reiterazione rituale, sottesa a una sconosciuta sequenza di azioni psichiche fra loro collegate, e all’emergere di altri elementi della narrazione, quasi a rischiararli, a inondare il mondo della luce di una ribellione che è ammantata prudentemente di santità ma è in realtà istanza di liberazione e gesto creativo dirompente. Alla fine si ha un’idea meno inquietante del modo di procedere del pensiero che annoda le cose importanti, ma si resta secondo me, con questa scrittura che qualcuno definisce “a mosaico”, in presenza di qualcosa che vuol proprio rappresentare l’impossibilità di un compimento e di una soluzione di conciliazione armoniosa, di qualcosa che è metafora del disordine e della complessità del mondo, di segrete interconnessioni. Il senso delle cose va cercato andando avanti e indietro nel ripercorrerle, e aspettandolo poi pazientemente, come nella sua scrittura pensosa ed esitante fa Paschalis, interrogandosi sulle parole per scrivere la vita di Kummernis. La prospettiva di Tokarczuk è onirica: Nella mia scrittura la vita si trasformava in storie incomplete, in narrazioni simili a sogni, si mostrava in lontananza in strani panorami delocalizzati, o in sezioni trasversali − e perciò era quasi impossibile raggiungere una qualunque conclusione rispetto al tutto”. [Dal racconto “Your head in the world”, tratto da Flights, tr. it. I vagabondi, di Olga Tokarczuk). La voce di Olga Tokarczuk, se immaginiamo di udirla risuonare nell’aria in un momento magico di corrispondenza vocale con la scrittura, è fin dall’inizio inconfondibile in ogni sua pagina, anche in un sussurro è sempre lei. Ha precise tonalità, si contorna di una materia luminosa che non si scolla e la mantiene nitida. Produce un senso di raccoglimento imparziale e di sintonia col mondo fantastico in cui attrae. Ci si chiede cosa ne determini il timbro così particolare che lega felicemente le immagini acustiche, cioè le parole. A pensarci, potrebbero essere date tante spiegazioni diverse, ma a me sembra che sia priva di eco, o meglio come se avesse riassorbito in statu nascendi ogni possibile eco. Non incontra il mondo, ma lo crea come soffio vitale. Non le devono ritornare segnali sonori d’esistenza, essa c’è in tutte le cose, dorme fiabescamente da sempre nelle stesse pagine dei suoi libri, in tutti i mondi che crea o forse risveglia con le sue parole, con la sua lingua polacca così speciale, e come lei dice marginale, parlata da una minoranza di persone al mondo, plastica e accogliente rispetto alle lingue straniere. Una lingua – peccato poterne leggere solo le traduzioni – pronta a coniare termini nuovi, e incline ai diminuitivi, che rende il mondo più caldo e rassicurante, più familiare. Nei bar della Polonia si beve il lattuccio (mleczko), e sul tram vi possono festosamente chiedere di mostrare il vostro bigliettuccio (“Bileciki do kontroli!”). Si tratta di una soavità che non ha niente di lezioso, è una Weltanschauung, che per giunta, attraverso il dono di un qualcosa che ha del confortevole, nutre soavemente il narcisismo secondario di ciascuno. La sua lingua è anche paradossalmente un ascolto in forma di parola, e scintilla di forza poetica, vita. Una lingua, come ancora la stessa Tokarczuk afferma, è tutto per uno scrittore, ma sbaglierebbe chi la intendesse come un brodo primordiale in cui ogni cosa prende forma. Ci si trova in realtà, ella dice, scaraventati nella lingua come qualcosa che preesiste a noi. A essa ci adattiamo, vi troviamo uno spazio grazie al quale accediamo a noi stessi, e al nostro mondo. «Potremmo dire che la nostra lingua è il nostro destino letterario. È anche ovvio che nella nostra lingua possiamo essere noi stessi solo fino a un certo punto (ed essere se stessi sembra un imperativo fondamentale della nostra cultura), poiché siamo tutti soggetti anche a qualcosa di più grande e più forte di noi, che non controlliamo». Così la scrittrice scriveva nel 2011 sulla rivista online «Eurozine», in un testo dal titolo Un dito che indica la luna ripreso poi dalla rivista «Internazionale» nel numero 1072 del 10 ottobre 2014, da cui derivano anche le informazioni sulla lingua polacca sopra riferite. Vi è qui, parlando di lingua, una prima allusione alla psicoanalisi, a Freud e Lacan, percepibile però solo da addetti ai lavori, e lei lo è stata per quel che si sa, avendo ricevuto una formazione psicologica e psicoanalitica, che portò a una sua predilezione per Jung. Sul Guardian del 24 agosto 2018 Tokarczuk faceva invece un riferimento esplicito alla psicoanalisi, e direttamente a Freud, e al suo testo Al di là del principio del piacere: Ho letto per la prima volta Al di là del principio del piacere di Sigmund Freud da ragazza, e quest’opera mi ha aiutato a capire che c’erano migliaia di modi possibili per interpretare la nostra esperienza, che ogni cosa aveva un significato, e che l’interpretazione è la chiave della realtà. Fu questo il primo passo per diventare una scrittrice. (Mia traduzione