Un altro giorno di morte in America: intervista a Gary Younge
Younge, per oltre un decennio corrispondente di punta negli Stati Uniti del quotidiano The Guardian, di cui ora è editorialista insieme ad altre testate come The Nation e The New York Review of Books, ha una cattedra di sociologia all’Università di Manchester ed è attualmente visiting professor presso la London South Bank University.
Un altro giorno di morte in America è un testo fondamentale, citato spesso in queste settimane, per contestualizzare quanto sta avvenendo oltreoceano, ma non solo, dopo la morte di George Floyd. Nei giorni della rivolta nelle città americane, la lucidità storica delle analisi e il racconto oltre la cronaca di Younge, consentono di risalire alla radice della violenza. Fra i suoi libri ricordiamo anche The Story Behind Martin Luther King’s Dream, che riprende e attualizza l’eredità del Movimento per i diritti civili.
Younge, ha mai provato la paura di essere un nero in America?
«In generale, in Occidente, vivere la pelle nera induce un senso di prudenza che diventa quasi una seconda natura nella maggior parte delle persone. È esattamente la stessa sensazione che provano le donne, quando viene loro suggerito di non andare in alcuni luoghi, di evitare talune situazioni o atteggiamenti. In ogni paese si esprime in forme diverse e ovunque manterrei un comportamento cauto».
George Floyd non è stato il primo afroamericano ucciso dalla polizia. Qual è stata la scintilla ha acceso il fuoco di una rivolta radicale anche nei contenuti?
«L’alchimia esatta che rende una morte totemica e le altre una triste routine non è chiara. Stavolta è stata ripresa da una videocamera. Ciò spiega in parte la differenza, perché, malgrado le morti violente di Michael Brown e Trayvon Martin non fossero state videoriprese, furono ugualmente esplosive. Un elemento è il fattore destabilizzante del linguaggio vicino al suprematismo bianco di Donald Trump».
Sei anni fa le proteste, seguite all’omicidio di Michael Brown a Ferguson in Missouri, hanno tracciato la strada del movimento Black lives matter. Che cosa rappresenta oggi?
«Ha una struttura fluttuante che sa innervarsi nelle ribellioni, quando irrompono. Senza leadership o congressi annuali non è un movimento nella definizione classica. Ha il potere comunicativo virale di un hashtag, che quando è necessario riesce a coagulare le proteste».
Il tasso dei detenuti afroamericani è sei volte più alto dei bianchi americani. Questa differenza quanto dipende dal sistema giudiziario?
«L’America è stata schiavista per duecento anni. Per cento anni ha mantenuto un sistema di apartheid e possiamo considerarla solo da 55 anni una democrazia non fondata sull’esclusione razziale. La premessa per qualunque cambiamento è l’ammissione che il sistema giudiziario e penale statunitense riflette il razzismo incorporato nella cultura, nella politica e nell’economia».
Il concetto del “post razziale” mostra sempre più la propria inconsistenza?
«Questa definizione, che ha cercato di edulcorare la realtà della discriminazione, non ha mai avuto senso. Quando un afroamericano a Washington ha un’aspettativa di vita più bassa di una persona nella striscia di Gaza, è grottesco parlare di una società post razziale. La razza non esiste, è una costruzione, tuttavia il razzismo è reale».
Prendendo atto dello stato delle cose, qual è l’eredità del Movimento per i diritti civili?
«Quella lotta ha ottenuto il diritto di voto e aiutato a creare una classe media nera. Il Movimento ha sancito il diritto di ognuno di entrare, sedersi e mangiare al ristorante. Ma non ha conquistato l’eguaglianza economica che consentirebbe di permettersi tutto quanto è scritto nel menù. Ha dato agli afroamericani l’eguaglianza formale ma non quella sostanziale».
Da giornalista ha raccontato l’impatto disastroso dell’uragano Katrina sulle minoranze. Sembrano sussistere molte analogie con la pandemia.
«Con la tempesta Katrina sono emerse con evidenza le disuguaglianze. Se ne sono accorti i media e la politica, esclamando: “Davvero le cose vanno così male”? Nei giorni di quell’emergenza ricordo le parole di una figura che si occupava di gestire gli aiuti: “Stiamo guardando i volti delle persone che nella normalità facciamo finta non esistano”. Quando la verità è che ormai da decadi si accentua il divario sociale. Non è il virus, che ha scatenato la pandemia, a discriminare ma la società. La pandemia fotografa il sistema razzista in maniera meno drammaturgica e d’impatto della ripresa video di un assassinio da parte di un poliziotto».
Ci fornisce qualche dato significativo della disparità?
«In Michigan, gli afroamericani corrispondono al 14% della popolazione. Il 33% di chi ha contratto l’infezione e il 40% delle morti sono riscontrate in questa minoranza. In Kansas gli afroamericani morti per il Covid 19 sono sette volte i bianchi. Tornando invece a Katrina, quando ha colpito, un terzo degli afroamericani in Louisiana viveva già in povertà; nello Stato il tasso di mortalità infantile tra i neri era peggiore dello Sri Lanka e l’aspettativa di vita equivalente a quella di un uomo in Kirghizistan».
In giornate particolarmente complesse il presidente emerito Obama ha assunto una nuova centralità. Qual è stato il suo impatto al potere?
«Era ed è amato dai liberali e dagli afroamericani. Il suo saper essere misurato, l’indiscussa qualità oratoria, la generosità e lo spirito bipartisan producono un contrasto forte con Trump. E molti rimpiangono quello stile. Ma i fatti ci dicono anche altro. Durante la sua amministrazione il divario economico tra neri e bianchi americani è cresciuto come l’indice della povertà tra i neri. Il movimento Black lives matter è nato, quando era presidente. Dobbiamo ammettere che l’impatto di Obama è stato più che altro simbolico».
Trump pagherà elettoralmente la doppia crisi: pandemia e rivolte?
«Forse. O potrebbe capitalizzare allargando la frattura che esiste nella società. Il candidato democratico Joe Biden non ha ancora dimostrato la forza necessaria alla leadership».
Quali sono le tre radici principali della violenza che ricostruisce in Un altro giorno di morte in America?
«La proliferazione delle armi, il maschilismo e la povertà».
In che cosa si distingue il razzismo tra le due sponde dell’Atlantico?
«Praticamente tutti i Paesi occidentali hanno gerarchie di classe e legate al colore della pelle. Tuttavia sono pochi i Paesi come gli Stati Uniti in cui le distinzioni di classe e le disparità razziali sono così in contraddizione con il sistema di credenze che fonda la nazione. Mentre l’Europa, in una pretesa di diversità dall’America, sembra dimenticare gli esiti del proprio passato coloniale e delle forme attuali del razzismo. Si piange per Floyd senza ricordare il bracciante Jerry Masslo, fuggito dall’apartheid in Sudafrica per essere ucciso nel 1989 in Italia».
Qual è il collegamento?
«Nella storia l’Europa ha esternalizzato fuori dai propri confini la schiavitù, il colonialismo e la segregazione. L’America invece li ha interiorizzati. Fra gli europei che sostengono a livello transnazionale la ribellione dell’America nera c’è una sorta di illusione di considerarsi migliori. La morte di Floyd non è soltanto un omicidio ma la metafora della crisi che attraversa le democrazie».
Pezzo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/
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