dall’inglese.) I riferimenti sono precisi, e possono sembrare schematici. Tutti però possono percepire l’apertura sconfinata del discorso su scenari impensati, quelli disegnati dalla continua e traumatica spinta pulsionale (sotto le apparenze, nei personaggi delle sue narrazioni, di insoddisfazione, spirito d’avventura, bizzarrie di abitudini e condotta, fedeltà senza limiti a un ideale che chiama ad andare lontano, oltre se stessi perfino). Tale spinta scompiglia ogni certezza confrontando il mondo razionale degli umani con il mondo naturale e forze arcaiche e non umane, col tempo. Essa è percepibile, entro la prospettiva psicoanalitica, nel sogno e nel trauma del reale che si presentano imprevedibilmente, nell’estenuazione della ricerca di un assoluto originario, nella speranza di ritrovare la percezione di una perduta felicità in verità mai avuta e irraggiungibile: siamo nel campo, si potrebbe dire, di ciò che Freud chiama das Ding, e Jacques Lacan la Chose: la Cosa. Nella malinconia sognante di tante pagine di Tokarczuk c’è l’abbandono a questa nostalgia tutta umana che rimane misteriosa, la percezione di una mancanza che spinge a cercare sempre, attraverso l’azione dei personaggi della fiction letteraria, di colmarla. Si spiegano così attese instancabili e senza tempo sorrette dal desiderio dell’amore. Vi sono etnie e generazioni che non sanno di cercarlo, come i Bieguni [1] vagabondi del romanzo omonimo sempre erranti, o come i bizzarri e impensabili von Goetzen di Casa di giorno, Casa di notte che spendono la vita nel ritiro narcisistico in privatissime dimore chiuse al mondo, assorti in attività stravaganti ed egocentriche, nell’abbandono quasi a stati di pre-estasi che coincidono con la mancanza di maggiori definizioni, partecipazioni, coinvolgimenti nella vita del mondo. E che anche nella morte sono singolari: [… ] la morte dei von Goetzen era sempre bella e dolce. Li raggiungeva come una nebbia, come un’improvvisa interruzione nel rifornimento di corrente: i loro occhi si spegnevano, il loro respiro rallentava e infine cessava. Chi stava accanto al loro letto di morte non doveva fare altro che abbassargli le palpebre e andarsene per i fatti propri. Immergersi nell’aria riscaldata delle verande e delle serre, nel fresco dei corridoi del pianterreno, nel fruscio dei fogli dei libri illustrati di giardinaggio e di arte […]. Di colui che se n’era andato rimanevano fotografie, aiuole fiorite, diari uguali agli altri, un armadio pieno di vestiti sciupati, qualche briciola nel letto, ma la sua stanza veniva subito occupata da qualcun altro. Perciò era come se non morissero mai. Inoltre, in conseguenza dei matrimoni in famiglia, si assomigliavano tutti, perciò non si sentiva la mancanza di una persona in particolare. E vi sono invece cuori sensibilissimi avvezzi all’amore e che lo cercano con decisione senza perderne le tracce pur nella mancanza, che si dispongono a qualunque viaggio interiore o nel tumulto e nell’ignoto della realtà ordinaria pur di incontrarlo in un altro essere ancora sconosciuto. Perfino gli esseri del mondo vegetale, oltre che dell’animale, vogliono incontrarci e parlarci in uno spirito in un certo senso amoroso. Quel qualcosa che non controlliamo è poi anche un cosmo totale che abbraccia l’umano e il non umano, è brivido, estasi, orrore. È il sistema linguistico, l’universo simbolico che ci attende e che troviamo venendo al mondo, ed è anche qualcosa che c’è in noi e torna, ciò che è stato rimosso nell’inconscio. Di ciò una parte non si potrà mai conoscere in alcun modo perché soggetta alla rimozione originaria. Ma c’è pure, e ciò corrisponde per un’altra parte all’apertura sulla scena inedita di cui dicevo, ciò che del passato non è stato oltrepassato. Il ritorno del rimosso e del passato non superato, quindi superstizioni, demoni, mostri, angosce primordiali, sono la fonte dei sentimenti unheimlich, descritti da Freud nel suo famoso saggio del 1919 Das Unheimliche (Il perturbante), e che irrompono nelle arti e nella letteratura, mostrando che nulla si può dare per scontato, che ciò che abbiamo sempre considerato fidato e familiare è solo consueto e casualmente tranquillo, ma può di colpo trasformarsi in qualcosa di inaspettato e animato di minaccia e pericolo, o che sovverte l’ordine delle cose, facendo, per così dire, vacillare i pilastri del tempio. Anche nelle pagine di Olga Tokarczuk compaiono animali dal comportamento strano, lupi mannari, il diavolo, entità misteriose e invisibili, personaggi inquietanti. Ma se essi sono spettrali e sinistri non è solo per effetto di questa loro origine e per la patina weird che si portano addosso come innato tratto distintivo, ma anche perché la realtà, pur col mutare delle culture, continua a riservare loro un posto siffatto. Si tratta di un’ambiguità irriducibile che la psicoanalisi ci indica e che la sua arte ci mostra in filigrana. C’è una linea sottile e talora evanescente fra la vita e un mondo sotterraneo che trova in superficie espressioni inapparenti ma che possono ben rivelarsi. Isaac Basevic Singer, il grande narratore polacco che si spegne nel 1991, quasi passando il testimone all’esordiente Tokarczuk che inizia la carriera nel 1989 con un libro di poesie intitolato Miasto w lustrach (La città negli specchi), ricorda che il padre parlava sempre di spiriti dei defunti che possedevano i viventi, di reincarnazioni e prodigi, di sinistre presenze, e che lo faceva come monito per i bambini così curiosi e imprudenti, che tutto vogliono scoprire e vedere, per «ricordar loro, di tanto in tanto, che al mondo ci sono ancora forze misteriose all’opera». Se Olga Tokarczuk scrive di creature infernali e sortilegi, non è per un artificio tecnico o per un deflusso quasi meccanico dei contenuti della fantasia etnica, ma perché il suo sguardo/ascolto pesca nel microcosmo dell’origine che si porta dentro, nelle voci di un mondo in contatto permanente con lei, che segue con l’attenzione fluttuante di una psicoanalista abituata ad accettare il reale, anche ciò che non ha un senso, prestando orecchio (naturalmente il terzo, su cui ha scritto Theodor Reik) a quel che esse dicono per dare loro ancora una chance, nel senso e anche al di fuori di esso, una possibilità di rivivere trasfigurate nella sua scrittura. Parlo di fantasia etnica perché in qualche modo Olga Tokarczuk crea letterariamente un mondo, ma per farlo pesca nel sottosuolo della sua cultura popolare, cui dà voce e forma artistica, coi suoi miti e la sua storia, fatta per lo più di scorrerie violente in una terra contesa fra occidente (Roma e il Cristianesimo la marcano con la religiosità e l’alfabeto latino, la Germania la invade) e oriente (la Russia, il mondo slavo). L’ethnos e i miti, la fiaba sullo sfondo di geografia e storia politica e quotidiana dei luoghi, pur nella loro particolarità, la ricollegano alla storia e all’ethos universale dell’umanità. E il perturbante che troviamo nelle sue pagine non è solo il passato che torna o il rimosso che irrompe, ma anche una scossa al torpore dei luoghi comuni e a un sentire irrigidito dalla paura, dalla routine e dall’egoismo, un’intelligenza nuova delle cose. Esso assume la forma di una chiamata alla contemplazione del nuovo e del nulla, di un risveglio, di un momento di comparsa e di libera circolazione dell’energia nei mondi psichici e naturali. Oppure di manifestazione di eventi che mettono in crisi la presenza umana sulla terra, che rinnovano la sfida al soggetto a mantenere la sua coesione trovando nuovi equilibri, accettando nuovi confini di sé. Quel che è vicino alla psicoanalisi forse non è soltanto Olga Tokarczuk, col suo sguardo e il suo narrare, ma il substrato umano, tellurico e astrale, sedimentato durante stagioni incalcolabili, della sua fantasia. Esso è il terreno stesso e l’oggetto dell’osservazione antropologica e psicoanalitica: un mondo fisico e politico, religioso, simbolico, che assume per i suoi abitanti e poi per tutti i lettori una centralità assoluta, e rivive nella dimensione mitologica e mitopoietica che alimenta. Voce che anima le pagine della scrittrice, ma come espressione scritta emergente di un racconto orale collettivo o di una sua memoria. In questo condiviso afflato non vedo emergere archetipi, nonostante la vicinanza a Jung attribuita alla scrittrice o dichiarata da lei stessa, ma una rielaborazione letteraria originale che può sempre essere riletta come nuova. In essa sono piuttosto storie minute e quotidiane, o l’araldica immaginaria di generazioni di personaggi che abitano senza un tempo che non sia mitico i luoghi del sogno, l’epopea di una città e di una nazione intera, o più spesso di uomini e donne semplici, senza alcuna pretesa, che pure assurgono per via letteraria alla dimensione dell’universalità. Entro l’orizzonte visibile di questa scena sono nevi, boschi, distese d’erba o vie infangate, orti gelati, montagne, case abitate dalla miseria e dall’abbandono, ricche case borghesi come piccole regge con ogni dovizia di beni e arredi à la page, territori e linee di confine in cui l’unica consolazione è la vodka o il vino di bacche, fino a che non arriva la morte. O viceversa cucine calde, terrazze estive assolate, fiori e insetti. In questo mondo sono figure femminili dolci e sognanti, sempre misteriose ed estranee a se stesse. Come se nella narrazione apprendessero per la prima volta i segreti che hanno scoperto attraversando imperterrite gli anni e la storia, carestie e guerre, avvinghiate come forti arbusti alla vita senza timore nella vicinanza della morte, custodi di case, abitudini, pentole e mobili, parrucche, ricordi, sogni, avventure giovanili, pleniluni estivi e canti di rane. Custodi e interpreti anche di una memoria diffusa negli oggetti e negli interstizi, nelle tane e nei dirupi, nell’esistenza delle persone e di ogni altro essere animato e cosa inanimata. Vi sono sogni densi di significato e intenzioni di cui si può cercare e junghianamente decifrare un significato secondo leggi generali di interpretazione non troppo dissimili dalla divinazione, e anche perché per Tokarczuk, che in ciò riecheggia il Foucault di Le parole e le cose, Iddio ha creato il mondo disseminandovi segnali che ci possono guidare. E le stelle ci guardano dal cielo, sapendo di noi molto di più di ciò che possiamo immaginare, anch’esse per indicarci una strada (“considerare”, etimologicamente, è un po’ un parlare con le stelle). E vi sono uomini condannati a esistenze impossibili, come il sig. Sum, battezzato col nome di Ergo per un capriccio del padre, che si ritrova, a un certo punto della sua vita, cannibale per inedia straziante assediato da lupi (lupi e psicoanalisi vanno a braccetto dopo il saggio L’uomo dei lupi di Freud) altrettanto famelici insieme ai compagni di sventura in un inferno di ghiaccio e desolazione, e poi egli stesso lupo, lupo mannaro, figlio della luna, un sopravvissuto costretto da angoscia abissale, per respingere le orrende metamorfosi e il loro ricordo e terrore, ad abbandonare il rango sociale di signor professore e gli studi filosofici per annichilirsi in una vita bestiale, diremmo postumana, da bovaro e uomo di fatica. Da Platone, che durante una delle sue solite letture gli aveva poi un giorno rivelato che chi si è cibato di carne umana diverrà lupo, fino a noi, a Nietzsche, al libro rosso di Jung, al Perturbante di Freud e al reale di Lacan, a Guernica di Picasso e allo Studio dal ritratto di Innocenzo X di Francis Bacon, rimbalza lungo la spirale del pensiero e dell’arte la domanda cosa sia l’umano, cosa sia il vero e il falso, cosa sia fantasia o realtà, cosa sia libertà, vita o morte, cosa sia abisso o mondo. Tokarczuk intercetta i mondi che parlano riplasmandoli nella sua fantasia vulcanica e nella sua lingua poetica. Con quella femminilità materica dei suoi personaggi, insieme dolce e cruda, di corpi dal sapore pungente e soave tuttavia, che ricordano le fulminanti descrizioni di donne di un poeta delle lontananze e dello splendore dell’essere come Saint-John Perse. E con una sensibilità psicoanaliticamente raffinata pronta a cogliere la funzione psichica di ogni dettaglio, a cogliere l’eternità di ogni istante, in una narrazione che ha così sempre più punti in comune col particolarissimo modo di essere di spazio e tempo nella psicoanalisi, lungo il confine fra il cosiddetto setting e tutto il resto. Modo che è specchio di inafferrabilità e insensatezza anche nel quotidiano, di quanto di queste dimensioni ci sfugge e che esse invece rivelano se cade la rete familiarizzante ingannevole distesa su di loro dal lavoro della cultura, che era stata stesa per spegnere ogni inquietudine. È allo sguardo che stacca le cose dal mondo degli oggetti e le vede come segno entro una visione straordinaria del tutto che deborda da ogni dove, che va assegnata la massima importanza, sottolinea in un’intervista la scrittrice: Ci sono due modi di guardare. Con uno vedi semplicemente gli oggetti, cose utili all’uomo, oneste e concrete, si sa subito come si usano, a cosa servono. E poi c’è una visione panoramica, più generale, grazie alla quale si vedono i legami tra gli oggetti, le loro reti di rimbalzo. Le cose smettono di essere cose, il fatto che vengono usate è una questione di secondo piano, è solo apparenza. Ora sono segni, indicano qualcosa che nelle fotografie non c’è, che sta oltre i bordi delle immagini. Bisogna concentrarsi per poter mantenere quello sguardo che è essenzialmente un dono, una vera e propria grazia. Sono mondi paralleli o su piani diversi rispetto alla realtà ordinaria e al mondo umano, delle cui voci Olga Tokarczuk si pone in ascolto.«In letteratura è vero tutto ciò che sarebbe potuto succedere», questa è la sua idea. E perciò anche interroga, cercandovi, e torniamo alla percezione psicoanalitica per la costruzione della sua impresa letteraria, da un lato le piccole cose e i minimi dettagli, un odore o il volteggio di una foglia per aria, dall’altro quel che non c’è o non si vede, ma è atteso o immaginato in una logica differente da quella corrente, ispirata, si direbbe, al chimico Mendelejev oltre che a Freud. Ecco come affrontava il suo compito agiografico Paschalis: Gli sembrava che fosse importante non solo registrare cos’era successo [ ]. Che altrettanto importante, e forse anche di più, fosse lasciare luoghi e spazi per ciò che non c’era stato, che non era mai accaduto e che sarebbe potuto accadere — bastava immaginarlo. […] Perciò avrebbe voluto perfino lasciare degli spazi vuoti sulla carta [… ]. Lui voleva lasciare uno spazio vuoto al di là degli eventi descritti della vita di Kummernis — vaste distese di possibilità di ogni tipo, le conseguenze delle azioni che si sviluppavano sullo sfondo dell’intera scena. Ma Paschalis/Tokarczuk fa ancora di più. Si interroga esplicitamente secondo linee di riflessione che mi appaiono palesemente psicoanalitiche. Senza con ciò poter dire tuttavia una parola indubbia su chi, fra Tokarczuk con la sua arte e la psicoanalisi, sia debitrice dell’altra, cioè se sia l’arte ad arricchire e illuminare la psicoanalisi, o invece sia piuttosto quest’ultima a permetterci di comprendere l’arte. Gli capitava sempre più spesso, finendo di scrivere una frase di Kummernis, di comprenderne il senso più recondito in un’improvvisa illuminazione. Lo turbava profondamente e insieme lo stupiva che si potesse leggere e interpretare in tanti modi le stesse parole.O che si potesse afferrare il senso di una frase senza sperimentarlo in prima persona. Che si potesse sapere ciò che era scritto, ma senza capirlo. In questa logica sono previsti, sebbene non tutti lo sappiano, nuovi arrivi sulla scena, che siano persone o eserciti, api o cannoni, o mobili e suppellettili, tesori restituiti dall’interno di case svuotate dalla guerra: foto e quadretti kitsch, tazze da tè, ninnoli vari, biancheria da letto, lettere, tavoli e credenze, vasetti di marmellata, di passati, di sidro, biglietti della lavanderia o denti di latte, sentimenti e passioni. Relitti di naufragi e forze tempestose che non hanno dato scampo se non ad alcune cose e ai ricordi con esse intessuti, cose il cui senso potrà sempre però essere recuperato, mentre le persone sono perite o disperse o si interrogano, uscite dai percorsi delle solitudini stanziali immerse nella fantasia o del vagare e del nomadismo carico d’avventura. Quello del viaggio, e dello spazio, è un altro tema centrale nella poetica della scrittrice. I suoi viaggi sono gorghi d’energia che attraggono irresistibilmente, spinte cosmiche che si ripercuotono sugli umani. Una donna, la sorella di Chopin, di nome Ludwika, in I vagabondi, viaggia per riportare da Parigi a Varsavia il cuore del fratello; il monaco Paschalis dalla sua cella nei pressi di un convento nel bosco viaggia fino nella città di Glatz portando il suo destabilizzante panegirico di santa Kummernis perché a sua volta giunga infine a Roma. Una donna si spinge da una cittadina a una città più grande alla ricerca di un amore che le sussurrava le sue parole struggenti nel sogno, e la sua audacia fantasiosa viene premiata dalla sorte. Anche nella nostra esperienza ritroviamo il modo in cui si presentano le cose nei romanzi di Tokarczuk: tornano a comparire, senza temere di disturbare, fatti e personaggi che erano rimasti vivi e facevano cose anche mentre ci occupavamo e parlavamo d’altro. Cose per solito ignorate od oggetto di noncuranza, presenze invisibili come il pubblico della radio in attesa di essere attivato e protagonista secondo gli auspici di Walter Benjamin, o degli altri media o di internet, oggetti dimenticati, sognatori che narrano i loro sogni sui giornali di provincia o nella rete, vogliono parlarci e attraverso queste narrazioni possono farlo. I sogni si raccolgono in gruppi con qualcosa in comune, che colorano di sé le notti. Ci sono notti di fughe, notti di guerra, notti di bambini appena nati, notti di amori torbidi. Notti di vagabondaggi in labirinti – in alberghi, piazze, case dello studente o nelle proprie abitazioni. O notti in cui si aprono porte, scatole, valigie, armadi. O ancora notti di viaggi, quando chi sogna cerca di raggiungere stazioni, aeroporti, treni, autostrade, motel lungo il percorso, perde le valigie, aspetta i biglietti, si preoccupa di non riuscire a prendere la coincidenza. […] Se qualcuno fosse in grado di analizzare quanto mi limito a osservare, se quantificasse i personaggi, le immagini, le emozioni dei sogni, ne rielaborasse i motivi, [… ] collegando tra loro cose apparentemente impossibili da collegare, forse vi troverebbe […] una mappa di esili collegamenti o di rigidi orari. Di imprevedibili presentimenti e di algoritmi accurati. Tokarczuk osserva inoltre: Su tutta la terra, ovunque dormano delle persone, esplodono nelle loro teste piccoli mondi intricati che ricoprono la realtà come un tessuto cicatrizzato. Chissà, forse ci sono degli specialisti che conoscono il significato di ciascun sogno preso separatamente, ma nessuno che ne conosca il significato complessivo. Ma chi sogna e parla siamo in realtà noi stessi, o anche noi stessi, che ci scopriamo come mai prima sull’onda letteraria. In un gioco neoplatonico di alternanza del microcosmo e del macrocosmo, la voce universale dell’umanità diviene di colpo la nostra, e viceversa. Ci accorgiamo che ci stiamo ascoltando, conoscendo cose e dimensioni prima nascoste in noi, che trascendiamo noi stessi. Non è un caso che una delle componenti essenziali della riflessione e della fascinazione di Tokarczuk siano i confini. Confini di stato, con tanto di guardie confinarie e il fantasma dei contrabbandieri, confini fra fantasia e realtà, fra noi e gli altri, fra conscio e inconscio, fra vecchio e nuovo, fra jamais vu, jamais entendu, e le cose note e familiari. Fino a che non ci sorprendono diventando d’un tratto nuove e inquietanti. Tokarczuk abbatte inoltre la barriera fra mondo umano, vegetale e animale. Gli animali e anche le piante comunicano con gli uomini che vogliano ascoltare. Tra questi mondi i viventi appartengono come a una medesima sfera vitale, condividono una medesima sostanza. Guida il tuo carro sulle ossa dei morti è il titolo di un suo libro, che introduce il tema del mondo animale e del suo intimo rapporto con l’umanità. Ancora una volta una linea di confine che non è netta né invalicabile, una deriva della vita (o della non-vita) di cui non si vede il termine, una linea che si nega polverizzandosi per lunghi tratti, che diventa in altre pagine il rapporto uomo/natura. Una natura mitica naturalmente, come il dipanarsi della vita dei protagonisti, scrittrice inclusa. La frontiera fra umano e divino, fra terreno e ultramondano, come ogni altra del resto, è linea di attrazione verso mondi nascosti o lontani. Agognati o temuti, essi rispondono a bisogni profondi dell’umanità, al rinvenimento di paradisi o di nuovi oggetti da investire con le pulsioni sempre in cerca di nuove articolazioni, come ci insegnano la fantascienza e la letteratura fantastica col desiderio di nuove patrie e di nuove possibilità di realizzazione, pagando tuttavia il prezzo dell’ansia del nuovo e sconosciuto, e l’estraniante tensione dell’ignoto e del soprannaturale. Scoperte e conoscenza, gesti intrepidi e vibranti di epopee, che possono assumere i toni della tragedia, ma donano la scoperta del segreto della vita. Il tema del viaggio rivelatore è antico e compare in una storia del rabbino Eisik di Cracovia ripresa dai Chassidische Bücher di Martin Buber, studiata da Mircea Eliade. Ce ne riferisce Ernesto de Martino in La fine del mondo. Eliade riporta il commento dell’indianista Heinrich Zimmer (1890-1943) rispetto a «”fatto strano e costante” che soltanto dopo un pio viaggio in una regione lontana, in un paese straniero, in una terra nuova, si rivela a noi il significato esatto di quella vicinissima realtà umana che portiamo dentro di noi, nel profondo del nostro essere». La frontiera del sogno è percorsa e attraversata più volte nelle narrazioni di Tokarczuk. L’amore perfino va avanti e indietro lungo il suo confine e lo attraversa spesso, cercando un’immagine, una relazione, il sapore di qualcosa, il ricordo di una parola, di una situazione, una figura in cui si rispecchi e possa materializzarsi come nei racconti di doganieri in fuga dalla solitudine e dalle durezze di un ruolo astratto e spesso crudele, o di donne fantasiose, come quelle di Che Guevara e altri racconti di Tokarczuk, o simili a Ella Marchmill, la protagonista del racconto An imaginative woman di Thomas Hardy, chiuse in remote province o città che inseguono il mondo e in esso l’amore perfino per esseri umani sconosciuti ma idealizzati, col supporto del sogno e dei media. Lascia stupefatto il lettore più smaliziato il racconto, cui prima accennavo, di un’impiegata della banca di una piccola città che ode in sogno parole d’amore sublimi e irresistibili, sotto forma di vere e proprie allucinazioni uditive, diremmo se non si trattasse di prodigi poetici, completamente fuori del suo controllo. Estasiata, Krysia cercherà e finirà per trovare, dopo una ricerca febbrile su elenchi telefonici di varie città, l’indirizzo dell’amante del sogno, Amos, partendo dal suo solo nome. Amos (o A. Mos come recita la targa sulla sua porta in un gioco di allitterazione psicoanaliticamente delizioso) è un poeta che l’accoglie in casa, a Częstochowa, alla vigilia della sua fuga verso l’Occidente. L’incontro è l’occasione di un incontro erotico carnale cui Krysia non si sottrae considerandolo come prezzo del sogno, di cui esso è solo una pallida appendice. Ben più importante è aver letto sul foglio della macchina da scrivere di Amos il titolo della sua ultima poesia, composto dalle stesse parole che le erano comparse in sogno: Notte a Mariand. Lungo il confine fra la notte e l’alba, rimasto disperatamente solo senza cibo e soprattutto senz’alcool in una casa gelida, nell’ultimo episodio di un’altra narrazione carsica di Casa di Giorno, Casa di Notte, muore Marek Marek, che era stato un bambino bellissimo, dai «capelli quasi bianchi e un viso d’angelo», quasi ogni notte picchiato dal padre ubriaco. E muore impiccato, già stremato dalla disperazione, dalla stanchezza, dall’inedia e da un vuoto furore contro di sé, solo dopo vari tentativi maldestri, quasi per un errore nel calcolo della corda e dell’altezza della sospensione, forse senza averlo davvero voluto. Varca così il confine estremo ed entra nel regno dei morti. E allo stesso modo morirà Paschalis, che verrà ritrovato cadavere nella sua cella. Rimane incerta la linea di confine fra tutte le cose, e non c’è, come dicevo all’inizio, l’aspirazione a una sintesi universale o finale, ma piuttosto la deriva contemporanea di infinite storie. Tokarczuk sembra preferire la miriade di confini incerti e di cose diverse che si susseguono, che continuamente iniziano a sedurre, abbagliare, palpitare, e chissà se alla fine esse comporranno un mondo solo o tanti mondi. Un’epopea di tutti i mondi possibili e sognati in contaminazione continua fra sonno e veglia, una complessità e una disarmonia di fondo che la psicoanalisi postula e contempla come forse nessun’altra teoria della mente. Fra le cose riguardanti le linee di confine che vengono spesso trascurate c’è l’importanza del pieno e del vuoto che demarcano. La linea del profilo della brocca su cui ragiona Heidegger nel saggio Das Ding, che genera il fuori e un dentro vuoto, condizione indispensabile per avere un pieno. In un racconto si parla dell’uomo detto Tal dei Tali, colui che scopre il cadavere dell’impiccato Marek Marek, suo vicino di casa, ma è incredulo, nega ciò che ha visto, sicché poi il ricordo non può darsi, e gli si presenta invece uno spirito, un’apparizione che lo perseguita in casa propria. Sullo sfondo qui e anche nella vicenda di Ergo Sum “il licantropo”, si intravvede il concetto di Verneinung (diniego) in evoluzione fino a quello di Verwerfung (la forclusion di Lacan, ovvero una particolare forma di esclusione, letteralmente “pignoramento”), l’idea di qualcosa che per Freud sfugge alla raffigurabilità. Chi vede gli spiriti, spiega Marta, l’amica misteriosa della voce narrante, “è vuoto dentro”. E Tal dei Tali è così: È una di quelle persone che si immaginano Dio da una parte, e loro dall’altra. Tal dei Tali vede tutto al di fuori di sé, vede al di fuori di sé perfino se stesso, si guarda come guarderebbe una fotografia. Frequenta se stesso solo negli specchi. […] Solo quando si veste per il suo pellegrinaggio quotidiano a Nowa Ruda per comprare un pacchetto di sigarette […], quando si vede ormai pronto allo specchio, pensa a se stesso come a “lui”. Mai come a “io”. Si vede solo con gli occhi degli altri, perciò diventa così importante l’aspetto, la giacca nuova di tessuto sintetico, la camicia color crema il cui colletto chiaro fa risaltare il viso abbronzato. Perciò Tal dei Tali è fuori anche per se stesso. Dentro di lui non c’è niente che guardi dall’interno, dunque non ci sono riflessi. È in queste condizioni che si vedono gli spiriti. Ci sono regole apparentemente assurde e incomprensibili che regolano il flusso dei segnali nella realtà vera, e la fantasia sa abbracciare anche quel che non si vede o non tutti vedono e vi comprende gli spettri, o spiriti. La prontezza e dimestichezza nel commercio con l’irrazionale e il soprannaturale sono ancora indizi di competenza psicoanalitica. Sua prerogativa è la capacità di collocarsi in una disposizione di ascolto incondizionato, libera, capace di accogliere la sorpresa dell’inconscio e il perturbante incarnato nel rimosso, nel non oltrepassato, nel morto che non muore davvero senza il rito necessario, nell’invisibile, nel fantastico, senza paura di fronte all’ignoto, a eventi della vita e alla morte. Sembra, nel caso di certe narrazioni di Tokarczuk, di risentire le parole dei versi di Virgilio che Freud mette in esergo all’Interpretazione dei sogni: Flectere si nequeo superos, acheronta movebo. O le parole dell’antichità romana: mundus patet. Sono cioè aperte, in certe ricorrenze dell’anno, quelle in cui si celebra il rito del Mundus, le porte dell’Ade, ed entrano in contatto il sulfureo mondo sotterraneo e quello solare e mercuriale, cangiante, dei viventi. In quei giorni tutte le normali attività vengono interrotte, tutto resta sospeso. Nella scrittura di Tokarczuk queste porte sono aperte tutto l’anno. La scrittrice si avventura come in trance, in certe pagine, nella terra di nessuno fra veglia e sogno, fra vita e morte, immersa in un mondo magico in cui ciò che accade non corrisponde necessariamente a quanto ordinato nelle conoscenze della razionalità umana, della scienza, del senso comune. Una mano dei convenuti in una calda terrazza toccava le pesche, tutte le mani in un istante impercettibile toccavano le pesche; una foglia sfiorava cadendo una susina, e compariva nella conversazione la parola “sfiorare”, senza che nessuno ci facesse caso. Allora mi veniva in mente che in qualche modo mi stavo avvicinando alla fine. Che era scoccata non so quale dodicesima ora […]. Che avevo già cominciato a morire, e prima che ciò si compisse avrei visto tutto in quel modo sbalorditivo da sotto, dalla parte della geometria degli avvenimenti […]. Non mi sarebbe rimasto altro che stupirmi di non aver scorto fino ad allora un ordine così evidente, un ordine che per giunta non era dove credevo − nei pensieri, nelle idee, negli schemi matematici, nel calcolo delle probabilità – ma negli avvenimenti stessi. L’asse del mondo è fatto di configurazioni iterative di istanti, movimenti e gesti. Non accade nulla di nuovo. (Da Casa di Giorno, Casa di Notte). Il protagonista di un episodio di Casa di giorno, Casa di notte, di nome Pieter Dieter, va a morire dopo una faticosa arrampicata in montagna giusto sulla linea di confine fra Polonia e Repubblica Ceca. Le guardie confinarie di una delle due parti lo tireranno dall’altra parte dove sarò trovato dai gendarmi in perlustrazione. Ma chi sono in realtà le guardie confinarie? La scena che calchiamo è un mondo di contrasti, di indecidibilità, in cui ancora una volta riecheggia la parola di Freud. Un mondo di incertezza e conflitto che non è solo esterno ma investe il soggetto nella sua massima intimità, nel gioco di specchi che si instaura con figure di identificazione e proiezione speciali come il personaggio di Marta, l’amica misteriosa. Un confine che è solo virtuale ed è sempre attraversato da immagini, ricordi, esperienze psichiche di vario tipo che convocano l’impensato. Le cose più strane. Olga Tokarczuk, come dicevo, parla spesso di sogni. Addirittura racconta di averne cercato di sempre nuovi attraverso rubriche dedicate sui giornali di provincia e su internet. Una Traumdeutung mediatica si afferma nelle sue pagine come disposizione della mente, riflessa e rifratta nel prisma delle schiere di sognatrici e sognatori che pubblicano i loro sogni. Per quanto pronta ad accogliere frantumi sparsi di parole e pensieri, Olga Tokarczuk narra storie che si articolano fra loro secondo una causalità infine decifrabile in ipotesi almeno, per cui si ricostruisce un senso simbolico. La struttura del romanzo è per frammenti che sembrano nascere da associazioni libere. Solo una psicoanalista/scrittrice può accogliere e accostare con tanta naturalezza segnali vaghi, impulsi, ricordi e sogni, frammenti di storie, storie non correlate da un senso percepibile, ricorrenze di temi apparentemente esauriti che continuano a ritornare con nuovi particolari, all’interno di un’architettura letteraria sempre provvisoria. La quale forse in un futuro asintotico, per dirla parafrasando Freud, troverà un suo compimento unitario nella ricomposizione della pluralità delle sue parti, integrando cose secondo criteri inaspettati o non immaginabili comunemente, perché rispondono a una logica speciale. Parlando della “divinazione attraverso il cielo”, di come si possano leggere le nuvole, e altri segni che su quello schermo si formano in “disegni diafani”, un personaggio del romanzo, R., immagina di poter riprendere dei fotogrammi del cielo per intere stagioni servendosi di uno stativo, partendo dalla primavera. «Punterà l’obiettivo verso il cielo, al di sopra delle cime dei due abeti gemelli, e lo lascerà così fino all’autunno. Ogni giorno farà una fotografia […]. Si potranno ricomporre tutte le fotografie come in un puzzle. Oppure sovrapporle grazie al computer. Oppure» − sono queste le ultime parole del romanzo Casa di giorno, Casa di Notte − «con l’aiuto di un qualche programma, elaborarle in modo da ottenerne un unico cielo. E allora sapremo». Note [1]”Un popolo di nomadi slavi che si spostano di continuo confidando sull’accoglienza delle persone”, è la descrizione che dà dei Bieguni Luigi Oliveto in Toscanalibri.it, riv. online, del 17/10/2019. Come riferisce Francesco M. Cataluccio, i “bieguni” del titolo erano, nel mondo slavo fino al XVII secolo, come i “benandanti” del Friuli (studiati da Carlo Ginzburg nell’omonimo libro pubblicato da Einaudi nel 1966): una sorta di setta di mistici vagabondi convinti che il Male aggredisse gli uomini nel momento che stavano fermi. La salvezza consisteva nel muoversi incessantemente. [2] Frase riportata da Francesco M. Cataluccio Bibliografia Benjamin, W. (1929-1933) Cinque testi raccolti in Radio Benjamin, tr. It. di Nicola Zippeli (Roma: Castelvecchi 2014). Cataluccio, F.M. (2019) Lo sguardo di Olga Tokarczuk, «Doppiozero», rivista online, 14/10/2019. . de Martino, E. (1948) Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo (Torino: Einaudi) (Torino: Bollati Boringhieri 2007). ID, (2019) La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Nuova edizione a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio (Torino: Einaudi). Heidegger, M. (1949-1950)“Das Ding”, in Bremer und Friburger Vorträge 1. Einblick in da was ist. 2 Grandsätze de Denkens, a cura di P. Jaeger (Frankfurt am Main: Klostermann 1994). Tr. it. , Conferenze di Brema e Friburgo, a cura di P.G. Jaeger, ediz. italiana a cura di Franco Volpi, trad. di G. Gurisatti, Collana Biblioteca Filosofica n.21 (Adelphi: Milano 2002). Michelet, J., (1862) La sorcière (Paris: Librairie de L. Hachette et Co.). Tr.it. di M.V. Malvano, La strega, (Torino: Einaudi, 1980). Singer, I. B. (1971), Alla corte di mio padre”, Milano, Longanesi, p. 15, in I. B. Singer (1998) Singer, Racconti (Milano: Mondadori). Tokarczuk, O., (1996), Prawiek i inne czasy, tr. it. di R. Belletti, Dio, Il tempo, gli uomini e gli angeli (Milano: e/o 1999) e di R. Belletti, Nella quiete del tempo (Roma: Nottetempo 2013).(1998) Dom dzienny, dom nocny (Wałba). Tr. It., Casa di Giorno, Casa di Notte, (Roma: Fahrenheit 451). (2001) Gra na wielu bębenkach (Wałbrzych: Ruta). Tr. it. Che Guevara e altri racconti, Curatore S. De Fanti (Udine: Forum Editrice 2006). 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